LA BELLA E LA BESTIA
La
diligenza s'era lasciata dietro le cupole antiche di Cracovia, le strade brulicanti di
studenti e di gendarmi baffuti e accigliati, e poi i campi coltivati, i boschi.
I cavalli erano stanchi, nonostante l'ultimo cambio appena effettuato alla
stazione di posta. L'autunno batteva alle porte e il loro fiato era una nuvola
di vapore, bianca come il latte.
Il paese: contadini, era giorno di mercato, quello, con
ceste piene di uova al braccio e pollastri che si dibattevano, appesi per i
piedi; mandrie di vacche pezzate dagli sguardi placidi, il vecchio prete sul
sagrato, il mendicante ubriaco all'angolo...E il volto di Magda inquadrato nella cornice nera
e tarlata della finestra, pallido e quasi accigliato
sotto il riflesso scialbo dei capelli troppo fini e troppo biondi. Magda: la
sua spina nel cuore.
Ventisei anni, ormai. Chi l'avrebbe voluta? Magda la
sciancata, come la chiamavano i monelli di strada. Che ne sarebbe stato di lei,
ora?Jaceck si sentì
stringere il cuore: la ricordava, bambina, corrergli
incontro quando tornava. Ljuba era viva
e gli affari andavano bene, allora. Quanto tempo era passato? Un
secolo? Un attimo? L'eternità? Sì, un'eternità che gli aveva cosparso di neve i
capelli, di solchi profondi la faccia, di veglie le notti. Una lunga,
interminabile notte durante la quale Ljuba era morta dando alla luce la piccola
Lenka e portandogli via la voglia di vivere; gli affari avevano preso ad andar
male e Magda si era ammalata alle gambe. Povera bambina, non si era più riavuta e, da allora, per camminare era
costretta a trascinarsi appoggiata a un bastone. Magda e il suo pianoforte,
l'unico compagno a consolare la sua cupa solitudine di storpia. Che ne sarebbe
stato di lei? Chi l'avrebbe voluta, a ventisei anni, e zoppa per giunta? E
intanto il tempo passava, scemavano le forze e crescevano i debiti: un altro
inverno freddo bussava alle porte.
Ci sarebbe stata meno legna al fuoco, e cavoli e
patate invece che buona carne di montone. Quando avrebbe potuto comprare una
pelliccia nuova alla piccola Lenka? E il corredo per Jadwiga, che in primavera
sarebbe andata sposa? Jadwiga, scura e sottile come un'ebrea, gli occhi vivaci
da zingara. Non rassomigliava alle sorelle. Ed era l'unica che non fingesse di
non aver capito: non le aveva promesso amore, il Barone, né a lei era importato
qualcosa dei suoi cinquant'anni passati e della sua bruttezza: un nome, un
titolo e le sue ricchezze erano un prezzo sufficiente per rinunciare ai sogni,
anche a vent'anni. Forse era giusto così. E Jaceck sarebbe invecchiato con un
rimorso in meno, nell'antico palazzo sempre più tetro e spoglio, nel ricordo di
un passato felice ma lontano quanto la luna, in compagnia di una storpia e di
una bambina alle quali non era stato capace di assicurare un avvenire migliore
di quello.
*
Era stato il pensiero delle figlie a fermargli la
mano ogni volta che quell'idea gli era balenata in mente mentre puliva la sua
vecchia pistola. La morte sarebbe arrivata istantaneamente, senza
lasciargli il tempo di
sentire dolore. Poi, il nulla. Non l'inferno, come sosteneva il
vecchio parroco nei suoi sermoni. L'inferno è in terra, è una casa grande e
vuota, un focolare senza legna, è zuppa di patate e cavolo in ciotole
di terraglia. Sono gli altri che ridono di te, sono le tue figlie senza
futuro. Meglio addormentarsi per sempre, prima che gli altri sappiano del tuo
disonore. Ma aveva tre ragazze a cui pensare.
