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Autore: Aout    06/02/2013    4 recensioni
Daniel è un ragazzo come tanti.
Ha diciannove anni e frequenta il secondo anno di college, lavora per mantenersi e ama lamentarsi di qualunque cosa gli capiti sotto tiro. Vive una vita normale, anonima e noiosa e, anche se a tratti la trova seccante, diciamo che l’accetta così com’è.
Ecco… peccato che il mondo così tanto "normale" proprio non sia, peccato che di mostri inquietanti ce ne siano a bizzeffe, peccato che perfino lo stesso Daniel nasconda qualche piccolo e trascurabile segretuccio...
Ci siete?
Prendete tutti i personaggi che conoscete, tutte quelle creature soprannaturali che di vivere in pace proprio non ne vogliono sapere, prendete la sete di vendetta e pure una buona dose di calcolo strategico ed ecco che avrete la storia.
Che altro dire?
Vi aspetto ;)
(STORIA SOSPESA almeno fino a quest'estate, quando avrò il tempo di rivedere la trama, la piega che sta prendendo mi piace poco. Chiedo venia a chi mi stava seguendo, ma ritengo di non poter fare altrimenti)
Genere: Avventura, Commedia, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti, Volturi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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Capitolo 6
Perché trattare le cose razionalmente è perfettamente inutile

 
 
 
 
Eravamo in aereo.
In aereo? E chi avrebbe mai potuto sospettare che il tutto si sarebbe risolto in un viaggio intercontinentale?
Eppure, pareva proprio così.
Stavamo viaggiando in aereo, me lo ripetevo spesso per aiutarmi ad accettarlo come un dato di fatto, un aereo che, a parte noi quattro, pareva completamente deserto.
Non avevo sentito un fiato nemmeno dalla cabina pilotaggio, il che in effetti all’inizio mi pareva un po’ strano… tutto il viaggio in pilota automatico? Non che ne potessi essere così sicuro in realtà, considerato dove mi avevano messo, ovvero in fondo, vicino alla coda.
Gianni e Pinotto, alias Colosso e Sorriso-Maligno, alias Felix e Demetri da quanto avevo capito, che con dei nomi del genere non avrebbero nemmeno fatto troppa difficoltà a far carriera nel mondo del cabaret, erano qualche fila più avanti.
Bambola-Assassina era invece seduta esattamente dalla parte opposta rispetto a quella in cui mi trovavo io, a capo dell’aereo. Era un soprannome quello, azzeccatissimo a mio parere, che le avevo dato appena qualche ora prima.
 
