5.
I giorni
Sono passati un po’ di giorni.
O forse no, sono passati i giorni.
I giorni in cui mi sono guardata allo specchio e non ho distolto lo sguardo,
perché guardarmi non faceva più così male. I giorni in cui ho risposto,
domandato, parlato. I giorni in cui ho sorriso, almeno un po’… quel movimento
fatto di labbra e guance che si stirano. I giorni in cui ho riempito il mio
taccuino delle cose più disparate, forse senza senso. I giorni in cui ho
chiesto in prestito una penna alla lezione di Francese. I giorni in cui ho
aiutato un ragazzo a fare un esercizio di matematica. I giorni in cui ho esalato
qualche nota, per cantare una canzone alla radio.
I giorni.
«Pierce?»
Mi fermo. Seguo la voce e
vedo una ragazza bionda, giubbotto aderente e jeans attillati, stringe fra
le mani una catenella per tenere a guinzaglio il cane che è vicino a lei.
È Yvonne Stewart.
Faccio
un piccolo respiro
e mi stringo lo zaino in spalle. «Ciao.» le dico, e
comincio a camminare verso di lei. Sono veloce, non me ne ero mai
accorta prima.
Il suo cane sembra avere
il pelo morbidissimo, respira con la lingua da fuori e i suoi occhi marroni
sono lucidi. È tutto da abbracciare. Corre via prima che mi ci avvicini.
«Anche tu arrivi presto a
scuola?» le chiedo.
Yvonne mi lancia
un’occhiata, gli occhi nocciola socchiusi. «Sono solo andata a compare il cibo per il mio cane.»
«È bellissimo…»
«Sì… l’ho salvato dal
canile della quarantunesima strada.»
«Come si chiama?»
«Bob, ma…»
«Abbiamo altri corsi in comune, oltre a Artigianato?»
«Che ci vede in te,
Martin Scott?»
Martin ha gli occhi verdi, sfumano nel grigio sotto
le ciglia lunghe. La mascella squadrata gli si contrae, quando si concentra.
Gli si alza prima l’angolo destro della bocca, quando sorride. Ha una risata
gutturale, calda, sembra provenire dalle spiagge calde tanto lontane da qui.
La mia domanda resta
ferma a mezz’aria, mentre le sue parole volano, una alla volta, fino a me. Mi
sento la gola secca e, davvero, non so cosa dire. Martin Scott è il ragazzo del bus. È quello che mi ha
chiesto come stai? con la voce
preoccupata. È quello che mi ha tolto via le parole con le pinze quasi fossero
denti, ma senza dolore.
Che ci vede in te, Martin Scott?
Riprende a parlare. «Ti
consiglio di aprire gli occhi. Ti ha abbordato da sobrio, e o ha una libidine
incontenibile o vuole provare esperienze nuove… sai com’è… a non tutti capita
di incontrare Sarah il mostro.»
Parole in caratteri cubitali.
Giornali, prime pagine.
Il mio nome.
Sarah Pierce.
Cinque anni.
Mostro.
Una sua amichetta l’ha
chiamata per giocare e lei le ha fatto bruciare il cervello.
«Per favore, non…»
Niente parole, solo mormorii. Niente sorrisi, solo smorfie di disgusto. Risate di scherno, fughe.
La mia vita come titoli di giornali nella mia testa.
Sarah, sola. Sarah, sola. Sarah, sola.
E poi Martin mi ha guardata.
«Chissà… magari vuole vedere di cosa sei capace.» continua.
Mi irrigidisco. Sento ogni mio tendine
drizzarsi, brividi sulla nuca, una lieve pizzicore allo stomaco che
aumenta, aumenta, aumenta, mentre il calore diventa freddo, acqua gelida,
ghiaccio.
Come quel giorno.
Dico qualcosa, non sento nemmeno cosa. E poi scappo, prima di farle
del male.
Sono passati un po’ di giorni. I giorni.
I giorni in cui ho aperto gli occhi e le orecchie, e mi sono guardato dall’alto, come se quel ragazzo un po’ più alto della norma fra tanti non fossi io.
Ecco, quel ragazzo fra tanti aveva lezione di Storia, dopo quella di Artigianato, e Sarah era dappertutto.
Sarah è dappertutto in questi libri, nelle parole, nelle voci degli altri, nell’aria fredda, nell’acqua calda, nelle matite mordicchiate, negli spintoni, nei quiz alla televisione. Il segnale non prende bene. C’è la sua sagoma ovunque.