Magda,al solito,gli era corsa incontro trascinando i
piedi, con un sorriso che era una smorfia stampato sulla faccetta bianca e
avvizzita. "Sei un fallito.” Sembrava
dirgli ogni volta che gli
piantava in faccia le sue pupille sbiadite. “E’ solo colpa tua se sono ridotta
così; se non avessi gettato via il tuo denaro in speculazioni sbagliate, agli
uomini non sarebbe importato nulla delle mie povere gambe…” Avrebbe pensato
anche a Jadwiga, che non sorrideva più, malgrado il meraviglioso zaffiro
indiano che le luceva all’anulare. Era grasso e vecchio, il Barone: fossero
stati ricchi come qualche anno prima, Jadwiga si sarebbe potuta permettere di
ridergli in faccia, invece…
Solo la
piccola Lenka gli era corsa incontro, avvolta nel suo cappottino rosso
striminzito e logoro, bordato da una pelliccetta bianca tarlata. La sua
bambina. A diciassette anni, Lenka era il ritratto parlante della povera Ljuba,
bionda e delicata come lei, e altrettanto dolce e gentile. Gli era stato
difficile perdonarle d’aver portato via la sua sposa adorata, venendo al mondo.
Quante volte glielo aveva fatto pesare, povera creatura. Ma lei era un angelo,e
aveva sempre finto di non accorgersene. E aveva sempre atteso con gioia i suoi
ritorni, senza i rimproveri muti delle sorelle, anche se si sapeva destinata,
per causa sua, a una vita di solitudine come Magda, o a un matrimonio
d’interesse, come Jadwiga.
Jaceck
ripose la pistola nella custodia,
alzò gli occhi al grande quadro che campeggiava sulla tappezzeria logora del
salone: gli occhi azzurri, i lunghi capelli biondi di Ljuba, immortalati per
sempre sulla tela. Il suo sorriso timido,contro il quale nulla avrebbero potuto
né il tempo né la morte. No, la maestria di nessun artista avrebbe potuto
rendergli colei che era stata la pupilla dei suoi occhi e che adesso non c’era
più. Ma quel quadro, opera di un famoso pittore italiano, valeva parecchio. E
la miseria bussava all’uscio, sempre più
forte. Avesse trovato il coraggio
di venderlo, ne avrebbe ricavato abbastanza da chiudere la bocca a
Isaac, lo strozzino di Cracovia.
Sarebbe partito l ‘indomani stesso, all’alba, senza
salutare nessuno. E sarebbe ritornato di lì a qualche giorno, recando nella
borsa appesa alla sella qualche soldo sufficiente a comprare provviste di legna
e porco salato per l’inverno e i poveri doni che le figlie gli avevano chiesto:
spartiti musicali per Magda, qualche nastro di seta per il corredo di Jadwiga e
una pianticella di rose bianche per Lenka.
*
Magda, che
come al solito spiava il suo ritorno affacciata alla finestra, chissà
cos'avrebbe pensato, vedendo il cavallo, un bel cavallo nero dal mantello
lustro, in luogo del solito ronzino, e
la bella cappa svolazzante, tutta bordata di soffice volpe rossa, che lo
riparava dal freddo. E quando avrebbero aperto le borse...Monete, e pezzi
d’oro. Tanti spartiti per Magda e un bel soprabito nuovo per non aver freddo
quando, la domenica, si sarebbe recata alla Messa. Trine di Fiandra per il velo
da sposa di Jadwiga. Una pelliccia d’agnello, morbida e calda,per la piccola
Lenka. Forse, avrebbero pensato, la ruota della fortuna aveva ripreso a girare
per il verso giusto. “No,Magda,non è così:sapessi quanto mi costa sforzarmi per
non piangere…Una cosa è certa:ho sempre cercato nient’altro che la vostra
felicità, figliole. Ma sapessi, piccola Lenka, il prezzo che mi costa questo
incredibile bocciolo di rosa che ho colto, alle soglie dell’inverno, in un
giardino stregato.”
