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Autore: Gatto Magro    27/01/2013    1 recensioni
- Adesso c’è sangue anche sulla lampada, quella verde in salotto, e sono andata fuori in silenzio però, perché ho pensato che ora dobbiamo accendere la lampada col sangue di Brian sopra e mi è venuto da vomitare.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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25 Dicembre 2010

 
Stanno seduti tutti e tre sul divano, imbronciati per varie ragioni – ugualmente imbronciati però, con un cipiglio che spinge sugli occhi le sopracciglia di Collins, fa diventare ancora più freddo lo sguardo di Brian e finisce negli angoli all’ingiù della bocca di Sun. Sono un unico muso lungo, bellissimi da guardare e tremendamente buffi nei maglioni di lana rosso-Natale che Grace gli ha infilato a forza. A Sun piacciono i maglioni con le renne bianche come la neve, Collins li detesta e Brian semplicemente li ignora.
Ha ottimi motivi, lui, per essere così arrabbiato.
Se suo fratello ce l’ha a morte perché alla veneranda età di 19 anni è ancora costretto a vestirsi in quel modo, travolto dall’entusiasmo natalizio di Grace, e Sun può essersi dispiaciuta nel vedere il tacchino completamente bruciato nel forno così, senzaq preavviso, mentre un secondo prima era stato gonfio, dorato e lucido di sugo cremoso, Brian fuma di rabbia per una questione estremamante seria.
Prima di tutto, la Lettera.
Il suo breve e acceso colloquio con lo spirito dal completo a righe gli aveva fatto sorgere deidubbi, chiamiamoli così per dirla con le sue parole, sul sistema (in realtà, a voi lo possiamo dire a bassa voce, ai margini di questa storia, che erano delle speranze, del tipo più puro. Non ditelo a Brian, si arrabbierebbe ancora di più, e oggi è Natale.); così gli era venuta in mente l’idea della Lettera, e siccome Brian è uno che le idee le mette anche in pratica, l’aveva scritta e consegnata ad un drappello di spiritelli di passaggio – ci sbattevi addosso ad ogni metro, sotto Natale.
Poi aveva aspettato, lambiccandosi il cervello cercando di trovare un senso alle parole dello spirito dal completo a righe, che aveva pronunciato parole che ancora giravano in tondo nella testa del ragazzo: “istituzione”, “organizzazione”, e poi quelle a cui non voleva assolutamente pensare, “unici” e “rimasti”. Forse erano stati solo i modi pomposi di un cliente esigente, ma quelle parole avevano fatto riflettere Brian, perché se loro erano un’istituzione doveva per forza esserci un vertice del potere, ovvero degli altri come lui – come la nonna, come Sun – che avevano una qualche voce in capitolo e che sapevano come imporla anche alle orecchie indisponenti degli spiriti. E il capitolo che interessava a Brian riguardava le dimissioni da quel mondo impazzito.
Per qualche meraviglioso giorno, il ragazzo aveva accarezzato la possibilità di restituire tutto quello che gli era disgraziatamente capitato in sorte nel corredo genetico, ma poi qualcuno aveva grattato con le unghie alla sua finestra, e un odore di erica e di mare e di legno scuro l’aveva svegliato e guidato fino al parcheggio sotterraneo del centro commerciale in fondo all’isolato. Una donna lo aspettava sotto un alone di violenta luce al neon che creava delle interferenze nel manto della pelliccia che indossava, altrimenti perfettamente credibile.
Senza una parola, aveva allungato una mano e Brian aveva teso di riflesso una delle sue per prendere la busta che gli porgeva. Era una lettera.
Era la Lettera che lui stesso aveva spedito. Solo che era tornata indietro, perché il destinatario non esisteva più.
Sul viso della donna, intaccato dalle righe viola di interferenza come una televisione non sintonizzata, era comparso il riflesso della tristezza infinita, fredda e desolante che aveva avviluppato il cuore del ragazzo. Faceva male guardarli, così male che tutte le luci si erano spente e noi ci siamo fermati in mezzo alla neve a cantare una preghiera.
Nei giorni immediatamente seguenti è stato: depresso, apatico, nervoso, irascibile, furente. Ora è livido. Non riusce ad essere abbastanza triste per questa solitudine insopportabile, per cui ha deciso di trasformarla in rabbia e testardaggine.
E c’è un’altra cosa. Una cosa importante.
Benjiamin ha sentito tutto. E le spiegazioni, Brian non è mai stato molto bravo a inventarsele, per cui da quel giorno ha cercato di evitarlo in tutti i modi, una faccenda piuttosto complicata se la persona che cerchi di evitare è il tuo migliore amico preoccupato e curioso.
