Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses
Segui la storia  |       
Autore: La neve di aprile    16/08/2007    4 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

HAND IN GLOVE
#8 HERE WITHOUT YOU



 

PARLA ROXANNE:

Il destino.
L’uomo ha un rapporto controverso con il destino.
Lo ama, quando si mostra favorevole ed esaudisce ogni desiderio.
Lo odia, quando invece è avverso e ci ostacola nei nostri progetti.
Lo ignora, quando semplicemente non ne ha bisogno.
Il destino, Izzy. 
Non ci hai mai creduto; snobbavi oroscopi, oracoli, cartomanti e chiunque si offrisse di scrutare nel tuo futuro.
Spesso mi sono chiesta se la tua fosse testardaggine o paura.
Paura di scoprire cose terrificanti, echi di un passato che avrebbe potuto tornare a bussare alla tua porta.
La tua infanzia, la tua adolescenza.
Non ti chiesi mai di parlarmene perché sapevo che l’avresti fatto malvolentieri e, complice il mio amore, non volevo che tu andassi a rivangare qualcosa che ti avrebbe potuto far soffrire.
Sbagliai, Izzy?
Che la chiave per capirti stesse proprio in un passato, in un nome, che avevi rifiutato?
Che Jeff Isbell fosse il punto di partenza per capire Izzy Stradlin?
Sapevo che c’erano cose legate a Jeff, cose che volevi disperatamente dimenticare e che rifiutavi, e cose legate ad Izzy, ricordi che non avevi paura di mostrare.
Ma temo che ormai sia tardi per poterti chiedere qualsiasi cosa.

 

I'm here without you baby
But you're still on my lonely mind
I think about you baby.
 

3 Doors Down, Here without you.

 

SOMEWHERE IN THE U.S.A, febbraio 1988

Izzy sbadigliò vistosamente, allungando le braccia verso il soffitto del pullman e lasciandole poi ricadere sui cuscini.
Era notte fonda e il motore del mezzo continuava a ringhiare sommessamente, divorando chilomentri d’asfalto consumato, sporco di terra portata dal vento, sfregiato dai segni di frenate troppo brusche finite chissà come e chissà dove.

In lontananza, su un orizzonte piatto e monotono, a tratti costellato dalle piccole luci di qualche paesino, la luna splendeva maestosa in un mare di tenebra, addolcendo un paesaggio altrimenti spettrale con i suoi freddi raggi argentanti.
Le stelle, piccoli diamanti appuntati sullo strascico vellutato della notte, splendevano remote, fragili come mai prima d’ora agli occhi assonnati del chitarrista.

Le vedeva apparire e scomparire senza logica, intermittenti come le luci che Roxanne aveva usato per decorare il suo minuscolo albero di natale qualche mese prima: un attimo prima c’erano, un attimo dopo non più.
Appoggiò la fronte contro il finestrino di plastica, chiudendo gli occhi.

Avrebbe dovuto dormire, ne aveva bisogno: erano partiti la mattina all’alba, dopo aver passato le ultime ventiquattro ore a firmare autografi, rilasciare interviste, partecipare a servizi fotografici e talk show di cui fino a quel momento aveva allegramente ignorato il nome.
Non una pausa, non un momento per visitare la città.

Non era nemmeno riuscito a salutare Roxanne, partita il giorno prima con il primo aereo del mattino per ritornare a Los Angeles, dove l’avrebbe rivista chissà quando, dal momento che giusto qualche ora prima, mentre buttavano giù un panino e una birra in uno squallido fast food sulla strada, il loro menager li aveva informati sui loro prossimi impegni futuri ed era saltato fuori che, per un motivo o per l’altro, non avrebbero avuto un solo giorno libero per settimane.
Sbuffò, senza nemmeno più sobbalzare ad un ennesima imprecazione di Steven che, a causa del fondo stradale particolarmente dissestato, era di nuovo andato a sbattere con la testa contro una mensola, mentre tentava di prepararsi un sandwich.
“Fanculo.” sibilò il batterista, chiudendo con forza una portellina e lasciandosi cadere sul divanetto di fronte ad Izzy.
“Rinunci?” chiese questi, senza smettere di guardare il cielo.
“Cazzo, si! Domani avrò qualcosa come tre dannati bernoccoli per colpa di queste strade di merda. Ma si può sapere cosa cazzo fanno alla Casa Bianca con tutti i soldi che sborsiamo in tasse cazzo?” sbottò il biondino, parlando tutto d’un fiato. Izzy sorrise del suo sdegno.
“Comprano nuove poltrone per i loro grassi culi.” rispose con aria solenne.
“Dovremmo scrivere una fottura lettera di protesta.” sospiro, abbracciando un cuscino.
Rimasero in silenzio per un po’, mentre l’autista fischiettava una vecchia canzone di Bob Dylan per ingannare il tempo.
Slash mugugnò qualcosa nel sonno, tirando inavvertitamente i capelli ad Axl - che dormiva con la testa posata sulla spalla -: il cantante borbottò qualche protesta, agitandosi e colpendo Duff con una gomitata.
Il bassista continuò a dormire, senza fare una piega.

