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Autore: None to Blame    27/01/2013    4 recensioni
SPOILER 5x13
Merlino è rimasto solo ed il mondo è troppo grande per un'anima a metà.
La sua vita procede, ma tutto ha un sapore diverso.
*
Ed invece camminava, per darsi l'illusione di andare avanti – ma sapeva perfettamente che si stava consumando le suole per arrivare in un posto che non avrebbe trovato. Perché questo è il problema di quando fai coincidere la definizione di casa con una persona.
[...]
E poi quella persona svanisce come fumo fra le dita e a te non resta che un vago odore di bruciato sul palmo della mano, che ti porti al volto ed annusi come se ne andasse della tua vita – e forse è proprio così.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Gwen, Merlino, Parsifal, Sir Leon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Cinque volte il sole si era levato, cocente, intrufolandosi fra le fronde, e cinque volte si era rassegnato, lasciando il posto ad alcune delle sere più buie che quelle terre ricordassero.
Cinque giorni di cammino ininterrotto, cinque notti di palpebre serrate sul mondo, perdendosi in un sonno cieco.

Merlino, da cinque giorni, camminava. Camminava per dare al suo corpo uno scopo, ai suoi piedi movimento ed alla sua mente una tregua.
Camminava e basta, verso il nulla, verso l'improbabile, evitando con cura le zone più pattugliate, lasciandosi alle spalle incauti briganti privi di senso. Se trovava un ruscello, ricordava di avere sete. Se notava una certa radice o delle bacche saporite, ne ingollava alcune per placare una fame che doveva per forza avere – ma che non gli arrivava a livello conscio.

In quel momento, Merlino giaceva con la testa abbandonata contro la ruvida corteccia di un albero, una gamba piegata al petto, le braccia incrociate sul grembo. Sul volto, un'espressione che pareva placida, come quella di un bambino che si era svagato per tutto il giorno e si concedeva il meritato riposo.
I primi raggi del sole sbocciavano fra i nodi del tronco, lambendo i capelli del giovane e pizzicandone le ciglia. Strizzò di riflesso le palpebre, colpite dalla luce del mattino, voltando la testa per occultare il volto in una zona ombrosa. Socchiuse gli occhi, le pupille che si adattavano di nuovo alla natura circostante vagando pigre. Si portò le mani al viso, stropicciandoselo stancamente, stendendo le gambe e stiracchiando le giunture. Emise un flebile lamento quando la caviglia sinistra scricchiolò, intorpidita dalla posizione che aveva tenuta durante la notte, ed ispirò profondamente, alzandosi in piedi, stirando per bene la schiena. Mentre sbadigliava, occultava le ultime tracce del focolare che aveva acceso quando si era accampato, guardandosi intorno per decidere quale direzione prendere. Senza stare a pensarci troppo, si incamminò, le braccia penzolanti lungo i fianchi, lo sguardo che si spostava velocemente da eventuali ostacoli sul terreno ad un punto fisso dinanzi a sé.
Prediligeva i sentieri poco battuti, quelli più scoscesi e dissestati, per rendere quel viaggio senza meta meno monotono, perché inciampare in qualche ramo caduto, graffiarsi il polpaccio con un cardo e provocarsi fastidiose irritazioni strusciando contro qualche ortica gli impegnava un poco la mente.

Giusto un poco.
Il necessario per non impazzire – camminare ed inciampare aiutavano allo scopo.

Una parte di sé desiderava impazzire.
Voleva concedersi la possibilità di pensare che tutto quello non era davvero reale, che avrebbe potuto aprire gli occhi e trovarsi in quelle fetide cucine a racimolare un po' di carne e formaggio da schiaffare su quel pregiato vassoio, voleva entrare rumorosamente in quelle stanze e spalancare le tende, permettendo che il sole illuminasse il prezioso baldacchino reale – ignorando la consapevolezza che l'avrebbe trovato intonso e dolorosamente vuoto.
Voleva aggrapparsi ad un tronco, lasciarsi andare, gridare ed ingiuriare, vomitare sangue – perché così forse quel grumo si scioglie con le lacrime e scivola via.

Ed invece camminava, per darsi l'illusione di andare avanti – ma sapeva perfettamente che si stava consumando le suole per arrivare in un posto che non avrebbe trovato. Perché questo è il problema di quando fai coincidere la definizione di casa con una persona. Ogni luogo in cui si trova quella persona è casa, una casa accogliente e calda ed è anche famiglia, il focolare che il pendolare brama con una tale intensità da provocargli una sofferenza fisica e che gli scalda il cuore quando ritorna, il nido dal quale l'uccello vola via per sola necessità.
E poi quella persona svanisce come fumo fra le dita e a te non resta che un vago odore di bruciato sul palmo della mano, che ti porti al volto ed annusi come se ne andasse della tua vita – e forse è proprio così.