Sente Collins sbuffare e pensa distrattamente che non gli ha comprato nessun regalo. Pensa anche di non dispiacersi abbastanza, perciò si alza – rotto il quadretto dei tre fratelli sul divano – ed esce dalla porta di casa con la ferma intenzione di trovare un regalo per Collins, inseguito dal fruscio della risata di Sun: come cavolo spera di trovare un negozio aperto la sera di Natale?
È una brutta cosa da dire, ma Brian non vuole bene a Collins. E non è per il fatto che ha quell’aria sana e robusta da ragazzo di provincia, o perché ha la patente. È una freddezza emotiva che ha qualcosa a che fare con il caldo colore scuro degli occhi del maggiore, così diverso dall’azzurro trasparente dei suoi. Con i sonni tranquilli del primo e le notti imbevute di terrore del secondo.
Ha a che fare con il sangue; ma adesso Brian non ha voglia di star male pensandoci. Cammina in calzini sul tappeto di neve sulla strada. La sera brilla, accesa da quel bianco che anastetizza i sensi del ragazzo: è come se dormisse, le orecchie si riempiono di un silenzio ovattato – sono in lontananza ronzii di motori, tintinnii di bicchieri, dei lievi scoppi di petardi – le tracce diventano quasi impercettibili, solo neve, solo bianco, il dolce sonno.
Solo, in mezzo ad una strada che a vederla così non si direbbe nemmeno tale. È così semplice, in mezzo a quel nulla, dimenticare per qualche intorpidito istante.
Cerchi di neve luccicano ai piedi dei lampioni. Brian pensa a come sarebbero belli dei lampioni vaganti; stanno lì ad aspettare, a lato della strada, che qualcuno infili una moneta da venti centesimi in una fessura e spinga una leva dal pomello arrugginito. Basta poi afferrare una piccola maniglia, come i bambini afferrano la mano dei genitori, e il lampione ti segue ovunque tu voglia andare, procedendo sbilenco su degli abbozzati piedi di ferro: un cono di luce giallina e un compagno di viaggio nella notte. Tutti i bambini tornerebbero a casa, pensa Brian.
Noi siamo raccolti in un piccolo gruppo sotto un pioppo rinsecchito. La neve brilla verdastra quando sorridiamo, c’è ancora più silenzio nella nostra voce quando auguriamo a Brian un buon Natale; lui ci guarda e passa.
Uno scoppio improvviso, più forte degli altri: BANG. Fischiamo insieme, spaventati, le nostre urla e le loro risate qualche isolato più in là penetrano nella testa del ragazzo, schiantandosi, scindendosi e moltiplicandosi.
Brian spalanca gli occhi trasparenti e respira annaspando come se gli mancasse il respiro. Quanto vorrebbe non respirare, così non lo sentirebbe; e invece eccolo, gli sembra di berlo dalla bocca aperta, dal naso, dagli occhi.
Sangue, e le loro risate a qualche isolato più in là.
È una pozza, nera sulla neve proprio dietro quella fila di casette. Le risa si disperdono, ma l’odore ha imbevuto l’orlo dei loro jeans.
Hanno infilato nella bocca di un randagio dei petardi accesi e sono rimasti a guardare la mandibola del cane che esplodeva e saltava via in uno spruzzo scarlatto, poi se ne sono andati strisciando i piedi. Brian si tappa il naso e la bocca con la mano, la puzza è troppo forte, e si inginocchia accanto al cane sdraiato su un fianco, la schiena inarcata scossa da spasmi di dolore. Lo accarezza, non capisce se è la sua mano a tremare in quel modo o è l’animale. Chiude gli occhi, accompagna con le dita il respiro affannato del cane finchè si estingue nell’ultimo sbuffo di vapore.
Le loro impronte sulla neve e l’odore di sangue che si sono portati dietro fino al tavolo di un bar fumoso li rendono dei topi in trappola: per Brian sarebbe davvero troppo facile scovarli. Sente distintamente l’aspro sentore di bruciato sulle loro dita, riconosce i loro visi quando si sfilano i cappelli e abbassano i cappucci; alcuni vanno alla sua stessa scuola. Il bar è vicinissimo: dietro l’angolo.  
E allora perché non si muove? Perché è ancora seduto di fianco al corpo del cane, con le mani premute contro il viso, gli occhi serrati?
Passa qualche minuto o forse perfino un’ora, lui è ancora lì. E c’è anche qualcos’altro, ora, che si distingue a malapena, strizzando gli occhi, per la luce vacua di cui si accende a tratti. Come una palla di vetro piena di brillantini minuscoli che cadono e cadono, solo che non è una palla, ha una forma bassa e allungata e sembra camminare a quattro zampe, perché si avvicina piano al ragazzo e gli sfiora un gomito. Brian abbassa le braccia, torna a respirare. Incontra lo sguardo dello spirito, che lo sfiora ancora – con il muso, pensa lui – e si addensa quasi come una nebbia per farsi vedere.
- Non posso farti andar via. – Gli sussurra dolcemente Brian. – Non ho il fuoco.
Lo spirito lo guarda dalle sue orbite lucenti come bottoni.
- Puoi restare con me, nel frattempo.
Gli sale un groppo in gola.
- Domani torniamo qui e ti faccio andare via. Porto dei fiammiferi, okay?
Non riesce più a parlare. Lo spirito continua a guardarlo, con vacuo affetto.
 
