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Autore: Aleena    31/01/2013    2 recensioni
Shasta, un drow dalle grandi ambizioni, intesse una relazione proibita con Kania che lo porterà davanti al giudizio della sua Dea. La sua condanna all'eterno dolore, però, si trasforma nell'occasione di potere e di libertà che per tutta la vita aveva, inconsapevolmente, atteso.
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1a Classificata al contest "Imprisonment: because there isn't only happiness in our life" indetto da Visbs e Tallu_chan sul forum di EFP.
Genere: Angst, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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III - DESTINI

 
 
  Kania era steso sul pavimento torrido di quella piccola cantina che era stata il suo rifugio personale per quasi tutta la vita. Riposava, immerso in un sogno proibito e dolce quanto la luce del sole e altrettanto vago. Incosciente, non aveva fatto caso al trambusto che, sopra di lui, producevano le ricerche: rumore lontano di legno infranto, grida rauche e scalpiccio di tre paia di piedi troppo pesanti. Non si era accorto di nulla, e forse non avrebbe comunque sentito alcun rumore: le sue orecchie non erano sviluppate come quelle del suo Padrone.
Fu il rumore della porta che rovinava a terra a lanciare un campanello d’allarme nella sua testa: sapeva che Shasta non sarebbe rientrato presto ma non aveva modo di contare il tempo, che poteva essersi allargato all’infinito nell’arco del suo sonno, come spesso accadeva; e, se fosse stato il suo Padrone a rincasare, l’avrebbe cercato quando avesse ritenuto opportuno servirsi di lui. A Kania non dispiaceva essere usato così da Shasta e, in cuor suo, attendeva il ritorno dello jaluk con una trepidazione che aveva ben poco del servilismo e molto del sentimento, sebbene l’umano non avesse ben chiaro il nome o la natura di questa sensazione. Era stato allontanato dai suoi simili troppo presto - strappato prima dalla sua casa in fiamme e poi da un carro stracarico di corpi e lacrime – perché in lui si fosse formato qualcosa di più del linguaggio e vaghi ricordi, molti dei quali erano sprazzi di luce in un borgo che poteva essere reale o immaginato. Aveva cinque anni quando Shasta era divenuto il suo Padrone, scegliendolo fra chissà quanti altri bambini e trascinandoselo dietro in quel posto senza fuoco né luce nel quale era cresciuto. La sua prigione, come ogni tanto lo jaluk la chiamava – ma mai Kania si era sentito costretto o in pericolo, lì. Almeno fino ad ora.
Due mani nere l’avevano afferrato, sollevandolo con facilità e trasportandolo poi quasi di peso. Intontito, Kania aveva tentato una ribellione presto finita in un’esplosione di dolore all’addome e all’inguine, che l’avevano piegato e lasciato inerme. I due jaluk – sconosciuti, pericolosi, sbagliati! – gli avevano chiesto chi fosse, come avesse fatto a entrare in una casa serrata, perché si trovasse lì. Kania aveva bisbigliato qualcosa nella sua lingua e gli jaluk l’avevano colpito di nuovo, intimandogli di riferirsi loro usando l’idioma del sottosuolo. Kania aveva detto di non conoscerlo e qualcuno doveva averlo capito, giacché le domande si erano fatte insistenti; forse a quel punto aveva invocato il nome di Shasta, chiamandolo con la stessa intensità con cui un bambino sperduto chiamerebbe un padre. Qualcosa doveva essere scattato in qualcuno, giacché molte delle voci erano passate dal concitato al dubbioso all’irato. Uno jaluk gli si era avvicinato ringhiando qualcosa, un altro l’aveva afferrato per un braccio e sollevato quel tanto che bastava per rivoltarlo supino e riprendere a picchiarlo. Urlavano domande e Kania, piangendo, aveva raccontato loro ogni cosa – mai gli era stato detto di non farlo, Shasta non doveva aver previsto quest’eventualità – e poi li aveva seguiti, tanto docile quanto la sua natura e la paura lo rendevano. Ora era lì, chiuso in uno spazio scuro e angusto, circondato da voci sibilanti e dure, perlopiù femminili, che filtravano oltre l’assito dell’uscio.
 