“Senti un po’..” riprese alla fine il batterista, che non trovava per niente appagante guardare il panorama o gli altri ragazzi intenti a massacrarsi a vicenda anche da addormentati “Sei poi riuscito a parlarle?”
“Con chi? Roxanne?” il chitarrista scosse il capo “No, non sono riuscito a trovarla prima. Non era a casa.”
“All’Underpass?” indagò il biondino, accendendosi una sigaretta e offrendone una all’amico, che accettò ringraziandolo con un cenno, prima di rispondergli.
“Non ho avuto il tempo di provare.” la fiamma dell’accendino scattò, presto seguita da una nuvola di fumo “Ma ho paura che non mi voglia sentire, mi fa strano che non fosse a casa.”
“..ti ha mai sfiorato l’idea che possa esser uscita?” azzardò Steven, aggrottando la fronte.
“No, non esce mai quando è di cattivo umore perché..”
“...perché aspetta una tua telefonata per sfogarsi e farti arrivare al volo.” concluse il batterista, con un sorriso indulgente.
Detta in altre parole, magari non vuole sentirti.
Si spostò accanto al chitarrista, posandogli una mano sulla spalla.
“Dai non ti preoccupare. Sarà al lavoro, sai quanto le piace stare in quel buco, no? Non ti sta evitando. Non lo farebbe mai!”

“E tu come lo sai?” indagò Izzy, sospettoso. Steven rise sottovoce, per non svegliare gli altri tre, felicemente persi nel mondo dei sogni.
“Certo che sei idiota forte se sei geloso di me, sai?” esclamò, con un sorriso luminoso.
“N--non sono geloso!” protestò il chitarrista, arrossendo suo malgrado “E solo che siete sempre appiccicati e anche l’altro giorno, durante il concerto...”
“Ed è per questo che lei hai detto di andar via invece che di passare la serata con noi?” ruggì l’altro, afferrandolo per il bavero della camicia e agitando la sigaretta vicino al suo viso.
Izzy deglutì.
Non aveva mai visto Steven arrabbiarsi in quel modo. E così rapidamente, poi!

“Beh, anche, ma comunque cosa centra? È lei che mi ha risposto male per prima!” ammisse, facendosi piccolo piccolo.
Il batterista lo guardò senza dire una parola, prima di lasciarlo andare e spegnere la sigaretta.

“Caro il mio Izzy,” sospirò sconsolato, “non so proprio che dirti a questo punto. E quindi me ne vado a letto, buona notte.”
Il chitarrista non rispose – non lo avrebbe mai ammesso, ma non sapeva proprio cosa dirgli -, lo salutò con un cenno e si accesse un’altra sigaretta.
Non è colpa mia, si disse per la centomillesima volta, tamburellando nervosamente le dita sullo schienale del divanetto, è lei che mi ha risposto male, è lei che mi fa venire un infarto e se ne frega altamente! Che cazzo!

Aggrottò la fronte, sentendo chiaramente i borbottii di Steven circa la sua stupidità.
“Ti sento Adler!” strillò vagamente offeso, causando un picolo concerto di mugolii infastiditi  tenuto da Axl, Slash e Duff, praticamente accatastati l’uno sull’altro su un altro divanetto.
Ai loro piedi, un mazzo di carte era sparpagliato tra lattine di birra vuote accartocciate su se stesse e posaceneri pieni di mozziconi.

Imbronciato, tornò a guardare fuori dal finestrino.
“Non è colpa mia se lei è testarda come un mulo incazzato.” sussurrò alla luna, che ricambiò il suo sguardo da dietro una nuvola leggera.
Ebbe un po’ l’impressione che l’astro lo guardasse con rimprovero, al punto che abbassò gli occhi, abbracciandosi le ginocchia e inspirando una generosa boccata di fumo.
E se invece fosse tutta colpa mia? Si chiese, inorridendo all’idea.
Fu in quel momento, che Slash disse qualcosa, la voce roca e impastata.

“Si, sei un vero idiota, è tutta colpa tua cazzone!” sbottò, girandosi su un fianco e facendo crollare la testa di Axl sulla sua schiena.
Izzy sobbalzò, alzandosi cautamente in piedi e allungando il collo per capire se il chitarrista stesse dormendo o meno: a guardalo, era profondamente addormentato.
Ma con Slash non si poteva mai sapere, più di una volta era capitato che, credendolo addormentato, lui e Roxanne si fosse lasciati un po’ andare, salvo poi scoprire che non stava affatto dormendo.