Ovunque la senta, la ascolto.
«Ehi, Martin, Venerdì sera a casa mia.» mi soffia Cameron due banchi più in là.
Annuisco. «Ok.»
Ovunque sia, la guardo.
«…
procura una sindrome di irradiazione acuta causando vomito nelle prime ore;
altri sintomi dopo qualche giorno di latenza sono: febbre, emorragie,
infezioni… tutto ciò produce una massiva distruzione delle cellule
dell’organismo. L’apparato digestivo e il midollo osseo (quella parte che
produce le cellule del sangue: globuli rossi, globuli bianchi, piastrine) sono
i più sensibili alle radiazioni. Dolore in ogni parte del corpo.»
Non
sopporto il dolore.
L'inchiostro della penna mi colora il dorso
della mano, mentre prendo appunti. Forse dovrei chiederle che cosa intende,
esattamente. Dolore fisico o psicologico? Cose d’amore o robe così? Le ragazze
sono sensibili… a queste cose. Forse dovrei chiederglielo?
Ormai mio padre lo sa, prendo ogni giorno il pullman.
E lei è bella.
Bellissima.
«Che cosa fa, Scott?» Alzo gli occhi dal foglio e
incontro quelli della professoressa Denver, già pronti a sparare nocive
radiazioni gamma.
Ah,
allora ho capito sul serio!
«Prendo appunti.» dico. Mi prende il foglio dalle
mani, si mette gli occhiali che teneva appesi alla camicia e tossisce un po’.
Sospiro e mi distendo sulla sedia, domani c’è la seconda lezione di Artigianato,
e devo ancora vedere che cosa combinare. Non so fare niente, ho le mani grandi,
non riesco a… fare un cazzo. Ah, ma forse sì, un cazzo! Cameron sarebbe felice
di me. Ma accanto a Sarah? No, non importa…
Dio, ma che cazzo. È solo una ragazza.
Pericolosa? Puah.
Le prese della corrente per i bambini piccoli sono
pericolose. Le buche in strada per chi va a trecento all’ora. Le nocciole
tritate per chi è allergico.
Sarah mi fa un altro effetto.
Che
effetto, eh?
«Bene, Scott… sembra che si stia impegnando, questa
volta.»
Torno al mio mondo, seduto ad una sedia con la
professoressa che mi osserva. Tutti mi fissano.
«Ehm… sì.»
Suona la campanella.
***
Mi metto a correre, nel corridoio. È la prima volta
che lo faccio. Chi se ne importa di arrivare in ritardo? Tanto ai consigli di
classe leggono il mio cognome e tutto il resto scompare, passo l’anno come
passa l’acqua in un canale. Anche se lo ammetto, agli ultimi test dell’anno
studio un casino perché ho paura di essere bocciato. Alla fine.
Eppure ora corro.
C’è
una folla, vicino alla porta che apre sull’aula
del professor Morgan. Rallento, mi avvicino, Sarah, Sarah, Sarah è fra gli ultimi della fila,
si stringe i libri al petto.
«Ciao.» le dico.
Lei
mi sorride, sembra che l’abbia fatto d’istinto. I capelli
castani lisci sulle spalle, gli occhi azzurri che sono come l'acqua
profonda e le guance più colorate.
Colpito.
«Ciao.» risponde, la voce limpida, tremula un po'.
Ok, ci sono. Sei bella. Sì, ok, ora che lo abbiamo ulteriolmente costatato mi guardo un po' intorno. La porta dell'aula è chiusa e tutti gli altri ragazzi sono fuori con noi.
«Che succede?» le chiedo.
Bello!
Mi volto verso Sarah. Si morde le labbra, guarda per terra.
«Va tutto bene? » le chiedo.
«Sì.» Si passa una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. «Sì, tutto bene.»
Mi mordo la guancia dall’interno. «Non vedevi l’ora
di vedermi indossare quel grembiule bianco, non è così?»
Le strappo una risata. «In realtà, a me piace
proprio la lezione… la aspetto per tutta la settimana.»
«Davvero? »
Per me?
Aspetto la sua risposta. Cerco di tenere a bada la
voce che mi parla nella testa.
