Muschio e Cannella
La porta si chiuse silenziosamente come era stata aperta, poche ore prima. Le lenzuola bianche, ormai smosse, le avvolgevano il corpo nudo, ricoperto da un sottile strato di sudore, come rugiada sui fiori del mattino. Il letto accoglieva ancora il calore dei loro corpi, il ricordo di quelle ore, i sospiri e i gesti di quei brevi momenti. Eppure ora, così spoglio, non sembrava recare tracce della sua presenza.
La donna strinse maggiormente a sé il candido copriletto, nascondendo il proprio corpo; chiudendo gli occhi, forse, poteva ancora convincersi che lui fosse lì, accanto a lei, inondandola del suo profumo. Del loro profumo.
Riaprì improvvisamente gli occhi. La stanza era silenziosa, illuminata dal caldo sole del pomeriggio. Le pareti lignee riflettevano i raggi del sole, e la presenza di un’unica finestra, proprio lì, davanti a quel letto, donava un'ombra scarlatta all’appartamento. Quasi che anche il sole volesse lasciarla sola, timoroso di imporre la sua presenza. Sul comodino affianco, la sfera perlacea la osservava con disappunto.
Con un gesto improvviso, scagliò la sfera verso la parete, mandandola in frantumi. Non se ne curò.
Lentamente, come intrappolata in una dimensione senza tempo, si diresse verso il tavolo da the. Con gesti accorti, che nascondevano una vecchia abitudine, prese a prepararsi una tazza di caldo nettare, permettendo ai pensieri di scorrere fluidi, verso gli avvenimenti di quel pomeriggio.
La camera profumava di
tiglio e cannella; era avvolta nel calore dei raggi del sole del primo
pomeriggio
e, come al solito, ne era l’unica occupante. Il tavolo da the
era appena sotto
la finestra; la camera non era molto ampia, così passava
ogni pomeriggio estivo
seduta a quel tavolo, le spalle che davano alla porta.
Quando questa si
aprì,
silenziosamente, portando con sé un soffio di aria fresca e
muschio, non ebbe
bisogno di voltarsi per sapere chi era entrato. E non aveva bisogno del
suo
terzo occhio, per capire di cosa avesse bisogno. Entrambi avevano
bisogno della
stessa cosa. La porta si richiuse.
La teiera fumante l’avvisò che il the era ormai pronto. Meccanicamente versò il liquido nella tazzina, mescolandolo con movimenti lenti e cadenzati. Portò la tazza alla bocca, per poi riporla nuovamente al suo posto, senza aver bevuto.
Le sue labbra erano
gelide, le sue mani avide. I suoi gesti erano prepotenti, veloci,
eppure
nascondevano un insano bisogno di contatto, di vicinanza. I loro corpi
abbracciati, intrecciati, congiunti tra quelle lenzuola cercavano
appiglio
l’uno nell’altra. Poteva vedere i suoi occhi, pozzi
neri nella neve, e sapeva
che non era amore. Non lo sarebbe mai stato. Non era passione, o
desiderio. Lo
sapeva. No, non era nemmeno un errore.
La teiera giaceva, in frantumi, sul pavimento in legno; un mare di cocci riempiva la stanza. A piedi nudi, non curandosi dei graffi, o delle gocce scarlatte che coloravano le travi lignee, iniziò a ripulire con cura.
Si erano donati
l’uno
all’altra, concedendosi ciò di cui avevano
bisogno. Come di ritorno da un lungo
viaggio, così era riapparsa la realtà. Si era
alzato dal letto e, uscendo, aveva
richiuso la porta alle proprie spalle.
Il sole, ormai stanco, cedeva pigramente il posto alla notte. La finestra affacciava verso ovest: non le era dato di assistere alla felice nascita del giorno, ma il cielo vermiglio accompagnava sempre le sue notti. Una bianca lapide risaltava prepotentemente, nel cielo arrossato.
Sibilla Cooman non era una donna romantica. Non si commuoveva alla vista di un tramonto, non sognava il principe azzurro, non piangeva ai matrimoni. Non era nemmeno invitata, ai matrimoni.
Sibilla Cooman era una bizzarra, incomprensibile, per molti sciocca, donna. Strega. Non c’era da stupirsi che a Luglio inoltrato fosse ancora nella sua piccola camera, ad Hogwarts. Non aveva un posto dove andare, e non se ne preoccupava.
Per dirla tutta, a Sibilla Cooman non interessava nulla di quello che la riguardava. Osservava la sua vita attraverso una fitta nebbia, come una spettatrice obbiettiva. E non se ne lamentava.