Si gettò
calzato e vestito com’era sul letto, dopo aver rifiutato la cena.
Ma il sonno, anche qualora fosse venuto, non gli avrebbe portato riposo.
Ripensò al bosco flagellato dalla tramontana, alle
gambe del cavallo che si piegavano, cedendo all’età e alla stanchezza, mentre
la bocca gli si riempiva di bava sanguinolenta: povera bestia. Era calata la
notte: stridio di gufi, ululi di lupi, nel bosco. Forse non l’aveva poi
desiderata come credeva,la morte.Non quella,almeno, senza il conforto di chi ti
è caro a stringerti la mano, senza una tomba su cui qualcuno avrebbe pianto.
Aveva arrancato per ore in mezzo a quelle ombre, in compagnia della sua paura.
Un lume brillava in lontananza: le rovine di un vecchio castello su cui si
diceva pesasse una maledizione. Ma lui non aveva mai creduto alle favole dei
vecchi e degli zingari: gli spettri nessuno li ha mai visti,i lupi dalle fauci
bavose e dalle zanne scoperte, sì. Aveva arrancato in salita fino a sentire il
cuore scoppiargli, fino a che gli occhi s’erano velati.
Si era risvegliato in un comodo letto, tra lenzuola
ricamate e soffici coperte di pelliccia: lo attendevano un buon bagno caldo,
un’abbondante colazione servita in stoviglie di porcellana, abiti caldi e
puliti. E la sorpresa, sul comodino, di un sacchetto d’oro e di una lettera che
aveva letto d’un fiato.
“L’amore di una donna mi è precluso, ma nessuno
potrà mai impedirmi di sognare. Vi ho udito, nel delirio, parlare di un quadro
che desideravate vendere: il ritratto della vostra sposa defunta. Immagino
quanto vi sia caro e come solo la necessità vi spinga a privarvene. Nessun
mercante ve lo pagherebbe più di quanto ve lo paghi io: ma i sogni non hanno
prezzo.”
“Dove sono? “si era chiesto. In una stanza ovattata
e silenziosa, arredata con suppellettili di gran pregio; affacciatosi alla
finestra, aveva spalancato gli occhi su un incredibile giardino. Tante rose
bianche. Si era ricordato della promessa fatta alla piccola Lenka, era uscito
nel freddo pungente del mattino. Quanto aveva dormito? Freddo e rose in boccio.
Incredibile. Aveva allungato una mano, piegato uno
stelo sottile. Si era punto un dito.
“Maledetto, ricambi così la mia ospitalità?” Un tremito violento lo aveva scosso al
suono di quella voce aspra e adirata. Colui che gli stava davanti, doveva essere il castellano: un uomo snello, di
media statura , completamente avvolto da un lungo mantello nero. Le mani erano
guantate, il viso nascosto alla vista da una maschera d’oro che ricordava le
fattezze grifagne di un uccello da preda. Forse non erano favole, quelle che
gli zingari si raccontavano durante i bivacchi, o quelle con cui i vecchi
solevano spaventare i monelli, nelle veglie d’inverno.
“Perdonatemi, non volevo…” “Perdonarti? Non so che
cosa sia, il perdono: voglio la tua vita.” “La mia vita? Per una rosa? Mia
figlia desiderava tanto una pianticella di rose bianche.”
“Allora…L’amore di tua figlia in cambio della tua
vita: in fin dei conti, sono stati i suoi capricci a metterti nei guai.”
Anche il silenzio ha una voce: una voce capace
perfino di urlare. Attraverso le fessure oblique della maschera, gli occhi
verdi del castellano si erano accesi come quelli di un gatto nella profondità
delle tenebre. Poi la maschera
era rotolata per terra. No,povera piccola Lenka. Meglio
che fosse morto lui. Era caduto in
ginocchio, la testa tra le mani. Sì, meglio, mille volte meglio che fosse morto
lui,si disse, rivoltandosi tra le coperte di pelliccia. A Lenka non avrebbe
detto nulla, anche se il pensiero di chissà
quale terribile fine quel mostro volesse riservargli, gli gelava nelle
vene il sangue.