«Sì, è così.» Gli altri ragazzi si disperdono, c’è chi prende il corridoio verso l’uscita e il cortile, chi va dalla parte opposta per raggiungere la biblioteca. Ci passano vicino, mi sfiorano. Sarah si stringe nelle spalle, a farsi ancora più piccola ed esile di quanto non lo sia già. Sembra che qualcuno che odia la stia costringendo a stare ferma, abbracciandola da dietro.
Quando tutti sono andati via, torna a
respirare normalmente.
Sorride con gli occhi.
«Allora, io ho fame.» dico.
«Abbiamo già pranzato.»
«Ah.» Credo di avere una faccia sconvolta. «Per il
mio stomaco non conta. Vado a… prendere qualcosa, vieni anche tu? »
Mi sento mancare l’aria per un istante. L’ossigeno
che viene risucchiato da un qualche aspirapolvere gigante che annulla tutto
quello che ho intorno, tranne me e lei. Deglutisco.
«No… non importa. Vado casa.»
Sbam. Il rumore che fanno le auto quando si
scontrano con un palo della luce. C’è un rumore simile, dentro me stesso. E non
so bene perché.
«Ti accompagno?»
«No… meglio di no.»
«Perché?»
«Non avevi fame?»
«Vado a mangiare e poi ti accompagno, ok?»
Certo che so proprio essere rompicoglioni, eh?
«O-Ok.»
Ok.
«Ok.»
Ok.
Credo che sia la mia parola preferita.
***
Il McDonald c’è sempre quando lo stomaco brontola,
credo che se fosse una persona, sarebbe Doreen.
«Allora, un cheeseburger, patatine con solo ketchap,
Una porzione di crocchette…»
La cameriera scrive su un foglio di carta la mia
ordinazione, illusa che io non dica altro. «Mcnuggets e una bir… anzi, una cocacola.
Con due cannucce.»
La cameriera se ne va, sembra shoccata.
«Da quanto tempo non mangi? » mi chiede Sarah.
«Sono un maschio adolescente.»
«Non mi hai risposto.»
«Sì che ti ho risposto.»
Ride, solo un po’. In questo modo timido che ho
capito essere solo suo, uno degli elementi della tavola che la compone.
«Quindi, Artigianato è la tua materia preferita.»
butto lì.
Lei giocherella con il polsino della felpa. «Mi
piace tanto. In generale… mi piace tutto.»
«Ti… piace studiare?»
«In genere sì.»
«Non ci credo.» Stendo un braccio lungo il tavolo e
quasi la sfioro, riesco a toccare il bordo di un libro che ha poggiato. Lo
prendo e lo sfoglio. «Come può piacerti?»
«Credo che studiare migliori le persone.» Poggia il
mento sulla mano. «Quando conosco qualcosa in più, sto meglio con me stessa.»
«Ma tu non devi migliorare niente.» Non
riesco a guardarla negli occhi. Ok, devo darmi una calmata altrimenti sembro proprio sfigato.
«Non è vero.» Scuote la testa. «Io ho tante cose
che non vanno.»
«Tipo?»
Socchiude la bocca, fa per dire qualcosa, ma la voce
le si smorza in gola ed io immagino le mie labbra che sfiorano le sue e poi
premono, piano, pianissimo, lente, lentissime, le mie mani sul suo collo.
Non risponde.
«Ecco, niente.» dico io.
Ho vinto.
«Quindi a te non piace.» Si passa una ciocca dietro l'orecchio.
«Non è che non mi piace, è che il mio cervello rifiuta
le informazioni nocive.» Chiudo il libro fra due mani e passo le dita sopra il
titolo, Grammatica Francese per quarto anno.
«Magari potrei aiutarti.»
Un rumore metallico.
La cameriera ha portato la mia ordinazione, e adesso si allontana con fare non curante. Magari potrei aiutarti.
Aiutarmi.
Stare insieme.
«Sono senza speranze.» la avviso.
«Anch’io.»
Mi siedo
accanto a
lei e reprimo quella strana voglia di spostarle quella ciocca che le
è caduta di nuovo sull'occhio sinistro. Lascio che lei beva per
prima la cocacola e non so come, mi
sembra di aver dimenticato qualcosa, il motivo per cui sono qui, il
motivo per
cui mi sono iscritto a quel corso, il motivo per cui l’ho
guardata per la prima
volta. Non lo so.