Affacciata a quella finestra poteva vedere un’ombra, ai piedi della lapide. Piegata sul terreno smosso, ancora fresco, piangeva le sue lacrime stringendo al petto una fotografia stropicciata.
Gli occhi opachi della donna si concentrarono sulla figura di Severus Piton. Sapeva che non si sarebbe magicamente voltato verso di lei, incontrando i suoi occhi. Sapeva che non sarebbe tornato, questa notte, o quella successiva. Sapeva che, infondo, era stato amore. E sapeva che non ne era lei la destinataria.
Erano entrambi soli, lo sarebbero sempre stati. Eppure, in quei pochi momenti, quando i loro corpi si sfioravano, erano insieme nella loro solitudine. Ed era bastato, anche solo per così poco, perché potessero continuare le loro vite, senza perdersi nel tragitto.
Dette le spalle alla finestra. Dopo tanti anni, la calma si era appropriata del suo carattere. Con movimenti dolci, rifece il letto, carezzando il fresco tessuto delle federe bianche. La stanza era immersa nel buio.
Come lacrime, i piccoli frammenti di cristallo che le erano sfuggiti emanavano un impercettibile bagliore, riflettendo i candidi raggi lunari. I giochi di luce dipingevano un’immagine eterea, fuori dal mondo, lontana dai rumori del castello disabitato. Distesa, Sibilla permise nuovamente ai suoi occhi di chiudersi.
Era la prima estate
dopo la sconfitta del Signore Oscuro. Tutti sembravano risplendere di
una nuova
luce, i tempi passati scorrevano via, lavati dalla speranza di una
nuova vita.
Era anche la sua prima estate ad Hogwarts, dai tempi della scuola.
Fu allora che lo vide.
Gli occhi spenti, i passi lenti e gravi, di un giovane uomo che porta sulle
spalle più
anni di quanti ne ha vissuti. La sua figura non risplendeva, non c’era speranza
nei suoi gesti.
Per un attimo, un
attimo solo, prima che Silente lo accompagnasse nel suo ufficio, i loro
occhi
s’incrociarono.
E allora seppe che, un
giorno, i loro destini si sarebbero incontrati.
Quell’incontro non sarebbe
stato duraturo. Nemmeno particolarmente importante, o significativo.
Non
avrebbe segnato l’inizio di una storia, e nemmeno la sua fine.
Fatto sta che, ad un
certo punto, le loro strade si sarebbero incatenate. Un solitario nodo,
sul
filo del destino. Eppure, per quanto insignificante, non si sarebbe
sciolto.
Avrebbero proseguito ognuno lungo il proprio cammino, conservando, nel
proprio
bagaglio, quell’ennesimo nodo di vita.
Sperò ancora, per un impercettibile istante, che la porta si riaprisse. Ma quella, cocciuta, restava serrata.
Prima di addormentarsi, in quella camera all’odore di cannella e muschio, quello che era il loro profumo, si permise di sorridere.
Era ancora possibile sognare, in un letto vuoto e freddo, una calda notte di mezza estate.
FINE
Note dell’autrice: Una mattina mi sono svegliata: c'erano Sibilla Cooman e Severus Piton che, travolti da un insolito destino, si concedevano l’uno all’altra per un pomeriggio. E non immaginavo storie d’amore, perché dentro di me so che Severus non amerà mai più. E Sibilla, è una donna che ha rinunciato da tempo al lieto fine. Però, mi sono convinta a raccontare questa storia.
PS: Questo non ha nulla a che fare con la mia nuova malata passione per Severus Piton e Strani Pairing.
Ringraziamenti: Un grazie enorme a caith_rikku che mi ha betato la storia, dandomi anche il coraggio di pubblicarla.
SPOILER :
Ho tentato di non inserirvene. La storia si colloca nell’estate tra il sesto e il virtuale settimo anni di Harry; ma, se non avessi letto il settimo, non avrei potuto scriverla (infatti credevo che Severus si fosse dato alla macchia o qualcosa del genere. Mica m’immaginavo che sarebbe rimasto placidamente ad Hogwarts ^^). La foto che stringe al petto è l’immagine di Lily, quella che ha recuperato a Grimmauld Place (la Rowling non ci dice quando, quindi mi son presa questa libertà). E’ stata una scena molto commovente, quella di Grimmauld Place. E ritengo che avesse ancora con sé quella foto, al momento della sua morte. Non poteva mancare. Severus è morto quella notte tra il 30 e il 31 Ottobre del 1981, con lei. Il “dopo” è stato, per lui, un trascurabile dettaglio, un trascinarsi apaticamente attraverso la vita.