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Autore: Darling Eleonora    24/01/2013    1 recensioni
MirabellCity, una girovaga che dall’apparenza non sembra, un desiderio espresso da una moneta fatta cadere in acqua, un negozio di souvenir, un cannocchiale, il guardiano di un faro, le campane della chiesa vicina, due conchiglie identiche. Una storia da raccontare...
Espresse il suo desiderio; l’unico che avesse mai voluto realizzare davvero. In realtà non le era mancato mai nulla, tutto quello che le serviva era la sua piccola valigia e sé stessa. Ma la cosa che crescendo aveva iniziato a bramare era diversa, ne parlavano tutti con una strana cadenza dolce da lei incomprensibile.
Mentre stava per lanciare nella fontana il simbolo del suo prezioso desiderio, sentì il giovane stringere la mano ancora intrecciata alla sua, alzando la voce:
-Sei pronta? Adesso!
Così facendo lanciarono le monetine che volarono in cielo a rifletterne la luce per poi far sentire il loro schiocco a contatto con l’acqua della fontana alle loro spalle, lei si voltò stupita.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo Ventesimo

 


- Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando.
Silenzio
- Che sia troppo tardi, madame ...  
[A. Baricco, Oceano Mare]


La pioggia picchiettava insistente sul vetro della finestrella nella loro casa al faro, e fu questo a svegliarlo, ma non se ne dispiacque. Adorava quel rumore rilassante, soprattutto in una domenica mattina come quella, e adorava anche il fatto che potesse bearsene e non essere percosso da brividi freddi per il vento che circolava fuori, doveva ringraziare solo la persona che riposava al suo fianco e che gli infondeva calore.
Lui, nella sua mente la vedeva come una rondine, perfetta, alta nel cielo e pura, che aveva portato con se la primavera.
Il ragazzo nel letto voltò la testa per andare ad osservarla meglio: il viso era vicinissimo al suo, i lineamenti rilassati e gli occhi chiusi a nascondere il loro profondo colore oltremare, le lunghissime ciglia chiare che arrivavano quasi a sfiorarle i rosei zigomi, la pelle intorno porcellana e la morbida chioma distesa che lo carezzava dappertutto. Aveva il respiro regolare che fuoriusciva con piccoli sussurri dalle morbide labbra e, come ogni volta, la consapevolezza che fosse rivestita soltanto dal lino bianco del lenzuolo che li copriva, lo faceva emozionare ancora come se fosse la prima volta.
Dopo due anni trascorsi insieme, il cuore li batté ancora più forte ai ricordi di quel lungo ma anche breve tempo passato insieme. A tutte le volte che lui rientrava dal lavoro e notava che lei era sempre impegnata in qualcosa: la trovava con i capelli arruffati e pieni di foglie quando creava delle composizioni di fiori secchi, oppure piena di sbuffi di vernice sul volto perché era intenta a dipingere, o quando si protendeva ad abbracciarlo e notava le sue mani delicate impastate di argilla perché un attimo prima la stava amalgamando per ricavarci un vaso.
Adorava quei momenti, perché ogni volta che lui entrava in casa, lei non si accorgeva della sua presenza e anche se lui la coglieva di sorpresa e lo rimproverava, entrambi erano consapevoli di quanto fosse dura da sopportare la mancanza quando non stavano insieme anche solo per poche ore. Allora si baciavano con trasporto, ignorando la stanchezza e le parole, e lui, non importava che lei fosse sporca di tinta o quant’altro, dovunque fosse, se davanti a una tela dipinta, se chinata sopra un piatto rotante con l’argilla o con imbraccio un vaso di fiori secchi, la interrompeva senza la minima paura di recarle offesa. Quindi la sollevava e lei allacciava le gambe al suo busto per far aderire meglio i loro corpi ormai senza la minima ombra di imbarazzo, e poi la posava delicatamente sulla superficie del loro tavolo in marmo, mentre la teneva ben stretta per non farla infreddolire, per poi amarsi ardentemente.
Ma ogni volta che si è felici la felicità viene sempre incrinata per colpa di qualcosa.
Nel suo caso era la paura, paura folle di perderla. E come ogni fine stagione, lui aveva paura di perdere la sua felicità, temeva che tutto il suo mondo svanisse nell’istante in cui lei potesse decidere di andarsene come era solita fare nella sua vita precedente. Proprio come una rondine che migra.
La mattina era il momento della giornata dove si rilassava di più, perché li dava la certezza che avrebbe potuto passare un altro giorno insieme a lei. Si svegliava sempre per primo, anche se non era affatto un tipo mattiniero, e restava fermo immobile ad osservarla, ad accarezzarle impercettibilmente i fianchi sopra le bianche lenzuola che sapevano di loro, a sentire il suo respiro regolare ricadergli sul proprio viso, e poi ammirare l’esatto momento in cui questo si fermava, le sue palpebre tentennavano e i suoi occhi che scaturivano purezza mostrare decisi il loro intenso colore, quasi sembrassero privi di sofferenza ed esperienza, giovani. Ecco come erano i suoi occhi: mai stanchi di essere inesperti nonostante tutte le cose, tutte le persone su cui si erano posati, mai stufi di imparare.
E questo era ciò che diceva ogni volta:
-Sei sveglio da molto? Dovevi chiamarmi…
E gli sorrideva a labbra chiuse, con un’espressione involontariamente tenera di rimprovero sul volto.
Quella mattina, come sempre, le diede un bacio a fior di labbra, ma stavolta fu diverso e se ne accorse anche lei: tormentato e frustrato, il che la fece preoccupare, ma non disse niente per paura di aver fatto qualcosa di sbagliato.
Ma il motivo era perché il solo pensiero che tutto questo potesse andarsene dalle sue mani era un’ombra terrorizzante che lo tormentava.
 