Si bloccò, ritraendosi.
E adesso perché pensava a Roxanne? In fondo era arrabbiato.
Era arrabbiato con lei, non doveva pensare a lei.
Tornò a sedersi sul divanetto, del tutto deciso ad allontanare la ragazza dalla sua mente fino a quando non si sarebbe fatta viva lei per chiedergli scusa.

Lo sguardò cadde di nuovo sul panorama, ancora immutato.
Davanti a lui si estendevano chilometri di nulla, un nulla piatto e brullo che si perdeva nel buio, dove i fari del pullman non riuscivano ad arrivare: decisamente non un buon modo per far passare il tempo.
Certo, se ci fosse stata Roxanne avrebbero potuto giocare a carte o... cancellò immediatamente il pensiero.
Non-doveva-assolutamente-pensare-a-lei.
C’erano mille cose di cui doveva preoccuparsi, mille cose da fare, mille cose da organizzare.
Peccato non gliene venisse in mente neanche una.

Chiuse gli occhi, concentrandosi.
Pensa, Stradlin, pensa.
La tourneé era appena finita, avevano inciso poco tempo prima quattro nuove tracce, di cui una interamente acustica, solo chitarre e...Bingo! Chitarre! Aveva bisogno di una nuova chitarra, ecco come poteva riempire il tempo!
Un largo sorriso gli illuminò il viso, mentre chiudeva gli occhi soddisfatto, richiamando alla mente tutte le splendide chitarre che aveva intravisto a New York.
Aveva avuto per le mani un paio di Gibson assolutamente fenomenali.
Una byrdland, in particolare, lo aveva colpito.
Accantonò però l’idea di comprarla, ricordando le smorfia che aveva fatto la ragazza vedendogliela in mano.
E’ inguardabile aveva decretato decisa, trascinandolo via e fermandosi solo davanti ad una Fender nuova di zecca, con gli occhi luccicanti e...
Di nuovo, scacciò il pensiero con un’imprecazione.
Per quanto ci provasse, non riusciva a fare a meno di pensare a lei, di ricordare una miriade di piccole espressioni, di frasi, di parole, di momenti.
Abbandonò la sigaretta in un mare di cenere, prendendosi la testa tra le mani.
Poteva negarlo quanto voleva, ma la verità era che Roxanne gli mancava da morire e l’idea che lei potesse non volerlo sentire lo distruggeva, spingendolo a nascondersi dietro la sua rabbia insensata, causata più dalla stanchezza che dalla gelosia.
Gli mancava al punto che si sentiva quasi soffocare se abbassava le sue rabbiose difese.
Si distese, coprendosi gli occhi con un braccio: e comunque, si disse nel vago tentativo di ristabilire almeno parte del suo ormai perduto orgoglio, la byrdland la compro lo stesso, punto e stop.

 

Well all these little things in life
They create all this haze
And now I'm running out of time
I can't see through this haze.
 

3 Doors Down, Running out of days.

 

LOS ANGELES

“Grazie a te, ciao!” Roxanne sorrise, mentre chiudeva la cassa rapidamente, dopo averci riposto dentro una banconota da venti dollari.
Si appoggiò al bancone, passandosi il dorso della mano sulla fronte: dopo il freddo di New York, l’aria tiepida di Los Angeles era diventata bollente.
Ed era tornata da solo un giorno!

Afferrò uno straccio, passandolo sul bancone per l’ennesima volta e guardando il locale con affetto: le era mancato quel posto, saturo di fumo e musica.
Charlie le passò davanti con un vassoio vuoto tra le mani, portando le ordinazioni di un tavolo ad Alec, in cucina.
Le chiacchiere e l’allegro tintinnare di posate e piatti riempivano l’aria, mettendola di buon umore nonostante il sonno arretrato, evidentissimo nelle occhiaie che le cerchiavano gli occhi.