Così, scambio con lei tutto il cibo che ho preso e mi sento felice, sì. Felice. Mi dice che mi darà i soldi di metà di questa roba ma se si permette potrei anche fargliela pagare in un altro modo, scema. Glielo dico proprio, sei una scema, e le guance le si colorano di rosso. Sei bellissima, vorrei dirle. Lo sai che sei bellissima? Ma lei mi mette sul palmo quelli che devono essere settanta cents, è tutto quello che ho, ma poi ti darò il resto. Ti odio, Sarah, sul serio. Non andare mai via.
Ha un orologio in plastica rosa, sul polso. Che ore sono? La uso come
scusa per toccarla, e mi accorgo che la sua pelle è proprio come la immaginavo,
liscia, morbida, fresca d’inverno.
È tardissimo, usciamo dal locale correndo come se
potesse davvero cambiare qualcosa.
Ma io sento che qualcosa è cambiato.
In me, almeno, sì. Come se fossi io stesso un
orologio, con gli ingranaggi un po’ arrugginiti. Adesso vanno tutti veloci,
come l'organo che mi pulsa in mezzo alle costole.
«Martin! Martin, aspetta! » gli grido, mentre corre
verso l’altro isolato. Sono cinque minuti che non facciamo altro,
ininterrottamente, ed io avrei tanto voluto fermarlo ma la sua risata è
liquida, porta in superficie tutto quello che incontra.
Al suono della mia voce si ferma, le sue spalle
ampie si irrigidiscono sotto il giubbino scuro, e allora lui si volta verso di
me. Ogni cosa si riflette sul suo viso, il nero del giubbino nel verde dei suoi
occhi. Sta ancora sorridendo.
«Che c’è?»
«Non arriveremo mai in
tempo.»
«Mi stai chiedendo di marinare la scuola, eh?» La
sua bocca si muove in una specie di ghigno, quello che farebbe un bambino che
ha appena rubato un giocattolo. «Non eri tu quella a cui piaceva studiare?»
Sbuffo, il soffio che mi nasce dalla bocca mi alza i
capelli. Sbuffare? Ne sono capace? Forse perché ho visto tante volte lui, fare
così.
«Arrivare in ritardo mi piace meno.» Al solo
pensiero mi vengono i brividi. Tante piccole siringhe per ogni vena delle mie
braccia.
Dieci anni. Sarah Pierce. Il mostro colpisce ancora.
Solo per uno sgambetto, sono caduta,
ho sentito un bruciore al ginocchio e poi… e poi è successo di nuovo.
«D’accordo. Non ci andremo.» dice Martin, e mi riporta
qui, in questa strada grigia con la neve sciolta sui lati, i palazzi alti che
graffiano il cielo e le nuvole spumose.
Annuisco,
mi sento sollevata. Lo guardo, indugio
sulle labbra, sui capelli biondi che si arricciano sulle orecchie,
ciocche che si schiariscono sulla fronte, le ciglia lunghe e dello
stesso
colore.
«Ok.» dico.
«Ok.»
Siamo in un centro commerciale. Le cassieri ci
ignorano, sento Martin che mi tocca la spalla – ha le mani salde, grandi,
tengono forte – è una sensazione che mi fa sentire i rumori nello stomaco.
«I biscotti Oreo.» dice, poi prende in mano una
scatola di biscotti.
Guardo un po’ in giro per gli scaffali. «Questi sono
scontati.»
«Ma sono sottomarca.»
«Il gusto è uguale.»
«Nah, non è per niente vero.» Si passa una mano fra
i capelli e non dà per niente segno di voler lasciare la scatola di biscotti.
«Io sono di marca. Mi paragoneresti mai a un ragazzo sottomarca? »
Mi mordo la guancia dall’interno. Riesco a riconoscere quando sto per ridere,
ne sento il sapore, metà amaro e metà dolce, che parte dalla gola e poi scoppia
dalle labbra in quello che è un piccolo pezzo di felicità.
Così, succede ora. Ma che domande fa? Come fa il suo
cervello… a fare paragoni con se stesso e i biscotti? Scuoto la testa… per un
maschio adolescente deve essere normale, anche se quando ha lo sguardo
concentrato, con quelle spalle larghe e i muscoli delle braccia, il filo di
barba che aveva l’altro giorno, sembra tutt’altro che un adolescente.
«Be’, quindi?» fa ancora. Vuole proprio che gli
dica qualcosa.
Lascia che la mia lingua scorra da sola. «Mhm… tu
sei scontato?»