La bottiglia della vodka era lì, sul comodino,mezza
piena, a promettergli il conforto che nessuna parola avrebbe potuto
garantirgli. “Non sei molto migliore del mendicante all’angolo della chiesa,
vecchio Jaceck.” Si disse da sé solo. Ma che
importanza poteva avere,
ubriacarsi alla vigilia
della propria esecuzione capitale? Contava solo che
nessuno ne sapesse nulla. Lenka, poi, men che meno.
*
Vodka e segreti non vanno d'accordo, da che il mondo
è mondo.
Lenka l’
aveva visto strano,la sera del ritorno: che si sentisse poco bene? Premurosa, si recò nella sua stanza per
accertarlo, e lo trovò ben peggio di come credesse: in uno stato
da far pietà, ubriaco fradicio. Avrebbe voluto piangere, umiliata da
quello spettacolo degradante, ma si fece forza. Gli scaldò una tisana, gli
rimboccò le coperte del letto.E lo ascoltò rivelare, tra i fumi dell'alcol,
quel segreto che avrebbe voluto tenere
per sé. Ora Lenka sapeva. Qualcuno, al castello,voleva la vita del babbo in
cambio della sua felicità.
Lenka non
esitò un solo istante: il grosso cavallo del padre non era il mite pony biondo
della sua infanzia, nel bosco c'erano i lupi e al castello...Ma che importava?
Se il
freddo ha un odore, era quello che le portava il vento del nord. Se ha
un colore,era quello del cielo,gravido di nuvole cupe. Alcuni zingari avevano
ammazzato un montone, sulla piazza, e i cani randagi, attorno, si disputavano
brandelli di viscere sanguinolente.
Il cavallo
nero era docile come un agnello, e veloce come il vento di tramontana.
Sapeva la strada, conosceva il cammino. Un cammino che relegava nel passato la
piazza, la carcassa del montone macellato, le mani insanguinate degli zingari,
i brutti musi dei cani randagi dalle costole sporgenti e dai mantelli rognosi,
il muschio verde tra i mattoni rossi. La nebbia inghiottì presto tutto. Avrebbe
mai più rivisto il suo paese?
Eppure,strano, non c'era angoscia nei suoi
pensieri, quasi che i ricordi e le paure si fossero dileguati nel morire lento del giorno, nell'orizzonte
vasto dei campi di segale, che ben presto diventò intrico selvaggio di rami. E,
laggiù, in fondo, quel chiarore, lucciola che diventava stella fredda, mentre
gli zoccoli del cavallo divoravano il terreno. Era come l'occhio di un padrone
onnipotente, quel chiarore lontano, freddo e ignoto. Non c'erano elfi, non
c'erano fate, nel bosco. Solo l'urlare dei lupi e il lamento delle civette.
*
Era bella
e dolce, proprio come aveva immaginato. E certamente buona, se era stata capace
di sacrificare in quel modo la sua felicità. La odiò, per questo:
bellezza,amore. Cos'erano per un uomo che da anni se ne stava nascosto agli
occhi del mondo, in
un luogo che
la gente diceva, giustamente,
maledetto? Cos' era la bellezza per una creatura che, come i vampiri, aveva
costretto gli specchi a non riflettere la sua immagine? Cos'era la bontà per
lui che, al crepuscolo, strisciava fuori dalle mura della sua prigione e, con
gli artigli unghiuti che aveva al
posto delle mani, sgozzava
qualche animale per nutrirsi della sua carne ancora calda di sangue?