“Ti sei spupazzata per bene, eh?” le chiese la collega, tornando indietro e fermandosi, la schiena posata al bancone e un sorriso sul viso.
“Non mi sono risparmiata, no.” Roxanne sorriso “Sempre se è questo che intendi..” aggiuse dopo qualche attimo, lanciando lo straccio su un ripiano alle sue spalle e riempiendosi un bicchiere d’acqua.
“Non sembri chissà quanto entusiasta, per essere una che torna da due mesi di tourneé con una delle band più famose del paese, sai?” Charlie si voltò, passandosi una mano tra i capelli rossi.
“Toucheé.” rise la mora, dopo una generosa sorsata d’acqua.
“Qualcosa non va?”
“No, niente...” posò il bicchiere “E’ solo che... ho litigato con Izzy, prima di partire, ecco.”
“Tutte le coppie litigano!” la rossa scrollò le spalle, sorridendole gentilmente “E’ normale. Per la miseria, non sarebbe salutare se non fosse così! E poi... cazzo, sai la noia senza manco un battibecco?”
“Hai ragione.” Roxanne rise di nuovo “E’ solo che non mi piace litigare con lui, ecco.” prese una ciocca di capelli tra le dita, scrutandone le punte con aria critica “E mi manca da morire, Charlie, non sai quando!”
“E allora che aspetti a chiamarlo?” la rossa scoppiò a ridere, seguendo con gli occhi una coppia appena entrata.
“Non so nemmeno dove sia, non tornavano in aereo. Potrebbe essere ancora a New York, per quel che ne so.”
“Mh.” la cameriera si fece pensierosa “Beh, allora non so cosa dirti.” si scostò la bancone, recuperando il vassoio e dirigendosi verso i nuovi arrivati “Ma vedrai, ti chiamerà! Quant’è vero che mi chiamo Charlie, non saprà resistere. Salve, benvenuti! Posso portarvi qualcosa da bere, intanto?”
Roxanne sospirò, aprendo la porta che conduceva alla cucina e fermandosi sulla soglia.
“Ehi.” la salutò Alec, intento a impiattare hamburger e patatine fritte.
“Ehi.” gli fece il verso lei, incrociando le braccia “Serve una mano?”
“Naa.” l’uomo fece una smorfia, asciugandosi le mani sullo straccio che teneva legato in vita “Non c’è un granché da fare, oggi. Giornata calma.”
“Fin troppo.” la mora sbuffò.
“Se non fosse che ti conosco troppo bene e so che è impossibile una cosa del genere, direi che ti stai annoiando. Parecchio, pure.”
“In effetti.” aprì la bocca in un sorriso, abbassando lo sguardo alle sue scarpe per un attimo.
Sulla punta bianca delle All Star spiccavano due smile, uno per piede, disegnati con un pennarello indelebile nero: un’opera degna di Steven, che tra una sbronza e l’altra – come aveva scoperto ben presto - aveva la strana abitudine di disegnare smile ovunque.
Una mattina Slash si era svegliato con un enorme faccione sorridente stampato sulla fronte.
Era stato intrattabile, nei rari momenti in cui non tentava di strangolare il bassista. Riprese a parlare, trattenendo una risata.
“Ho pulito il bancone tre volte, spazzato il pavimento almeno cinque volte, servito ai tavoli, ordinato le bottiglie in ordine crescente e poi in ordine alfabetico, ho controllato gli ordini per i fornitori, cambiato il rotolo degli scontrini della cassa, lavato i bicchieri un paio di volte e fatto sette pause sigaretta, anche se questo in effetti era meglio non dirtelo. Alec, cosa si fa in queste giornate di calma piatta? Non me lo ricordo più!”

Il vecchio si fermò, scrutando il volto pallido della ragazza, poco più di un ombra sulla porta aperta.
“Bambolina, scusa tanto se il jet set è più divertente eh!” la prese in giro, passandole due piatti pieni “Porta questi al cinque, dai. E poi torna qui, forse c’è qualcosa che puoi fare.”
La ragazza inclinò il capo di lato, guardando il suo capo con un buffo sorrisetto divertito, poi prese i piatti e si allontanò, immergendosi nel fumo azzurrognolo che aleggiava nella sala, in penombra nonostante fosse l’ora di pranzo.
“Ecco qua ragazzi!” esordì pimpante, sorridendo ai due teen-ager che sedevano al tavolo, davanti a una pinta di birra “Buon appetito!”
“Grazie dolcezza.” le disse il primo, senza nemmeno guardare il piatto. Erano i classici ragazzini americano, capelli biondi, occhi blu e colorito bronzeo.
Inarcò le sopracciglia, stringendo il vassoio al petto.
“Dolcezza?” ripeté vagamente perplessa.
“Hai sentito bene, bambolina. Non ti spiace vero, se ti chiamo così? In fondo, è un complimento.” il ragazzino addentò un pezzo di pane, sgranando gli occhi.
“Tesoro.” rise Roxanne, piegandosi in avanti a sfiorandogli una guancia con l’indice della mano destra “Anche passando oltre il fatto che sei poco più di un bambino, chi ti dice che puoi chiamarmi dolcezza?”
“Perché non posso?”
“Decisamente no, se non vuoi che il vecchio Alec avveleni il tuo hamburger la prossima volta.” annuì con aria grave, mentre il ragazzino impallidiva sotto l’abbronzatura e l’amico tratteneva a stento una risata. “Sai è molto geloso delle sue cameriere. L’ultimo ragazzo che ha chiamato Charlie “tesoro” si è ritrovato fuori di qui prima di poter dire una sola parola.”
“D-davvero?” gettò un’occhiata inquieta alla porta della cucine, oltre la quale si intravedeva la sagoma massiccia di Alec. Roxanne annuì.
“Ma mi stai simpatico, biondino.” sorrise, scrollando le spalle “Se mi prometti di fare il bravo, farò finta che non sia successo nulla. Ci stai?” tese destra, che lui strinse prontamente.
“Andata.” pigolò.
“Andata.” ripeté lei “E adesso mangia, che si fredda.”
Lasciò i due al tavolo, tornando in cucina.
“Ah, Alec, ma che hanno questi bambini di oggi che crescono così sfrontati?” sospirò, posando il vassoio vuoto su un tavolo sgrombro.
Il vecchio, ghignò.