Dopo che Colosso mi aveva caricato sulle spalle, e intendo proprio caricato dato che un sacco di patate sarebbe stato sicuramente trattato meglio, avevamo cominciato a “viaggiare”, lui correva ed io tentavo di non sfracellarmi a terra insomma, ad una velocità inaudita.
Le foreste, le strade, tutto si era fuso davanti al mio sguardo in una grossa macchia di colore indefinita che mi aveva costretto a tenere gli occhi aperti quasi fino alla fine.
E si era pure lamentato, quel Felix, nome che associavo istintivamente a quello del gatto dei cartoni animati, che “gli uomini di una volta non esistono più”, quando mi aveva visto barcollare in cerca dell’equilibrio perduto, dopo che mi aveva scaricato a terra. Avrebbe solo dovuto ringraziare che non gli avessi vomitato addosso, altroché!
Comunque, in prossimità dell’aereo, c’era stato il mio ultimo, disperato tentativo di fuga. Non che in precedenza ce ne fossero stati di rilevanti, ben inteso, a parte la corsa verso la salvezza finita in un bicchier d’acqua e qualche strategico calcio rifilato al marmoreo Colosso con cui al massimo ero riuscito a far del male a me stesso.
Fatto stava che, appunto, arrivato in quell’oscura pista d’atterraggio, davanti al portellone di un piccolo aeroplano bianco, avevo tentato il tutto per tutto.
Non so se fossi stato influenzato da qualche film di Kung Fu, cosa che non tendevo ad escludere del tutto, ma decisi di buttarmi giù dalla scala che stavo percorrendo, così da finire nel buio e tentare di nuovo di darmela a gambe.
Beh, se avete bisogno di sentirvelo dire, sappiate che ciò non servì ad un altro, emerito niente.
Sorriso-Malvagio ci mise un attimo ad intuire il mio piano criminale, a prendermi per la manica e a rimettermi, con una bella strattonata, sulla giusta carreggiata.
In compenso Colosso pareva veramente divertito dai miei innumerevoli, tragici tentativi di fuga. Forse rischiare la morte ingiustificatamente era da “uomini veri” a suo parere.
E dico “ingiustificatamente” perché penso che, in effetti, a guidarmi nelle mie imprese disperate alla ricerca della libertà, come la tigre che per slegarsi dalla corda a cui è legata si morde la zampa, fosse quella sensazione, una sorta di irritante e pessimista vocina interiore, che la pelle, avrei fatto molta fatica a salvarla. Una sensazione che avrei volentieri spinto via, ma che ormai era quasi diventata parte di me.
Comunque, era stato una volta dentro che avevo avuto la visione fugace del viso della terza figura, che all’asciutto aveva finalmente deciso di togliersi il cappuccio.
Quella che mi ero ritrovato davanti a quel punto altro non era che una ragazzina molto piccola, non avrei saputo dire di quanti anni esattamente, con i capelli corti, le labbra piene e le ciglia lunghe.
Più bella e terribile di Sorriso-Malvagio, molto, molto di più.
Quegli occhi, su un viso così giovane, mi sembravano incredibilmente fuori posto, stonavano proprio. E quel sorriso, quello che mi rivolse dopo che mi sorprese a fissarla, con immagino non l’espressione più indifferente di questo mondo, mi pareva decisamente peggiore dei peggiori sorrisi di Sorriso-Malvagio, il che all’inizio, dovevo ammetterlo, credevo impossibile.
Beh, il soprannome se l’era proprio meritato, le stava a pennello, di quello ero certo.
Peccato che, nel caso specifico, fossi certo solo di quello.
Non sapevo niente di niente, di dove stessimo andando, di chi i miei rapitori fossero, di cosa esattamente volessero da me. Non sapevo niente, non potevo fare niente per cambiare le cose e mi era concessa un’unica misera scelta, cioè quella di rimanere lì, mezzo rannicchiato su quella odiosa e dannatamente comoda poltrona, con le orecchie tese per captare qualunque cosa di quello che stessero dicendo, qualunque cosa che mi potesse fare capire di più.
Caso volle che qualcosa riuscii veramente a comprenderlo.
Cose frammentarie, cose probabilmente inutili, talmente poche che servirono semplicemente ad accrescere la mia ansia e la mia paura. Ma quel “qualcosa” era sempre meglio dell’abisso oscuro ed impenetrabile che riservava il “niente” di poco prima.
 
Ero appena stato, come dire?, accompagnato da Sorriso-Malvagio al mio posto, dopo aver superato allarmato Bambola-Assassina, e stavo ancora ragionando sulle possibilità che mi rimanevano per la fuga.
Rompere il finestrino e buttarmi di sotto? Entrare in bagno e, passando per i condotti dell’aria, raggiungere il portellone anteriore? Semplicemente sorprenderli con un balzo magistrale, per poi superarli e raggiungere la porta, fingendo che non si fosse appena definitivamente chiusa alle mie spalle? Sì, lo so, erano piani piuttosto stupidi e particolarmente malcongeniati, soprattutto perché non tenevano conto di una piccola e non proprio marginale caratteristica fisica dei miei avversari: la supervelocità. Comunque, fu proprio mentre vagliavo quelle ipotesi assurde che li sentii parlottare.
Erano Colosso e Sorriso-Malvagio che, appena quattro o cinque file avanti a me, stavano spettegolando di non so esattamente che cosa. Non capivo quasi nulla, riuscivo semplicemente a cogliere qualche stralcio di conversazione e, potevo scommetterlo, solo quello che decidevano loro di farmi sentire.
Dopo i primi minuti ero perciò particolarmente scoraggiato, visto che avevo ottenuto poco o niente, ed era escluso che attuassi uno dei miei ormai leggendari piani di fuga dato che eravamo partiti da un pezzo, sempre che non mi volessi buttare senza paracadute da un aereo in volo, ovviamente.
Perciò, rimasi ancora in ascolto, attaccato com’ero ad una qualche vana speranza che non riuscivo nemmeno a figurarmi bene.
Beh, fu a quel punto che Colosso fece un affermazione singolare. Con tono annoiato chiese infatti a Sorriso-Malvagio se per caso il temporale che in quel momento stava infuriando fuori, ed era talmente forte che questa frase in particolare la sentii appena, non avrebbe abbattuto quel “ridicolo aggeggio volante”, parole sue, dato che lui non aveva proprio nessuna voglia di farsi tutto il tragitto ancora con, altre parole sue, quell’ “umano deboluccio” in spalla, per di più cercando di non farlo affogare nell’oceano.
Tralasciando il fatto che definirmi “umano” era una chiara dichiarazione di intenti, e che comunque fossi del suo stesso parere riguardo alla nuotata fuori stagione, ciò che mi colpii di più fu l’affermazione che seguì a questa. Il suo amico di bevute, sì insomma Demetri, rispose infatti, testualmente, “se ci tieni, chiedilo a lui”, risposta che provocò uno degli sguardi più spaventosi che avessi mai visto, quello di Colosso, non più troppo divertito, dritto su di me, in evidente atteggiamento da spia mancata mentre tentavo di ascoltarli.
Dopo che si fu girato di nuovo, mentre il mio cuore tentava di ritrovare i battiti persi, pure Colosso infatti pareva un fotomodello ma la parte “terribile” batteva spudoratamente la parte “bella”, cominciai a ragionare.
 