Merlino aveva si era scavato nell'anima per trovare una forza che sapeva appartenergli e l'aveva gettata innanzi a sé, a guidarlo e sorreggerlo.
Come un nomade, errava nella natura e si beava della sensazione di spossatezza che lo prendeva quando si accampava per la notte, perché la mente si svuotava di qualsiasi cosa obliandosi nel sonno.
Non doveva preoccuparsi di quegli stolti che tentavano di assalirlo nella speranza di ricavare dell'utile – roteava gli occhi, le iridi si infiammavano e quelli finivano fuori combattimento.



Dopo parecchie ore, il gorgoglio di un fiumiciattolo solleticò la sua gola riarsa. Si arrestò, quindi, focalizzando la propria attenzione su quel suono ed individuandone la provenienza. Proseguì il cammino svoltando leggermente verso ovest e, dopo pochi passi, trovò in una spaziosa e verdeggiante radura il rigoglioso ruscello, lucente sotto i baci del sole ed allegro. Vi si inginocchiò, immergendovi le mani a coppa e portando la piccola pozza d'acqua alla bocca. Deglutì con piacere, ripetendo l'operazione più volte, sciacquandosi il viso e rinfrescandosi il collo.

Un rumore secco gli colpì i sensi, seguito da un nitrito.

Non sobbalzò e quasi fu deluso dal proprio cuore quando non mostrò alcuna intenzione di accelerare i propri battiti.
Era come congelato, immobile nel petto, indifferente. Ogni sensazione gli giungeva ovattata, ogni cosa sembrava irreale.
Andava avanti per pura inerzia – e lo sapeva.

Ai suoni di rami spezzati si aggiunsero delle voci soffocate. Dovevano essere banditi poco esperti – o incauti contrabbandieri, forse semplici viaggiatori. Chiunque fossero, avevano idea di fermarsi proprio in quella radura.

Dando ascolto ad un istinto meccanico, scavalcò con un salto il ruscello, facendosi spazio fra le felci per nascondersi. Si accucciò dietro un folto cespuglio di more, puntando poi lo sguardo sulle orme che aveva lasciato, provvedendo a farle sparire.

Lo scalpiccio di zoccoli ed il clangore metallico delle spade si avvicinava.
Da dietro un albero, sbucarono quattro figure in armatura lucente e visi contriti, lunghi mantelli rossi, un drago dorato sulla schiena, il vessillo di Camelot.

Desiderò sprofondare nei meandri della terra.
Si era imposto di non riportare la mente alle mura della cittadella, ai merli del palazzo, allo studio di Gaius – che lo aspettava, pur sapendo che non sarebbe tornato. Non si era concesso un pensiero su quello che aveva lasciato lì, a Ginevra ormai sola con il peso della corona, ai cavalieri – chi era sopravvissuto alla battaglia? Al passato, a quello che aveva avuto e non sarebbe tornato, quello che avrebbe potuto essere, quello che aveva inconsciamente deciso di salutare per sempre.
Ed in quel momento, il simbolo dei Pendragon gli sventolava sotto gli occhi, l'odore del sangue che ancora impregnava la stoffa.

« Riempite le borracce e mangiate in fretta. Dobbiamo perlustrare la foresta palmo per palmo. »

Lo aveva raggiunto, lì, al lago, e non aveva avuto bisogno di chiedere nulla. Forse aveva visto l'espressione di Merlino, forse lo aveva percepito, forse lo aveva addirittura osservato mentre la barca – deglutì a vuoto – svaniva oltre la vista.
Parsifal, scuro in volto, una benda attorno all'avambraccio sinistro, stringeva le redini del suo morello – coda e criniera erano state tagliate via in segno di lutto – scrutando attentamente la zona circostante.

Gli altri uomini provvedevano a nutrire i destrieri e a farli dissetare, dopo aver riempito ogni otre ed addentato qualche mela.

Non parlavano né ridevano, c'era tensione, profonda tristezza sul volto di ognuno, un silenzio carico di dolore.

Rimontarono sulle selle e ripartirono ad un cenno di Parsifal.

Prima che potesse rendersene conto, Merlino li stava seguendo, grato del fatto che avessero deciso di procedere al passo, guardandosi bene intorno come se fossero alla ricerca di qualcosa – probabilmente Sassoni fuggitivi.