“Non chiederlo a una matusa come me, Roxy.” le rispose, sciacquandosi le mani sotto l’acqua corrente.
“Non sei poi così vecchio, Alec, dai!” rise la ragazza, giocando distrattamente con una ciocca di capelli.
“Sono vecchio abbastanza da non arrischiarmi più a salire su una scala, cosa che farai tu per me.” le passò accanto, facendole cenno di seguirlo. “E’ arrivata ieri mattina, va appesa sopra il bancone. Puoi pensarci tu?” le mise tra le mani un pacchetto rettangolare, piuttosto grande e sorrile, avvolto con della carta marrone.
“Certo.” la ragazza annuì “Ma cos’è?”
“Vedrai..” l’uomo scomparve in cucina, avvolto in una nuvola di vapore.
Scartò il pacchetto, dopo aver recuperato una sedia, martello e chiodi: una foto scattata la sera del suo compleanno, incorniciata, ricambiò il suo sguardo.
Erano tutti lì.
I Guns N’ Roses e lei, stampati in bianco e nero. Sfiorò il volto sorridente di Izzy, sospirando.

Le mancava da morire.
C’erano stati periodi in cui non erano riusciti a vedersi per settimane intere, ma mai come in quel momento aveva avvertito così forte la mancanza del ragazzo.
Aveva un po’ l’impressione che qualcuno le avesse strappato qualcosa di fondamentale. Qualcosa di indispensabile.

Fissò la foto.
Aveva fatto possibile e impossibile per non pensare a lui, ma non ci riusciva.
Lo aveva stampato in testa e non c’era modo di ignorare quella presenza fissa tra i suoi pensieri.

Forse dovrei provare a chiamarlo, pensò mentre conficcava un chiodo nella parete, ma dove? Potrebbe essere ovunque, per quel che ne so.
Diece un’altra martellata, prima di sistemare la foto al centro di una lunga fila di cornici.
Tutti i musicisti che avessero mai suonato nel locale erano lì, ordinatamente esposti agli occhi di chiunque vi entrasse.
Kinslayer, The Clash, L.A. Guns, Keith Richards dei Rolling Stone.
E ora i Guns N’ Roses.

Scese dalla sedia, circondandosi la vita con le braccia.
Non ne poteva più di quella situazione, voleva vedere Izzy e parlare con lui.
Fosse anche per litigare, voleva disperatamente sentire il suono della sua voce.
Mai, in vita sua, si era sentita così persa.

Ogni singola cosa sembrava diversa, senza di lui.
“Diavolo.” bisbigliò, passandosi una mano sul volto “Non è il momento di piangere!” si intimò stizzita, colpendosi le guance con dei deboli schiaffetti.
Era al lavoro, avrebbe avuto tutta la notte per deprimersi: adesso doveva concentrarsi, pensare ad altro, non doveva permettere alla malinconia di sopraffarla o sarebbe stata la fine. Inspirò a fondo, chiudendo gli occhi come faceva da piccola quando non voleva pensare alle litigate tra i suoi genitori o alla polizia che entrava in casa e portava via suo fratello.

Quando riaprì gli occhi, parte di quel malinconico velo grigiastro che aveva offuscato i suoi pensieri se ne era andato.
Poteva farcela. Era solo questione di volontà.

 

Baby, ev'rywhere I look
I see your eyes
There ain't a woman that comes close to you.
 

The Rolling Stone, Angie.

 

NEW ORLEANS

Izzy rimase immobile davanti al telefono per un quarto d’ora, prima di trovare il coraggio di alzare la cornetta ed comporre il numero.
Erano ormai passate più di due settimane dal famoso concerto, e da allora non aveva avuto notizie di Roxanne.
O meglio, da allora non l’aveva né vista né sentita al telefono, trincerato nel malumore che aveva irritato buona parte della band al punto da non farli nemmeno più uscire la sera. Preferivano rimanere sul pullman, o in albergo, a fumare sigarette su sigarette e annaffiare la droga con litri di birra, ciascuno chiuso in una stanza, ciascuno prigionieri dei propri pensieri.