La sensazione sgradevole di terreno secco e gelido raggiunse la mente di Shasta prima che lui stesso potesse rendersene davvero conto, trasmettendo una sensazione di pericolo ed errore a cui lo jaluk impiegò molto minuti a dare un senso. Era steso al suolo, un pavimento di roccia liscia e gelida come il bacio della morte a fargli da materasso, i polsi stretti con un laccio che li faceva pulsare dell’assenza di sangue. Non c’era un solo rumore, non una voce da alcuna parte. Il silenzio era assoluto, l’ideale per raccogliere le idee - e Shasta lo fece, cercando la falla nel suo piano, il caso che l’aveva voluto lì.
Qui… dove?
Shasta aveva paura di saperlo.
 
Una donna gridava, sibilando ordini a qualcuno che forse non c’era, forse sapeva solo annuire; non otteneva mai risposta, solo nuovi ordini, un trambusto controllato e il rumore dei passi nell’eco di una sala molto ampia.
E il tempo aveva perso ancora di senso, era ancora sfumato nel buio.
Non è mai successo, pensava, stringendo le pallide mani convulsamente al petto nudo e magro, non ti hanno mai preso. Hai sognato, solo sognato. Sei nel buio della tua tana, nella sicurezza del suo rifugio. Lui arriverà presto e ti sveglierà e poi vorrà scopare, e allora capirai che non è reale, che non è reale, che non è assolutamente reale…
Kania, rinchiuso nelle tenebre, aveva spalancato più volte gli occhi e poi li aveva chiusi, come temendo che l’oscurità potesse dissiparsi e mostrargli la falsità della sua menzogna. Quelle voci? Erano solo un sogno. I lividi? Shasta l’aveva cacciato dal letto troppo violentemente, quella volta… ma sarebbe tornato. A breve sarà con me e non dovrò preoccuparmi. Sarà qui e allora tutto andrà bene, tutto sarà normale.
Kania era riuscito a mantenersi calmo ripetendosi ogni volta lo stesso pensiero, formulato attraverso decine di parole dal medesimo significato: sarebbe tornato, non l’avrebbe lasciato indietro da solo in questo mondo freddo che odorava di spezie e fumo.
Se avesse potuto, Kania avrebbe pregato qualche Divinità, implorandola di far tornare Shasta e di farlo restare al suo fianco – ma non conosceva alcun Dio. Era stato troppo piccolo per apprendere dei propri e Shasta non gli aveva mai accennato nulla della Dea Ragno se non il suo nome. Dunque fece l’unica cosa che sapeva: si affidò ai ricordi.
Rivide il mucchio di stracci e la stretta scala di legno scricchiolante, le pareti di terra e la figura di Shasta che lo intimava di seguirlo. Bastò questo – la familiarità, l’ombra degli odori di quella casa ora davvero deserta, la voce lontana del suo Padrone che lo chiamava – a placare la sua paura, il dolore, l’angoscia.
Tutti i miei ricordi ti tengono vicino. Tutto nel mio pensiero riguarda noi… e nei miei gesti. Nei sussurri silenziosi, nelle silenziose lacrime…

Ogni pensiero di Shasta era finalizzato alla ricerca di una via di fuga.
«Se Kania è loro, l’avranno fatto parlare, confessare… quanto gli avrà detto?» sussurrò lo jaluk, i sensi talmente tesi che la nota bassa della sua voce lo spaventò quanto un tuono improvviso. Respirò, cercando di tenere il panico lontano dalla sua parte razionale. Doveva trovare il modo di negare ogni coinvolgimento, ogni azione potenzialmente pericolosa… ma come fare?
«Potrebbe avermi conosciuto ovunque, aver detto il mio nome per vendetta! Fui io a strapparlo dalla sua casa, a caricarlo su un carro e spedirlo nel sottosuolo a morire… o potrei essere stato. Il mio battaglione ha attaccato la sua città, no? Potrebbe avercela con me per questo. Aver sentito qualcuno fare il mio nome… un generale, Dresden... o avermi scambiato per un altro. In fondo per loro siamo tutti uguali, no? E le Matrone… potrebbero credermi. Devo dire loro che non l’ho mai visto, che non ho colpa, che quel ragazzo era uno dei tre fuggiti, che Dresden ha contato male...» Dresden. «Giuro che lo uccido appena esco da qui. Me lo scopo e poi lo uccido con le mie mani!» balbettò Shasta, la voce sempre più incerta e stridula, carica di panico.
Sapeva cosa lo attendeva, sapeva dove era rinchiuso e questo lo spaventava a morte.
Un maschio non avrebbe mai dovuto trovarsi lì.
 