Ma la bellezza di Lenka avrebbe intenerito il cuore
più duro, anche quello di un mostro. E,non fosse bastata la semplice bellezza,
cosa non avrebbero potuto, il suo coraggio e la sua dignità? Non piangeva, non
implorava. Che strano, una ragazzina come quella.
"Non intendo
farvi alcun male, mia signora. Non vi mancherà niente, sarete trattata come una regina. E, se lo
vorrete..."
Che cosa stava per dirle? L'avrebbe persa,se avesse
continuato a parlare. E la solitudine
gli sarebbe pesata addosso ancora di
più, dopo. Abbassò gli occhi,
reclinò sul petto la testa nascosta dalla maschera d'oro.
*
Forse, varcata la soglia del castello maledetto,
aveva pensato che il tempo, là dentro,non sarebbe trascorso tanto
piacevolmente: di certo, anzi, si sarebbe confuso con l'eternità, ma che
importava?Aveva accettato consapevolmente il suo sacrificio. E, forse era stato
un miracolo, non era accaduto nulla di ciò che temeva. Non le mancava niente,
al castello:non aveva dovuto rinunciare a consuetudini care, misteriosi
valletti silenziosi come ombre le servivano cibi squisiti, le sellavano i più
bei destrieri per lunghe cavalcate nel parco, le facevano trovare, nel
guardaroba, abiti sempre nuovi e bellissimi, negli scrigni gioielli rari con
cui adornarsi. Lenka amava leggere e la fornitissima biblioteca del castello
era a sua completa disposizione. Amava ricamare. Amava suonare il piano e
dipingere acquerelli. Spesso, mentre suonava o dipingeva, sentiva scivolare
silenzioso, dietro di lei, il castellano. E sentiva di vivere per quei momenti.
Le piaceva giocare a scacchi, commentare con lui l'ultimo libro letto,
ragionare d'arte, di musica,di vita. Il castellano era un ospite squisito:
cortese, istruito, intelligente.
Ecco perché
quei piccoli brividi, quando si trovava a pensare a quell'uomo senza un
volto, senza un'età,senza una storia né un nome, così diverso dai bei ragazzi
del paese, per i quali il suo cuore di giovinetta aveva palpitato. Non
conosceva che i suoi occhi e i suoi capelli, e non immaginava perché si
nascondesse dietro quella maschera. Un incidente o una malattia potevano
avergli sfregiato il viso. Non l’età, poiché la sua figura aitante era quella
di un giovane soldato abituato alla vita dura degli accampamenti, di un
cacciatore di lupi tanto coraggioso quanto selvaggio. Desiderio. Lenka adesso
capiva in pieno il senso di quella parola misteriosa, vagamente
sconveniente,udita tante volte mormorare a mezza voce dalle amiche più grandi.
Lui la guardava,certamente sorrideva, dietro il paravento d'oro di quella
maschera da sparviero. E i suoi occhi, attraverso le fessure strette, avevano
bagliori ora d'acciaio, ora di smeraldo. Che fosse quello, l'amore?
*
Lenka sapeva che il sonno manda spesso strani
avvertimenti: suo padre stava male, se lo sentiva in cuore,e quel sogno...Non
sarebbe stato giusto lasciargli chiudere gli occhi con un peso grande come il
mondo sul cuore.
"I sogni sono soltanto sogni."Le aveva
detto il castellano. Che avrebbe fatto,se lui non l'avesse lasciata
partire?Avrebbe pianto,avrebbe implorato, gli avrebbe promesso che sarebbe
tornata, dopo, per restare sempre insieme.
Ma come
pretendere che potesse comprenderla! Oltre il giardino incantato, per
lui, oltre quel mondo di sogni che lo difendeva come una corazza,che cosa
c'era? La foresta, i lupi.E la curiosità malevola della gente, una vita
impossibile.