Aveva seguito un impulso incontrollabile, il desiderio di sapere – in barba a quello che gli consigliava la testa – gli impediva quasi di concentrarsi su dove mettesse i propri piedi.
Voleva sapere chi altri non era rientrato a Camelot, chi giaceva sul letto di morte nell'attesa della falce consolatrice, quante madri e mogli stavano piangendo i loro cari, quanti figli erano rimasti abbandonati a loro stessi.
Quella bramosia lo fece sentire quasi vivo, perché conosceva le proprie reazioni, sapeva che ogni caduto, ogni numero gli avrebbe strappato via il respiro, il nome di un amico che sbiadiva su una lapide gli avrebbe regalato un brivido di sofferenza e rabbia – e lui lo desiderava. Perché il drago dorato dei Pendragon gli era rimasto impigliato nelle pupille e non riusciva a percepire nulla che non fosse il cieco desiderio di abbandonarsi alla pazzia, al dolore – ma qualcosa continuava ad impedirglielo. Doveva punzecchiare il nervo, mordere la carne viva – solo così poteva sbloccare quel pugno di tormentate emozioni che giacevano rinchiuse in qualche angolo della propria mente.

Si servì della magia per passare inosservato, per stroncare sul nascere il fruscio delle foglie che spostava al suo passaggio, per impedire ai propri passi di spezzare qualche ramo. Li seguiva da lontano, senza perderli di vista, senza farsi notare, aspettando il calar della sera perché si accampassero.

Quando l'occhio mortale giudicò impossibile proseguire ancora nella luce che diventava sempre più scura, Parcifal sollevò il braccio.

« Va bene così, per oggi ci fermiamo »

Merlino sospirò di sollievo, avvicinandosi a loro con maggiore cautela mentre smontavano dai cavalli ed accendevano un fuoco.
Quando fu abbastanza vicino da poter udirli ingollare la zuppa che si erano preparati, si acquattò in un punto dove non sarebbe stato visto ed attese un loro discorso, qualsiasi cosa – che non tardò ad arrivare da parte del più giovane del gruppo, i riccioli fulvi sparati in tutte le direzioni.

« Credete che saremo puniti? »

Parsifal sollevò un poco il capo, senza rispondere.
L'altro continuò, rigirandosi il cucchiaio fra le dita.

« Voglio dire… la Regina non ci ha neanche dato il permesso. Ovviamente non era nell'animo giusto, anche se mantiene sempre un contegno solido, ma non mi è sembrata- »

« Basta così, Aber. Se vuoi tornare indietro, sei libero di farlo. Continuerò da solo se è necessario. »

« Parcifal, non puoi continuare ad assumerti colpe che non hai. »

Il cavaliere ebbe un moto d'ira ed allontanò da sé bruscamente il piatto.

« Che non ho?! Ho assecondato Galvano mentre non era in sé e per poco non ci siamo rimasti secchi entrambi! E poi ho trovato Merlino e… e l'ho abbandonato su quella riva, lasciato là senza protezione! Non l'ho portato indietro a Camelot! »

« Eri sconvolto »

« Non è una scusante! »

Parcifal si prese la testa fra le mani, nel tentativo di darsi una calmata. 

« Posso comprendere perché Gaius e Gwen non si preoccupino per lui, ora so che Merlino può cavarsela da solo, ma io non… Devo riportarlo indietro. »

Sembrava essersi ripetuto quelle parole nella sua testa troppe volte.
I suoi compagni lo guardavano con compassione, sapendo che il dolore aveva il tragico potere di cambiare le persone.

Sir Aber si grattò il collo, cercando evidentemente un qualche argomento di conversazione che potesse alleggerire la tensione che aveva riempito l'angusto spazio che occupavano, ma fu preceduto dal cavaliere che gli sedeva accanto, una folta barba sul volto.

« Come sta Galvano? »

Parcifal non si mosse, ma parve che il suo respiro gli si congelasse fra le labbra, un fioco filo di voce in risposta.

« È molto- molto indebolito, ma Gaius promette che si riprenderà »

Sollevò il mento, portando gli occhi alla volta stellata, sussurrando forse qualche muta preghiera.

Uno dopo l'altro, i cavalieri si sistemarono per dormire, lasciando a Parcifal ed al suo umore torvo il compito di mantenere la guardia.

Nessuno parlò più per tutta la notte.




Merlino si puntellò sulle ginocchia e si allontanò dal loro accampamento nascondendosi dietro cespugli e magia. Avanzava con difficoltà, piegato a metà, aggrovigliandosi in rampicanti fedifraghi, tutta la sua attenzione focalizzata sui passi che muoveva.
La tunica si impigliò in un ramo sporgente ed un lembo di stoffa si strappò, ma non vi fece caso.