Se solo ci fosse stato un modo per sapere se Shasta stava bene. Deve stare bene. Deve! Passerà una notte in caserma e poi verrà qui, nella nostra casa solitaria, a prendermi si disse Kania; ed avrebbe potuto perfino crederlo – avere la certezza che Shasta sarebbe arrivato con un sorriso, uscendo dai suoi ricordi, improvvisamente reale – se una voce non avesse ordinato di “prendere i prigionieri”.
 
Se solo ci fosse un modo per sapere se Kania è vivo... se fosse morto potrei difendermi, se l’avessero ucciso potrei dire che non ho colpa e nessuno potrebbe contraddirmi.
Per la prima volta, Shasta considerò seriamente se ne fosse valsa la pena. Se lo chiedeva ancora quando vennero a prenderlo.
 
La Grande Sala del Tempio era un ovale immenso sormontato da un tetto a cupola, sul quale erano scolpite scene della Caduta e Nascita – il momento in cui gli ilythiiri avevano smesso di essere elfi – e dell’ascesa della Dea, che aveva raccolto sotto la sua mano crudele l’intera genia. Bassorilievi raffiguranti la Dea in atto di cedere il domino alle jalil, dare ordini o sorbire sacrifici di sangue erano ritratte sulle pareti lisce e nere, intervallate da colonne di marmi bianchi che sembravano come inglobate dai muri. Non c’era altro se non il vuoto e una statua, l’effige di una femmina bellissima e feroce circondata dai cadaveri di svariate creature di superficie e dell’Underdark; alcuni di questi non erano altro che nemici di roccia ma altri – quattro, per l’esattezza – erano stati due jinn, un mezzosangue e un umano. Il loro sangue bagnava il terreno in macchie concentriche e irregolari fra le quali sgusciavano le piccole creature care a Lolth, la Dea Ragno. I piccoli aracnidi, che si muovevano lentamente sul pavimento liscio, agli occhi di Kania ricordarono le foglie di grandi aceri che doveva aver visto nella sua infanzia, rosse e trascinate dal vento – ma non c’era alcuna brezza lì. Solo penombra e sapore metallico.
Due guardie affiancavano Shasta, una per lato, mentre una sola era stata assegnata a Kania, che avanzava arrancando, incerto, gli occhi spalancati fissi su ciò che restava delle creature gettate alla base della statua. Il ragazzo umano era talmente spaventato che si accorse della presenza del suo Padrone solamente quando questi venne gettato in ginocchio al suo fianco, proprio sotto l’occhio tremendo della statua, che sembrava sormontarli in una pausa riflessiva, quasi fosse in attesa di capire il punto migliore per colpire i due prigionieri.  Abbassando la testa rispettosamente, le tre guardie si allontanarono di un passo e si inchinarono. Shasta deglutì, imitando i suoi simili senza tuttavia lasciare che gli occhi smettessero di saettare per la stanza in cerca di una via di fuga, un segno rivelatore, un’opportunità.
«E dunque, è questo ciò che resta» disse una voce melodiosa e gelida da dietro la mole impenetrabile della statua. Kania rabbrividì: se non avesse sentito quella voce urlare ordini per l’intera – giornata? Mese? Vita? – prigionia, avrebbe creduto che fosse stata la statua stessa a rivolgersi a loro. In parte doveva in ogni caso averlo pensato perché, quando la figura di una piccola jalil scivolò leggera verso di loro, le labbra si distesero in un mezzo sorriso di serenità, un’espressione che Shasta giudicò quasi ridicola. Il peggio non era neppure iniziato e già Kania dava segni di idiozia: sorridere, lasciare lo sguardo alzato, abbassare la guardia a quel modo era la via sicura per farsi ammazzare con dolore. Cosa che avverrà probabilmente comunque, pensò cinicamente Shasta.