Nel pomeriggio si era concentrata interamente su un grande vaso in ceramica che doveva vendere al mercato dell’antiquariato che si teneva tra meno di un mese, nella capitale.
Lui aprì la porta di casa e se la richiuse frettolosamente alle spalle per poi togliersi la giacca sprovvista di cappuccio e appenderla all’ometto nell’ingresso.
Gli bastò girare di pochi gradi la testa per notare tutto quel disastro, per notare lei.
Aveva i capelli raccolti con alcune ciocche fuoriposto, segno che stava lavorando, una salopette da lavoro macchiata di varie pennellate di tinta, la stessa blu cobalto e arancione pallido che stava utilizzando in quel preciso momento, di cui aveva cosparso la cucina. I primi tempi fu sorpreso da quanto disordine potesse essere causato da una sola persona, il tavolo da pranzo dalla base in marmo era cosparso dagli stessi fiori essiccati del giorno prima che lei ogni volta preparava per le sue composizioni.
-Hei…
Si avvicinò e la prese per i fianchi, lei si voltò stupita.
Il viso ad un palmo dal suo, un gesto che adorava fare per vederla meglio: le ciocche scomposte di quei capelli chiarissimi e il suo grazioso viso tinto da piccoli buffetti causati dalle sue distrazioni.
-Ah! Lo sai che non devi interrompermi quando sto lavorando! Poi mi fai fare dei disastri…
Gli disse posando i pennelli e strofinandosi con un panno umido posato lì vicino.
-Non mi hai nemmeno sentito entrare..
-Ma guardati, sei tutto bagnato! Ti prenderai un raffreddore!
Adorava il modo in cui lo rimproverava, gli ricordava la madre. Qualcuno che tenesse a lui e si preoccupasse e di cui aveva sempre sentito la mancanza.
-Vado a prenderti un asciugamano…
Fece per sciogliere la sua presa ma lui la trattenne.
-No.
Lei notò la sua espressione, gli posò le mani sul viso bagnato, la sua pelle rabbrividì a contatto con la sua gelata, ma quella sensazione non le fu scomoda. Pose i palmi delle mani sulle sue guance e gli occhi a sorreggere il suo sguardo, deciso ma non insistente, le sue iridi verdi e vitree sembravano volessero leggerle, lasciarsi sorreggere dal suo animo. Così allungò le mani fino a farle scivolare dietro la nuca bagnata del ragazzo fino ad abbracciarlo e a posizionare il suo volto all’incavo del proprio collo, per cullarlo e confortarlo.
-C’è qualcosa che non va?
 Gli chiese con il tono più delicato che potesse avere, carezzandogli i capelli e respirando il suo profumo che grazie alla pioggia era divenuto più intenso. Lui in risposta le strinse ancora di più i fianchi, circondandola completamente:
-Anise…