Quando ritenne di aver frapposto sufficiente distanza fra sé ed i cavalieri, arrestò la sua corsa.

Aveva lo sguardo puntato in basso, inglobato dall'oscurità attorno a sé, immobile nell'aria, sfiorato debolmente da un vento sottile.

Iniziò con un brivido subitaneo, che gli percorse un sensibile sentiero sottopelle.
E poi Merlino si accasciò come se ogni energia avesse abbandonato il suo corpo, rendendolo un debole mucchio di carne e ossa e macigni troppo pesanti da sorreggere.
Riverso su un fianco, stringendosi convulsamente il petto come a trattenere un flusso di emozioni troppo potente, le gambe piegate contro il corpo, la testa nascosta, la voragine nel ventre che si allargava a macchia d'olio, le palpebre che perdevano lacrime sulla pelle.
Gridò di un dolore senza confini, arrendendosi a spasmi incontrollabili, tremando e contorcendosi nel tormento.

Lo spontaneo intervento della magia lo soccorse, afferrandolo mentre precipitava nel baratro angoscioso al quale era stato condannato ed adagiandolo premurosamente in un sonno di immagini sorde e trasparenti, silenzioso come la dolce morte.
Le labbra schiuse ed il viso accartocciato, Merlino si addormentò.



Una goccia d'acqua gli picchiò la guancia, scivolando lungo la linea dell'orecchio.
Merlino spalancò gli occhi improvvisamente, scattando a sedere come se fosse stato punto.
Respirava velocemente, portandosi una mano al cuore che pareva voler prendere il volo sfondandogli la cassa toracica. Un seconda violenta pulsazione gli catturò le tempie.
Si tirò in piedi a fatica, percependo le membra curiosamente indolenzite e si guardò attorno, confuso.

I ricordi del giorno precedente gli inondarono il cervello come una brutale mareggiata.
Dovette aggrapparsi ad un tronco per non cadere.

Riacquistò quel poco di autocontrollo che gli aveva permesso di andare avanti durante quei pochi giorni, ispirando profondamente e trattenendo per qualche secondo l'aria nei polmoni, il petto gonfiato al limite nel tentativo di placare il martellare insistente del cuore.

Serrò gli occhi, espirando lentamente.
Alzò il capo, le palpebre dischiuse sotto sopracciglia aggrottate, voltandosi alla sua sinistra, fissando deciso un punto lontano.

I piedi seguirono lo sguardo e Merlino ricominciò a camminare.

Aveva una meta, l'unico posto dove avrebbe potuto smorzare quel fascio informe di emozioni, l'unico abbraccio che l'avrebbe riscaldato, l'unica consolazione che gli era rimasta, il conforto di un bacio materno per il bambino che piange.

Sarebbe tornato a Ealdor.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NdA
 
Mi rifiuto di accettare che Galvano sia morto. Punto. Perciò, nella storia lui – sebbene non è che lo usi per cose importanti – sarà vivo. Poco sano, ma salvo. No, davvero, non posso accettarlo. Ci hanno fatto morire i migliori uno dopo l'altro. Lancillotto – morto non una, ma due, due dannatissime volte! – e già mi sembrava eccessivo. Poi Elyan, che mi stava tanto simpatico. Poi è andato a farsi benedire il mio preferito, Mordred. Mi hanno ucciso perfino il più figo, Galvano. Infine, ci pugnalano con la morte di Artù – e che morte!
Una strage. Perché lasciare in vita pure Leon e Percival, a questo punto? Mannaggia ai produttori, sceneggiatori e tutti.
Fatto sta che non posso permettere che Percival se ne stia solo soletto senza il suo amicone. Galvano non poteva morire – no. Perciò, qui, non è morto. È gravemente ferito, potrebbe non farcela, ma almeno non è ancora morto.
 
BTW, ve l'avevo detto che sarebbe stata una storia piuttosto statica. Non credo di aver mai scritto niente di tanto descrittivo (io che tendo a detestare le descrizioni eccessivamente dispersive).

Bene, spero che non vi dispiaccia il primo capitolo. Mi ci sto impegnando come faccio davvero raramente, perché.. non so. Mi piace troppo scrivere di situazioni del genere – non è detto che ci riesca, però, anzi, piuttosto il contrario.
 
Ringrazio chi ha recensito ed i timidi fra voi che l'hanno inserita in preferite e seguite.
 
Spero di ricevere un vostro commento, di qualsiasi natura – distruggetemi, su!
 
Alla prossima! ^^


 

   
 
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