Quando poi Steven gli aveva detto di aver telefonato a Roxanne, un pomeriggio, e di averla sentita piuttosto triste, si era infuriato al punto da colpire il batterista con un pugno. Neanche me la fossi scopata, cazzo!
Aveva urlato il biondino, prima di andarsene dalla stanza sbattendo la porta.
Ovvio che, sbollita la gelosia – che si ostinava a spacciare per rabbia - si era scusato e aveva pure domandato di più all’amico, ma poi basta. Il nulla.

Certi giorni erano infernali.
Si svegliava la mattina con il viso della ragazza fisso in testa e per tutto il giorno non riusciva a pensare ad altro, rendendo impossibile la vita a chiunque gli stesse attorno, anche solo per qualche minuto.
Pur di non pensare a lei si metteva a scrivere canzoni su canzoni, rannicchiato un angolo con la chitarra sotto braccio e una bottiglia di Jack Daniel’s accanto, assieme ad un pacchetto di Malboro e un accendino.
Non mangiava, non si alzava.
Si limitava a strimpellare note su note, buttar giù accordi alla rinfusa, abbozzare testi che bene o male finivano col ridursi a malinconiche richieste di perdono senza risposta.
E alla fine, non contento, bruciava ogni cosa, con sommo disappunto di Axl che invece si sentiva particolarmente romantico e avrebbe voluto lavorarci sopra.

Altre giornate, invece, non portavano a niente.
Apriva gli occhi, fissava il soffito per un po’ e infine decideva che no, non voleva svegliarsi, e si girava su un fianco incurante degli impegni che avevano per la giornata. Rimaneva a letto per ore, alzandosi solo per andare in bagno o spararsi qualche dose in vena.
Vegetava, letteralmente, e a nulla servivano le proteste e i rimproveri. Sordo a tutto e tutti, si limitava ad aspettare che le ore scivolassero via.

Solo quando finalmente si era arreso davanti all’evidenza e aveva ammesso di sentire la mancanza di Roxanne, era riuscito a prendere in considerazione l’idea di telefonarle. Ma anche lì, era bloccato.
Del resto, non si faceva vivo da parecchio tempo e probabilmente lei era furibonda per questo: non si sarebbe stupito neanche un po’ se lei si fosse rifiutata di parlargli.
Sospirò, spostando la cornetta di plastica rossa da una mano all’altra.
Dai, Stradlin, datti una mossa e fai la cosa giusta, una volta tanto!, si incitò, sfiorando i numeri sul dispositivo.
Inspirò a fondo, esattamente come aveva già fatto un migliaio di volte.

“Che cazzo, le hai chiesto di venire in tourneé con te e ora non riesci a telefonarle?” sbottò irritato, componendo finalmente il numero di casa della ragazza.
Uno squillo.
“Si, e cosa le dico? ‘Ciao, sono io, come stai amore? Tutto bene? Il lavoro? Noi siamo a New Orleans, non ho ben capito perché, ma dovremmo tornare a breve. Mi ha detto Steven che ti ha sentita, di recente.. Non è che per caso hai iniziato a tradirmi con lui da circa metà tourneé, vero? Ahahah, che assurdità ahahahah! A luglio giriamo il video di Sweet Child o’Mine, al solito Axl ha in mente qualcosa di fottutamente titanico che costerà una cifra. Mi ha fatto piacere sentirti, Roxy! Tra parentesi, scusami ma sono un coglione codardo che non ha capito un cazzo della vita e di te. Ti amo, ciao’?”
Due squilli.
Attorcigliò il filo attorno alle dita, mordicchiandosi le labbra.
E se davvero lei non lo avrebbe voluto sentire? Cosa doveva fare?
Chiamarla era davvero la cosa giusta?
Probabilmente era furiosa.
E chi non lo sarebbe stato, al suo posto?
A vedere la situazione da fuori, lui si era arrabbiato con lei tutto ad un tratto, senza un motivo apparente, e da allora aveva completamente ignorato la sua esistenza, senza farsi più vivo.
Chiunque, chiunque, avrebbe detto che un comportamento del genere equivaleva ad un implicita rottura.
Ma non voleva rompere con Roxanne.
Era l’ultima cosa al mondo che voleva fare, l’amava troppo per lasciarla andare.
Ma doveva davvero chiamarla?

Tre squilli.
"Pronto?"
Quasi urlò, quando la voce di Roxanne lo scosse dai suoi pensieri: frenò il grido, che si trasformò in un rantolo soffocato, e si morse la lingua, chiudendo gli occhi.
E adesso? Cosa doveva dirle?