«Io sono gratis, oggi, ma non dirlo in giro.»
«Sono stata fortunata.»
«Non puoi nemmeno immaginare quanto. Anzi, dovresti
saperlo. Tutte lo sanno.»
«Tutte chi?»
No,no,no,no. Dov’è un telecomando? Rewind sulla mia
faccia bianco latte. Ho bisogno di cancellare questa cosa e sostituirla con
un’altra.
«Molte ragazze. Sì. Davvero Molte.»
Imbocco un
altro corridoio, non mi va gi guardarlo in faccia. Mi supera, si ferma, mi
accanto. Quella faccia. Non mi piace, è… strafottente.
«Ho fatto qualcosa di male? »
«Di male? Niente.»
Mi calmo. Sì, certo che mi calmo. Lo guardo. Ha gli
occhi luminosi e il sorriso bianco, da vicino sento il profumo della cocacola e
di fresco, non so da dove provenga. Lui starà bene, non gli farò mai del male.
Continuiamo a camminare.
Sorride al punto da farmi venire il nervoso. Mi
trovo davanti al reparto dei materassi. Ci sono poltrone e letti e panche e…
Martin si stende su un letto a due piazze.
«Ah… sì. Questo è comodo.» Si mette le mani dietro
la nuca, incrociate. Mi avvicino a lui, la maglietta verde militare gli si è
alzata, a mostrare la pelle scoperta. Guardo altrove, delle signore ci fissano.
«Martin, dovresti alzarti.»
«Perché?»
«La gente ci fissa.»
«Nah. » Si mette di lato, una mano a sostenersi la
testa. Potrebbe essere uno di quei ragazzi che si vedono nei cartelloni
pubblicitari. «Scommetto che la mia presenza aumenta le vendite. »
Mi stringo nelle braccia. «Io penso che ci
cacceranno.»
«Venderei di più se fossi nudo, è vero.»
Mi mordo le labbra e guardo oltre il letto su cui è
steso, c’è una poltrona bianca con un ricamo a fiori, sì, a fiori… non capisco
perché… Martin nudo… dio, perché
spara simili scemenze? Mhm… quella poltrona piacerebbe a mia nonna.
«Ehm… tutto ok?» mi chiede Martin, e la sua voce
suona incerta, quasi tremola.
«Sì.» Vorrei sedermi vicino a lui. Poi mi ricordo
che questo è un letto e ci ripenso. Non so bene perché, anche se Martin non
sembra reale, steso in questo modo, a guardarmi con quell’espressione.
«Dai, vieni, ti lascio il posto. Io vado alla cassa
a pagare i biscotti e poi torno.» Si mette in piedi, veloce.
«Tu… vuoi ancora mangiare? »
«Sono…»
«Un maschio adolescente, lo so. Ma non una
discarica.»
Si avvicina a me con fare inquisitorio. «Questi biscotti
Oreo sono originali.» mi soffia contro.
Trattento una risata. «Ok.»
«Ok. »
Mi siedo sul letto, mentre lui fa qualche passo in
direzione della scala mobile. Si gira leggermente.
«E non scappare, eh! »
«Sono qui.»
Sono
dove sei tu.
***
«Sei tornato tardi.»
«C’era la fila. »
Martin si stende vicino a me, in uno dei letti che ho provato mentre lui era via. A separarci, una tenda trasparente che
dovrebbe nascondere meglio quello di cui sono sicura: il mio rossore sulle
guance, ora che lui è così vicino a me.
Alza la tenda trasparente.
«Biscotti?»
«Grazie.» Ne prendo uno e comincio a mordicchiarlo.
Il cioccolato mi si scioglie sulla lingua, pastoso. È vero, questi biscotti
sono diversi dagli altri.
«Una volta,
Doreen prese un’altra marca di biscotti ed io mi rifiutai di fare colazione. Ci
tenevo troppo.»
Viziato.
Cerco di prendere un altro biscotto, non ci riesco, sento le dita
di Martin sfiorarmi il polso.
«Chi è Doreen? » Alzo il capo dal cuscino e incontro
i suoi occhi. Colore di foglie, verde luminoso e pagliuzze grigie dai contorni
irregolari. Onde nelle sue iridi.
«La donna della mia vita.» La sua voce è seria.