Prima di tutto, loro non erano umani, visto che aveva tenuto a specificare che io lo fossi.
E va beh, non ero un genio, ma a questo ci ero arrivato anch’io e ben prima di quel momento, e per ora sapere a quale specie di alieno appartenessero passava in secondo piano.
In secondo luogo, e punto ben più importante, loro sapevano delle mie visioni.
D’accordo, effettivamente sapevo pure quello, ma ora avevo capito davvero quanto importante fosse un dettaglio che mi era, incredibilmente, quasi passato di mente, un dettaglio fondamentale direi: loro le sopravvalutavano.
Pensavano infatti potessi riprodurre, a mio piacimento ma si può?, le visioni ed usarle per prevedere le condizioni climatiche.
Le condizioni climatiche? Ma che, scherziamo? Come diamine era anche solo lontanamente possibile potessi determinare quando il temporale sarebbe finito? Come potevano pretendere potessi davvero saperlo fare, esattamente? Uhm?
Ero lì per colpa di quelle dannatissime visioni… ed era perché avevano bisogno di qualcuno che prevedesse il futuro, che lo prevedesse bene, come pensavano sapessi fare io.
E quindi, a cosa mai poteva portare una scoperta del genere?
In sostanza, avevo capito una cosa sola e avrei agito, in mancanza d’altro, esclusivamente in ragione di quella. Che il mio spirito di sopravvivenza superasse ancora la vocina pessimista che mi dava ormai per spacciato, riusciva a sollevarmi almeno un pochino l’umore.
Se erano veramente così convinti, e lo erano, che le mie visioni fossero tanto, ehm… “potenti”, se così possiamo dire, beh, che continuassero pure a crederlo, non stava certo a me fargli cambiare idea.
Non sarei di certo stato io a dir loro la verità, a confessargli quanto in realtà fossi scarso come veggente, quanto per me il futuro non fosse altro che un guazzabuglio di scene confuse e indefinite.
Prima o poi lo avrebbero scoperto comunque? Sì, era probabile ed io lo sapevo perfettamente. Ma al momento ero davvero troppo stanco per preoccuparmene troppo, chissà fosse contavo ancora sulle mie vane capacità di attore mancato…
 
 
 
 
Mura antiche, il sole nel cielo, una via stretta vicino a un torrente. Statue bellissime, ambigui sorrisi e buio.
Tutto buio e spaventosamente vuoto.

 
 
 
 
 
 
 
 
Note: Ok, lo so, in questo capitolo non succede praticamente niente, ma, se volete, potete considerarlo semplicemente come un proseguo del capitolo precedente (in fondo li ho pubblicati a distanza di pochissimo…)
Vi saluto adesso, non so che dire di interessante. Alla prossima,
Aout ;)
  
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