"Pronto, pronto?! C’è nessuno?"
Non disse nulla, trattenendo il respiro.
Non ricordava che la sua voce potesse essere così dolce alle sue orecchie, nonostante sembrasse uscire dall’oltretomba.
Solo dopo una terrificante sbronza di tequila e scotch aveva una voca così cavernosa.
O quando si svegliava nel cuore della notte. Buttò l’occhio all’orologio che portava al polso, ancora regolare sul fuso orario di Los Angeles: le quattro e trentanove del mattino. Strangolò l’imprecazione in gola, rendendola più simile ad un osceno mugolio che ad una parola civile.
La ragazza sbuffò, dall’altro capo del telefono.

"Senti, non è divertente esser buttati giù dal letto alle quattro e mezza del mattino per poi sentire solo patetici gemiti ad intervalli irregolari: se il tuo scopo era sembrare un maniaco sappi che hai ancora molto da imparare. E ora, se non ti dispiace, vorrei tornare a dormire che devo svegliarmi presto. Chiunque tu sia, vaffanculo. Vaffanculo per avermi svegliata mentre sognavo il mio ragazzo disperso, vaffanculo per le tue molestie fallite, vaffanculo! E buona notte!"
“A- aspetta...” biascicò, prima che lei chiudesse la conversazione.
Seguì un breve silenzio.

"Izzy? Sei tu?" chiese poi la ragazza, incerta.
“Si.” chiuse gli occhi, pronto ad accusare una valanga di insulti “Sono io.”
"Ah." sembrava spiazzata. Udì un breve tonfo, probabilmente si era lasciata cadere sulla sua vecchia poltrona.
“Scusa per l’ora, davvero, io...” deglutì “Non mi sono reso conto che fosse così tardi."
"Non...non importa."
“No, invece importa.” posò i gomiti sulle ginocchia, passandosi la mano sinistra sul viso.
La destra stringeva saldamente la cornetta, come se da quella presa dipendesse tutta la sua vita.

"Izzy..." lo ammonì lei.
“Sono un disastro, io... io non ne azzecco una, non ne combino mai una giusta e non è.. non è giusto, davvero.”
"Beh, si, certe volte sei un vero incapace e fai cazzate degne dell’asociale che sei."  commentò leggera la ragazza.
“Oh, lo so! Ma ti giuro, non lo faccio apposta, e tu non meriti questo...”
"Non ti sembra di esagerare?" lo interruppe lei, tradendo un certo panico "Va bene che è tardi, ma tutto questo discorso non ha senso a meno che tu non voglia andare a parare da qualche altra parte."
Izzy sorrise.
Amava quel suo modo di fare, quella straordinaria capacità di cogliere ogni dettaglio e incastrarlo in un disegno più grande.
Oh, se l’amava! 
"Mica vuoi piantarmi, per caso?"

“NO!” urlò, sgranando gli occhi. La cornetta gli cadde quasi di mano, mentre scattava in piedi “Ma cosa vai a pensare?!”
"Ah, non lo so!" lo aggredì lei, senza alzare la voce "Non sono certo io che sono scomparsa per settimane e poi mi son fatta viva nel cuore della notte con uno strano discorso circa quanto e cosa merito, fino a prova contraria!"
“Oh, lo sapevo!” gemette sconfortato “Sei arrabbiata.”
"Vorrei ben vedere!"
Izzy si sedette di nuovo sul bordo del letto.
“E hai ragione, è vero.” ammise, nonostante il tono infastidito della ragazza gli facesse venir voglia di contraddirla per principio.
Cazzo, in fondo sto calpestando tutto il mio fottuto orgoglio per lei!

"..."
“Ma vedi...oh cazzo. Basta girarci attorno. Mi dispiace. Mi dispiace da morire, per tutto, per quello che sono, per quello che ho fatto” capitolò alla fine “Non dovevo arrabbiarmi, non dovevo sparire. E non avrei dovuto essere geloso di Steven.”
"Mi ha detto che gli hai tirato un pugno."
“Ti ha chiamata di nuovo? Giuro che lo uccido, lo uccido davvero!” sbottò, senza riuscire a fermarsi.
Era più forte di lui: ogni qualvolta sentiva nominare il batterista, se lo vedeva abbracciato a Roxanne, dietro le quinte del concerto al Ritz.

"Izzy..." lo placò lei "Cosa mi hai appena detto?"
“Che non avrei dovuto essere geloso di Steven.” brontolò il chitarrista, di malavoglia.
"Bravo bambino." ridacchiò "Così si fa. Meriti una caramella."
“Roxanne, davvero... mi dispiace, mi dispiace davvero. Ti prego, perdonami: non sopporto questa situazione, sto diventando matto, non ce la faccio più. Perdonami, ti prego.”
"E’ inutile che tu me lo chieda, sai?" pacata, la voce della ragazza lo colpì dritto al cuore, facendogli perdere un colpo.
“Allora.. allora è...” sentì gli occhi pizzicare. Non riusciva nemmeno a pensarlo, figurarsi a dirlo.
"Perché sai, ti ho perdonato già come ha squillato il telefono, razza di idiota."
Izzy trattenne il respiro per qualche attimo, mentre metabolizzava le parole e si lasciava invadere dal sollievo.
Scoppiò in una lunga risata, liberatoria, nel corso della quale si diede dell’idiota un centinaio di volte, per le ragioni più astruse, lasciando cadere la cornetta per terra e rotolandosi sul letto.