Deglutisco a fatica. «Perché? »
«No… così. »
«Così come? »
«Niente. »
«Ha qualcosa a che fare con la tua ragazza?»
Si mette siede all’improvviso, le sue spalle si
alzano e si abbassano al ritmo del suo respiro. «Chi ti ha detto che ho la
ragazza?»
Mi metto seduta anch’io, lui mi fissa attraverso il
velo della terra. Avvicino le dita alla stoffa e lo guardo meglio. «Non mi
sembri un ragazzo che se ne sta da solo. »
«In che senso? »
«In ogni senso.»
Riesco solo a sospirare.
Non sembri uno che se ne sta da solo eppure sei qui con me. Martin digita qualcosa sul suo cellulare,
d’istinto prendo il mio e vorrei non averci pensato, visto che al confronto
quello che ho in mano sembra una pietra dell’età preistorica.
«…No, non ho credito. E ho finito i soldi. Grande.»
sbuffa.
Guardo il mio cellulare. Blu, enorme, che si piega
in due. «Forse il mio… » Alza gli occhi verso di me e me lo prende dalle mani.
Sta trattenendo una risata, si vede.
«Ma dove l’hai preso? »
«Mi è stato regalato.»
«Quante vite fa?» Mi mordo le labbra. Mi dà
fastidio, perché non la smette? «È un pezzo da restaurare, sai?» Voglio fargli
male. No, non troppo male, ma abbastanza. Basterà qualche pugno?
«Dai, ridammelo.» gli dico.
Spinge i tasti. «Ma è morto? »
«No. » riesco a prenderlo. «È scarico.»
«Doreen penserà che sono stato rapito da una
compagnia sfruttatrice di modelli e che non tornerò mai più a casa.»
Giro la testa e rimetto il cellulare nello zaino.
Non può guardarmi.
«E invece?» gli chiedo.
«E invece sto con te.»
Sento che lui riesce a vedermi lo stesso, anche se
sono voltata.
Sorrido.
Nell’atrio del portone non ci sono i riscaldamenti, eppure ho quel
genere di caldo che si sente solo in caso di febbre. Pigio sul tasto per chiamare l’ascensore e
aspetto. Aspetto.
«… Sarah, mi hai fatto preoccupare. » Mia nonna mi guarda. I
capelli grigi raccolti e il viso rugoso come le foglie che cadono in autunno.
Non ascolto niente a parte l’euforia che mi scorre dentro, il cuore che mi affoga
le parole, la pancia che mi si contorce. La abbraccio.
«Ciao, nonna.»
Entro in casa e chiudo la porta per lei. Devo fare almeno tre
tentativi: dobbiamo aggiustarla ma la pensione del nonno questo mese non è
bastata per chiamare un falegname. Ma poi riusciremo a fare anche questo, alla
fine.
«Stai bene, tesoro?» mi chiede.
«Sì.» E mi accorgo per la prima volta di dire la verità.
Deglutisco. «Sì. »
I suoi occhi marroni dicono che mi crede. Lascio cadere lo zaino,
vado in soggiorno, «Ciao, nonno.» gli schiocco un bacio sulla guancia come
faccio solo ai compleanni e accendo la televisione. È vecchia e ci mette almeno
cinque minuti per caricarsi e fare vedere l’immagine.
Mi chiudo nella stanzetta, prendo il taccuino dal cassetto e
comincio a scrivere.
Ogni giorno mi costringo a imparare qualcosa di quello che mi sta
intorno, anche se tutto quello che posso capire vive solo nella mia
immaginazione.
Fuori sta piovendo.
Sospiro, mentre i tratti della penna si fanno pesanti.
Un pensiero si fa strada nella mia mente, mentre prende forma su
carta.
Vivere.
*
*
*
*
Eccomi qua <3 La scuola non mi dà tregua, ma spero comunque di continuare ad aggiornare una volta ogni due settimane perché questa storia deve proseguire ** Allora, vi piace? Vi dico che la svolta si avvicina e che questo cpaitolo serviva per tastare il terreno, diciamo. Di Sarah si sa qualcosa in più o aumentano i misteri? Come ragiona Martin? Succederà qualcosa fra i due? Spero davvero che continuerete a leggere per scoprirlo e spero che mi lascerete un parere <3 <3 <3
Grazie mille a tutti voi <3 <3 <3 E a chi mi sostiene e mi sprona a fare sempre meglio. Grazie <3
Un bacione
Ania <3