«La Dea, nella sua visione, ha un piano per ognuno di noi. Alcuni divengono i suoi servi nella terra, destinati ad accrescere la sua forza. Altri divengono cibo, come loro.» riprese la Sacerdotessa, allungando una mano scura come la notte verso i corpi riversi nel sangue. Indossava una veste rossa che faceva da strano contrasto con lo sfondo nero del Tempio. «Loro sono diventati cibo per lei, nella morte e oltre. Verranno divorati in eterno nella sua ragnatela, com’è giusto che sia. Ma voi» la jalil si avvicinò, abbassandosi fino a toccare un ginocchio a terra, fra Shasta e Kania. Allungando le mani, sollevò i visi dei due maschi fino a portare i loro occhi a livello dei suoi. Occhi rossi, carichi d’ira, valutò Shasta, perdendo un battito di cuore.  «… voi, avete commesso qualcosa che va oltre. Un crimine come raramente se n’è udito. Tu, jaluk, soprattutto. Ripetimi, a chi appartiene la tua vita?» la voce della femmina era suadente, atteggiata a una falsa malia. Shasta tentò di non incrociare il suo sguardo, ma la morsa con cui la jalil serrava la sua mandibola non gli permise di far altro che abbassare gli occhi.
«Alla Dea e alle Sacerdotesse e Matrone. Loro hanno ogni diritto su di me, sulla mia vita e sulla mia morte. Io non posso oppormi, né rifiutarmi, né scegliere.» recitò il maschio lentamente.
«Molto bene. E tu, prigioniero? A chi appartiene la tua vita?» sussurrò la femmina, volgendo il capo canuto verso Kania, che sentì distinto l’odore di muschio del suo profumo.
«Al… al mio Padrone, Signora… Matrona.» balbettò Kania, incerto. Non aveva mai avuto contatti con altri drow, men che meno con una femmina, e non sapeva come comportarsi, cosa dire. Shasta l’aveva lasciato digiuno delle usanze della sua razza, ritenendo sciocco parlargli degli ilythiiri e preferendo, invece, sfogare sul ragazzo umano i suoi desideri. È un bambino, solo un bambino con un corpo da adulto, troppo stupido e ignorante per capire di trovarsi sull’orlo del baratro.
«Padrone? E chi sarebbe?» la jalil aveva esibito una smorfia di disgusto e riprovazione, l’atteggiamento di chi non sia abituato a sentirsi mancare di rispetto, sia pure lievemente.
«Il… » cominciò Kania, a disagio, lanciando un’occhiata carica di paura a Shasta – un grido d’aiuto al quale lo jaluk tentò di sottrarsi senza successo. Il volto della femmina si accese di qualcosa che era a metà fra il trionfo e l’ira. Lo sa, pensò Shasta. Che qualcuno mi salvi, lei sa!
«Lascia stare, schiavo. Tu!» tuonò la femmina, lasciando andare i volti dei due prigionieri quasi con ripugnanza. Ora puntava lo sguardo infuocato su Shasta, ogni traccia dell’accattivante, fasulla cortesia cancellata dal furore. «Hai sottratto alle tue padrone un prigioniero e ne hai fatto il tuo schiavo. Tuo! Un servo non può né deve assoggettare nessuno. Da quanto tempo va avanti?» domandò, ma non attese risposta. Chiuse gli occhi, richiamando a se con una lenta litania il potere di quella magia oscura che scorreva nel sangue di ogni ilythiiri ma che ai maschi era preclusa; e mentre la femmina dipanava verso di lui spire di potere, Shasta tentò per la prima volta di chiamare a raccolta parte di quella forza che risiedeva nel suo corpo, attirandola con la tenacia della disperazione.
Non vi riuscì.
La jalil penetrò nella sua testa con la facilità di una lama incandescente nella carne, scavando fra i ricordi e le sensazioni fino al momento in cui aveva preso Kania; seguì, immersa nella corrente delle memorie, la fuga dello jaluk e del bambino in lacrime. Vide i lunghi anni che Shasta aveva atteso, il momento in cui quello schiavo s’era trasformato in un adulto. Vide la brama che animava le loro notti e si ritrasse carica di sconcerto, il petto scosso da respiri profondi e irregolari. Per qualche istante non disse nulla, attimi per Shasta carichi del rumore del suo sangue che pulsava nelle orecchie a ritmo accelerato. Quando la jalil parlò, fu soltanto per intimare alle guardie di legare il ragazzo umano alla base della statua. Poi se ne andò, lasciando Shasta immobile al centro della sala, sotto l’occhio vigile della sua Dea.
 