"Izzy? Izzy ci sei? È tutto a posto?" Roxanne lo riportò alla realtà. Si asciugò gli occhi, recuperado il telefono e l’autocontrollo.
“Si, amore, si.” le sussurrò “E’ tutto a posto, adesso.”
"Oh, lo spero." la sentì ridacchiare sommessamente "Perché sia Duff che Slash, quando mi hanno chiamata supplicandomi di perdonarti mi hanno raccontato cose veramente terribili sul tuo conto."
“Vuoi farmi ingelosire, per caso?” indagò sospettoso “Perché sappi che non ti darò la soddisfazione.”
"Per carità, non voglio avere sulla coscenza lo scioglimento dei Guns!"
“Esagerata. Mettimi alla prova, su!”
"Non mi tentare..."
“D’accordo, d’accordo. Malfidente.”
"Che scemo che sei, amore.." la sentì sbadigliare.
“Dai, ti lascio dormire che domani devi pure lavorare.” mormorò, sentendosi il cuore scoppiare da un’improvvisa tenerezza.
Se la immaginava perfettamente: rannicchiata sulla vecchia poltrona, con addosso una delle sue enormi magliette di cotone, i capelli arruffati e gli occhi opachi di sonno.
Avrebbe voluto essere lì, solo per poterla cullare e guardare dormire.

"No." potestò fiocamente "Non ti sento da troppo, voglio.." sbadigliò, di nuovo "Voglio sentire la tua voce, mi manchi troppo..."
“Allora facciamo così. Tu tieni il telefono lì vicino e io ti parlo fino a che non ti addormenti, d’accordo?”
"Va bene."
“Brava.” chiuse gli occhi, distendendosi sul letto “Che ho tante cosa da dirti e...”
"Ti amo, Izzy." lo interruppe lei "Davvero." si fermò un attimo, probabilmente rannicchiandosi meglio sulla poltrona "Tantissimo."
“Lo so, piccola, lo so. Ma adesso dormi...”

 

PARLA ROXANNE:

C’è una cosa che però ho capito, in tutti questi anni.
Sei una persona spaventata.
Hai paura, una terribile paura, di rimanere solo.
Per questo allontani le persone prima che loro allontanino te.
Lo hai fatto con Axl, lo hai fatto con i Guns, lo hai fatto con me, lo hai fatto con i Ju-ju Hounds e alla fine lo hai fatto anche con Annika, la svedese con cui ti accusavo di tradirmi in una calda notte di tanti anni fa, quando ancora non sapevi esistesse.
Hai allontanato tutte le persone che ti amavano per paura che loro lo facessero.
L’idea che nessuno volesse allontanarti non ti sfiorò nemmeno.
Sono passati gli anni, tanti anni, e adesso piano piano stai tornando indietro.
Ti ho visto, l’altra sera, sul palco assieme a Steven e Duff.
Ti ho visto ridere con Slash, dietro le quinte.
Ti ho visto, e il mio cuore ha fatto un salto che non credevo più possibile.
Tenterai di tornare da me, o sono solo uno dei tanti capitoli chiusi della tua vita, Izzy?
Sono come Axl, un fantasma del tuo passato che non vuoi affrontare?
Sono uno di quei ricordi dei quali non mi volevi parlare, qualcosa che associavi a Jeff Isbell come se fosse una persona distinta da Izzy Stradlin?
Chissà, forse un giorno di questi tornerai a bussare alla mia porta promettendomi tutto quello che non sei riuscito a darmi quando ne avevi l’occasione.
Sappi però che non ti ho ancora e probabilmente non ci riuscirò mai: hai mandato in frantumi tutti i miei sogni e le mie speranze, lasciandomi sola, con un cuore a pezzi e nulla con cui riassestarlo.
Non è stata facile la vita dopo te, Izzy, e anche adesso, più di dieci anni dopo, faccio fatica a credere di poterti perdonare, di potermi lasciare alle spalle il rancore per tutto il dolore che mi hai dato.
Questa volta, quando e se tornerai anche da me, non ti basterà chiamarmi nel cuore della notte e parlarmi fino a farmi addormentare sul suono della tua voce.
Questa volta, il prezzo sarà molto più alto.

 

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses / Vai alla pagina dell'autore: La neve di aprile