Brian si inzuppa i pantaloni camminando nella neve verso casa, lo spirito lo segue a pochi passi di distanza.
Ho un cane,pensa. Assurdo.
Ha anche un nome per lui. Mr Bungle. Sembra che gli piaccia.
 

Novembre 2012
 

A scuola non c’è.
Brian lo sa prima ancora di entrare nel cancello, perché l’odore di sua sorella lì è vecchio di ore e una scia fresca invece partiva da casa loro e andava da tutt’altra parte. Verso la stazione.
E anche se lo sa benissimo, anche se è già tardi – troppo, troppo tardi, - anche se ha ancora le dita sporche della cenere della bruciatura sul tavolo, non può fare a meno di cercarla in tutti i corridoi e in tutte le aule, correndo e scivolando sulle piastrelle verde oliva e schivando gruppi di studenti.
Quando la campanella suona è al punto di partenza: piegato in due, col fiato corto, appoggiato alla ringhiera che percorre l’ingresso dividendolo in sezioni. Appoggia la guancia al metallo smaltato giallo, il dolore al viso prende per qualche secondo un corpo diverso dal suo.
Cazzo no.È malata, è uscita fuori di testa. Calimber l’ha fatta impazzire del tutto e se l’è trascinata dietro. O lei si è trascinata dietro Calimber, e sono impazzite entrambe nello stesso attimo. Cazzo, cazzo e porca puttana. Si prende la testa fra le mani, infila le dita fra i capelli corti, bagnati del suo sudore freddo. Starebbe lì immobile fino alla fine del mondo, ed è l’ultima cosa che può permettersi di fare.
Perché sa dov’è andata Sunshine, e sa che deve andarla a prendere. È solo che ha una paura paralizzante di seguirla.
La nebbia, la nebbia gli invade il cervello, il ragazzino che cade nella nebbia dal ponte, cade e cade e cade e non arriva mai all’acqua, non finisce dentro il fiume, non lo trovano di più. Il buco in quel bianco fumoso, la cicatrice che si chiude dietro di lui subito dopo il passaggio delle scarpe da ginnastica. E cade. Ma nessuno sa dove.
Brian sta quasi per mettersi a piangere e crollare lì, un mucchio di polvere ai piedi delle scale del suo liceo.
- Brian, che ci fai qui? In classe, su!
Si solleva di scatto e gli gira la testa, si afferra alla ringhiera per reggersi. La profesoressa di francese balza avanti come per aiutarlo, poi arrossisce e fa un passo indietro.
- Ehi, tutto bene? Brian? Stai male?
- Sì… no, no. Ora vado, sì.
Lei si ricompone. Lui si raddrizza, ma resta lì impalato. Non gliene importa tanto, ma non vuole uscire dalla scuola proprio davanti a lei. Complicazioni burocratiche.
- Non puoi indossare gli occhiali durante le lezioni. Aspetta, hai la faccia sporca?...
Brian la lascia fare mentre allunga le dita davanti al suo viso e gli sfila le lenti con delicatezza. Sembra che guardi con dolcezza gli occhi della donna spalancarsi e subito dopo stringersi in un’ espressione spaventata; in realtà osserva il flusso del suo sangue aumentare di colpo e il calore del suo corpo farsi più intenso. Gli fa un po’ pena.
Si riprende gli occhiali e corre via: nella direzione giusta, per la prima volta.
 
- Mia sorella è scappata di casa. È successo dopo che nostro padre mi ha picchiato, lei è uscita di casa, ma è tornata, sì, è tornata tardi che era notte fonda, credo, ma stamattina quando mi sono svegliato non c’era più e io…
- So dov’è andata. Come?... No, non me l’ha de-… No, è solo che…
- Penso, penso che sia andata lì. Sì.
- Cazzo, ma le dico che sono sicuro, le entra o no nel cervello?
- Sedici. Io diciassette.
- Brian, Turner… Sunshine, Turner… Ma ci vuole molto, cazzo, non la potete andare a….
- Mi scusi un cazzo, eh, mi stia a sentire. Che anno?.... 1995. 1 gennaio. Lei 14 aprile, 1996.
- Va bene. Sì. Va bene. James Turner è mio padre, gliel’ho già…
- No. Mia madre è morta due anni fa.
- Resto qui. Okay. Okay.
 
Ma ci deve andare, ci deve andare comunque. Sul tavolino della saletta nel commissariato di polizia, Brian si mette a contare gli spiccioli per il biglietto del treno.
Cerca di metterci più tempo possibile, tanto che un uomo lì accanto si chiede a voce un po’ troppo alta che diavolo insegnano ai ragazzi a scuola. Indossa un completo di lino verde con delle sottili righe bianche, e nessuno dei funzionari che entrano ed escono dalla saletta sembra preoccuparsi della sua vaga trasparenza contro il blu del muro a cui si appoggia. 

   
 
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