"Qui
non vi manca nulla..." La
sua voce si era incrinata. E la mano che, lieve, si era posata sulla spalla di
Lenka, tremava. Si voltò,il castellano trasalì: quale altro orrore che non
avrebbe voluto mostrarle l’aveva costretta a guardare? Le zampe unghiute di un animale predatore? No, solo
la mano di un uomo. Gli artigli erano scomparsi: l'aveva amata dal primo
momento e l'amore gli era cresciuto dentro giorno dopo giorno,come una
malattia. Ma l'amore non può albergare nel cuore di una creatura feroce. Adesso
che le sue erano mani di uomo e non grinfie di bestia, non poteva più cacciare
e la sua sopravvivenza dipendeva
dalla presenza di Lenka.
Se l'avesse perduta, sarebbe morto:
lo sapeva. Tuttavia che diritto aveva di tenerla prigioniera contro la sua
volontà? Si sentì invadere da una grande amarezza.
"Vai, se vuoi sei libera di non tornare. Ti ho
amata e non ne avevo ìl diritto: è giusto che muoia."
"Non
dire così: tornerò, lo giuro."
Il castellano si strappò dal viso la maschera,la
gettò a terra.
"Guardami:
sei ancora dello stesso parere?"
Lenka
abbassò lo sguardo: era quella spaventosa creatura, colui di cui aveva atteso
con ansia i ritorni? Occhi che sembravano tizzoni ardenti, una cosa a metà tra
un essere umano e un lupo.Un povero infelice, la cui vita Lenka sapeva di poter
stringere in pugno.
“Ritornerò.”
“Non ho il
diritto di pretenderlo. Ti aspetterò solo sette giorni e poi mi lascerò morire
senza maledirti, perché ti amo e desidero soltanto che tu sia felice.”
*
Il dolore era stato come una malattia, dapprima.
Acuto, lancinante. E penoso, per le bugie che la necessità di dover chiudere la
bocca alla gente li aveva costretti ad inventare.
Poi, com'è logico, lo scalpore s'era pian piano
spento, senza che la ferita del vecchio Jaceck si rimarginasse, e il cuore
s'era fatto ghiaccio. Perché,si domandava, il dolore non l'aveva schiantato
subito, invece di lasciarlo in pasto ai rimorsi, relitto d'uomo che vegeta,
anziché vivere?
*
Era la
mattina di Pasqua, quando Lenka tornò: la gente stava andando alla Messa.
Chi li
aveva mai visti, in paese, dei cavalli più belli, una carrozza più elegante,
una dama più nobile di quella? Era davvero la piccolina del vecchio Jaceck, con
le trecce e le lentiggini sul naso? La piccola Lenka dagli stivali consumati e
dalla pelliccetta logora? Era corsa
voce di una zia di Varsavia, molto ricca e molto malata…Ma
i più maliziosi avevano sussurrato della fuga con un misterioso signore. Chissà
come mai era tornata, dopo aver gettato l’onta sui suoi, e ricca come una
principessa...
*
Era bastato
stringerla tra le braccia, perché il calore della vita gli rifluisse al cuore e
gli occhi tornassero a sorridere. Anche se Lenka non era tornata per restare:
al castello, disse, era felice.
Felice
con un mostro? Avevano pensato
la stessa cosa, nello stesso
istante, Jadwiga e Magda. Felice con un mostro? Certo, la copriva d'oro e la
trattava come una regina! Era possibile che fosse felice. Più di me, pensava
Jadwiga, che vivo confinata in una tenuta in campagna, accanto ad un uomo che
non ho mai amato. Più di me, pensava Magda, che sono costretta a dar lezioni di
pianoforte e di francese per sbarcare
il lunario. Perché lei, che venendo al mondo aveva portato solo lacrime e
dolore, doveva essere più fortunata di loro? Non c'è giustizia,nel destino.
Sette giorni: ne fosse trascorso anche uno
soltanto di più, probabilmente lui non l'avrebbe più voluta.
Che sia
egoismo, il nostro? Noo! Il babbo non reggerebbe a un altro abbandono. E
poi, Dio mio, che destino le si prepara? Che razza di vita è e sarà, la sua?