Alzò la testa e si raddrizzò, con una lentezza estenuante avvicinò il viso ancora di più al suo mentre i suoi occhi erano intenti a fissare la sua bocca. Dopo qualche istante, sommersi nei loro respiri divenuti accelerati, finalmente posò le labbra sulle sue in un bacio lieve che andò ad approfondirsi ogni istante di più, divenendo profondo e lento. Lei accigliata si scansò e tentò di domandargli:
-A-almond…?
Lui la ignorò e con foga cercò nuovamente la sua bocca e continuò imperterrito a baciarla, premendola e assaporandola con più passione ma anche con tormento. Lei allora, vinta, rispose. Lo strinse maggiormente a sé, cercando però di non farsi trasportare troppo così da non reagire egoisticamente al proprio piacere ma per avere la lucidità di preoccuparsi per lui, sapeva che lo faceva apposta per distrarla.
Lui se ne accorse e si staccò ritornando dalla bocca a fissarla negli occhi.
-Tu mi ami?
Lei rimase interdetta ma poi sospirò sollevata e sorrise appoggiandosi al ripiano.
-Perché questa domanda?
-Ti sembra il caso di rispondere ad una domanda con un’altra domanda?
-L’hai appena fatto.
Lui si zittì e le lanciò uno sguardo cupo.
-Cosa c’è?
-Rispondimi, per favore.
Non seppe cosa trovò in lui per riuscire a farla rispondere, forse angoscia, stanchezza, e dopo qualche attimo di incertezza si decise a parlare:
-Io…
Qualcuno bussò alla porta, facendogli distrarre. Lei si distaccò completamente da lui e si tolse la povere dai vestiti.
-Oh, è meglio che vada ad aprire…
-No…
Lui le afferò un polso prima che potesse allontanarsi, lei gli rivolse uno sguardo confuso.
-Rispondimi.
-Adesso non è il momento!
Nel mentre alla porta qualcuno bussò di nuovo, con più insistenza.
-Anice…
La chiamò nuovamente.
-Adesso lasciami andare ad aprire, per favore.
-Non prima che tu non mi abbia risposto.
Lei lo guardò contrariata, stava per arrabbiarsi.
-Tutto questo non ha senso!
-Ha senso per me, perché io…!
Lui la attrasse a sé nuovamente, stringendole il polso.
-Adesso basta, mi fai male!
Gli disse strattonandolo per liberarsi dalla stretta, massaggiandosi il polso.
-Ma che ti succede oggi?!
I due si osservarono negli occhi per una manciata di secondi, era successo tutto così velocemente che non c’era stato tempo per pensare. Lui aveva un’espressione vuota, quasi sconvolta dal suo stesso gesto, aprì le labbra per chiederle scusa ma un’altra voce giunse alle loro orecchie:
-Anice? Anice, sono Vanille! Ci sei vero? Dobbiamo parlare del pranzo di  domenica, per la Festa della Fondazione!
-Arrivo Vanille!
Disse all’amica senza però distogliere lo sguardo da lui. Poi indietreggiò ancora e finalmente si voltò per andare da Vanille; lasciando il ragazzo da solo, in piedi, deluso da se stesso.
 
  
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