*

 
  «Lolth non è sazia. Vuole il sangue dell’umano come pasto.» disse la più bassa delle tre femmine, quella che sedeva sulla portantina retta da sei maschi per lato. Le altre annuirono, facendo tintinnare i cristalli assicurati ai veli che coprivano loro parte della bocca. Il volto di Kania era una maschera priva di colori, cristallizzata in un’espressione d’orrore: lacrime gli scorrevano sulla pelle chiara del volto fino al collo e alla casacca grigia e lacera.
«Che sia sacrificato nel sangue e nel dolore» disse la jalil vestita di rosso, avvicinandosi al ragazzino e prendendolo per i capelli.
«Shasta…» mormorò Kania, lanciando uno sguardo carico d’amore verso il suo Padrone. Poi fu solo dolore, solo lacrime.
Shasta distolse lo sguardo e il pensiero, cercando di non far caso alle grida disperate di Kania o ai rumori liquidi. Non guardare in faccia la tua morte, non lo fare! Si disse. Non c’era tempo di sperare: il fatto che le matrone non avessero detto nulla riguardo a lui poteva solamente essere un gioco, un modo sadico per tenerlo ancorato alla speranza.
Così attese, mentre le grida sfumavano dalla bocca di Kania, abbandonandolo come la sua stessa vita. Le Sacerdotesse erano esperte: allungarono l’agonia quanto poterono, ma finalmente anche questa ebbe fine.
«Tu, maschio.» disse dunque la Suprema Sacerdotessa, allungando una mano sulla quale le prime macchie pallide apparivano a indicare l’età. Dev’essere una donna potente per aver vissuto così tanto, pensò Shasta, incoerente. Persino i ragni si scansano per farla passare. Lolth, mi fa paura. «La Dea non ti vuole. Il tuo corpo e il tuo sangue sono troppo corrotti, troppo pieni di… zozzura e infamia. Hai tradito la tua casata, la tua gente, la tua stessa natura. Hai cercato di elevarti al di sopra di chi ti è naturalmente superiore. Per questo, la tua condanna: bandito in eterno» tuonò la femmina e si sollevò in piedi allargando le braccia, gli occhi rovesciati. Una bassa, melodiosa canzone si allungò nell’aria: il lamento di una creatura maledetta, la disperazione di una vita di dolore.
«Drider… un drider!» disse Shasta, capendo quel che stava per succedergli: volevano trasformarlo in qualcosa di nefasto e osceno, un essere di dolore assetato di sangue che avrebbe vagato per l’eternità in cerca di morte. «Vi prego mia signora! Non un drider! No!» urlò con tutto il fiato, gettandosi a terra con disperazione. Avrebbe mantenuto la coscienza di sé ma parte del suo corpo sarebbe stato di ragno: il destino peggiore per un’ilythiiri, il segno del massimo scontento della Dea. Dolore… ne avrebbe provato molto durante la trasformazione, o almeno così dicevano le storie. E non sarà nulla, nulla, rispetto al poi. Imprigionato per sempre nel sottosuolo, nella vergogna, nell’agonia… imprigionato in un corpo che sarà solo per metà mio.
L’ultimo pensiero di Shasta, prima della trasformazione, andò a sé stesso, alle sue scelte: ne valeva la pena? Si chiese.
Poi il fuoco esplose nelle sue vene.
 
 

  
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