Come si può ricambiare l'amore di un mostro? Era anche per il suo bene, che
doveva perderlo. Bisognava riempire di scampagnate e feste da ballo quei sette
giorni di libertà che il mostro le aveva concesso, bisognava fare in modo che
conoscesse qualche bel giovane. E,dopo, le avrebbe sicuramente ringraziate.
*
Si
chiamava Ivan, e aveva lo
sguardo sfrontato dei vent'anni. Ballava a meraviglia il
valzer, e come gli donava la divisa azzurra e oro degli Ussari!
Da tre giorni la corteggiava con discrezione,
facendole recapitare bigliettini profumati e grandi mazzi di rose bianche, le
sue preferite. Jadwiga si era premurata di farle sapere che il suo cuore era
libero e che nelle sue vene scorreva il sangue della più illustre
famiglia di Polonia. Lenka era
si sentiva lusingata da tutte quelle attenzioni:
era così bello, stare tra le sue braccia, nei volteggi leggeri del valzer, con
quella musica che entrava nell'anima e la luce di mille candele.
Fuori dal
salone,una languida luna inargentava il giardino. La mano di lui nella sua,
unvago tremore che non era freddo e che divenne lungo brivido,quando sentì
le labbra di Ivan sfiorare le
sue...Attimi lunghi
un'eternità, o non piuttosto l'eternità lunga un attimo?
Un
cirro sfilacciato attraversava adesso il disco della luna. Un velo dallo strano
riflesso rosso, come di sangue: gli attimi, l'eternità erano durati otto
giorni. E al castello, forse...Forse era troppo tardi.
*
Aveva corso per i campi e per i boschi al lume
della luna, col cuore che sembrava volesse schiantarsi da un momento all'altro,
coi rovi che le strappavano la gonna e le graffiavano le gambe. Nella sua
immaginazione,le sembrava di sentirlo gemere. O era solo il vento? Se lui fosse
morto, non se lo sarebbe mai perdonato. Otto giorni, e stava per sorgere l'alba
del nono. Quello che le portava il vento,era il pianto della sua solitudine
disperata, il gemito della sua vita che si spegneva in un'agonia senza
conforto? Forse era solo il miagolio di un gufo, il richiamo di un vecchio lupo
solitario, il lamento di una preda assalita.
Quanto
aveva corso, la gola arsa, le gambe che si piegavano per la fatica, il
cuore gonfio di ansia, di dolore, di paura?
Il lume, in lontananza, era fioco come l'agonia di
una stella lontana, mentre il cielo si tingeva di rosso.
Dov'era il castello? C'era mai stato? E il giardino
con le rose? Forse aveva immaginato tutto, in un lungo sogno angoscioso. Forse
non c'era niente di reale, nella terribile avventura che stava vivendo. Ivan
poteva salvarla,solo lui. L'avrebbe salvata? Nelle fiabe succedeva.
Un lungo rantolo roco la fece sussultare: lui era
lì, giaceva accanto al rovo sul quale chissà quale incantesimo aveva acceso il
miracolo di una rigogliosa fioritura di boccioli bianchi. Il suo sguardo era
spento e un filo di sangue gli colava dalle labbra. Non era stato un sogno,
minacciava di diventare un incubo. Stava morendo, ed era tutta colpa sua.
Che altro poteva fare, se non gettarsi su di lui e piangere tutte le sue più amare
lacrime? Che altro poteva fare se non coprire di baci il suo volto che,
chissà come mai, adesso le sembrava
molto meno brutto? Chiuse gli occhi, sentì la pelle aspra del viso di
lui sulla guancia delicata. E,quando li riaprì,non lo vide più,attraverso il velo delle lacrime. Il
mostro era scomparso: l'uomo che la teneva tra le braccia aveva ritrovato il
suo vero volto. L’ amore aveva vinto la tenebra della notte, aveva trionfato
sull'incantesimo.