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Autore: Marselyn    06/02/2013    0 recensioni
"Erano dunque arrivati a quel punto.
Non si spiegava perché, ma il pensiero di dover rompere i rapporti con Elyn lo rattristava. C’erano poi molte altre cose che non si spiegava: il come era stato possibile creare quella sintonia, averla cercata e non aver capito che era, forse, importante per tutti loro. Non si spiegava come nessuno di loro, fino ad allora, si fosse mai chiesto quanto quei pomeriggi passati insieme, tra persone che dovevano spontaneamente odiarsi, fossero strani e illogici nel loro scorrere veloci e così vivi. Non riusciva a spiegarsi come fossero arrivati al punto di cercarsi, di trovarsi e consumare ore intere insieme, come fossero arrivati anche solo al punto di parlarsi senza urlare, senza mai rendersi conto di quanto solo tutto questo fosse già pazzesco e contro ogni loro coerenza. Tutto indicava quanto irragionevole fosse stata quella vicinanza e Sirius proprio non si spiegava come fossero arrivati a quel punto senza mai domandarsi come mai tutto stesse andando in modo così strano, così trasparente, così autonomo, vivo e senza controllo." [cap. 17]
Dall'autrice: Con ogni probabilità, potreste avere l'impressione che i primi e gli ultimi capitoli siano stati scritti da persone totalmente diverse.
Genere: Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Nuovo personaggio, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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18.


Notte
 

Era come se non fosse successo niente. Nulla.
Era una sensazione così strana, così nuova, come quando nella corsa si perde l’equilibrio e la beffarda sensazione di leggerezza ti accompagna nella caduta. Ed era infatti una sensazione così leggera, e la testa era ebbra, così che fossilizzarsi su un pensiero era impossibile. Come se se ne fosse andata libera e incontrollata, solo i sensi ormai, amplificati, ne testimoniavano la presenza, tutto il resto era un’impalpabile e confusa consapevolezza, nient’altro.
Sirius camminò tra gli studenti e fece un giro davvero molto strano per tornare alla porta del castello, anche se non se ne accorse: desiderava non procedere per la stessa direzione in cui lei era sparita; gli sembrava, forse, un riavvicinamento che doveva evitare, ma non aveva altra scelta per tornare alla sala comune che camminare proprio verso la porta di quercia. E in ogni caso realizzò subito la stupidità di quella premura.
Comunque, lei ormai non c’era più; era già andata da un po’, e lui doveva prendere la divisa di James: andava a giocare a Quidditch.
Giunse alla Sala comune molto più velocemente di quanto non sperasse, fece un complimento alla Signora Grassa - gli sembrava infatti particolarmente di bell’aspetto quel giorno -, e lei lo fece entrare senza che Sirius fosse certo avesse sentito la parola d’ordine.
«Felpato», si sentì chiamare mentre si dirigeva verso la scale del dormitorio, e si voltò accorgendosi di Remus su una poltroncina all’angolo della sala, con un libro in mano.
«Lunastorta» rispose Sirius. «Non ti avevo visto» continuò, tiepidamente sorpreso.
Remus fece un verso d’annuimento e lo guardò con strana attenzione. Non gli sfiorò la mente di decifrare quello sguardo, Sirius aspettò invece un cenno, un qualcosa, ma da Remus non giunse niente.
«Vado sopra» disse allora - poiché aveva fretta di raggiungere il campo - quindi salì le scale, proprio come aveva fatto con la Signora Grassa: senza neanche sentire se Remus avesse da replicare.
Munitosi della divisa, scese a piccoli e frettolosi saltelli i gradini e si diresse verso il quadro.
«Sirius?» fece Remus, col tono insistente di chi sta nuovamente richiamando l’attenzione di qualcuno che la prima volta non gliel’ha concessa.
«Sì» fece Sirius arrestandosi improvvisamente, e voltandosi a guardarlo.
Remus aggrottò lievemente la fronte con sospetto; disse: «Vai al campo?»
«Sì» rispose Sirius. «Ti serve qualcosa?»
«No, grazie». Remus lo scrutò ancora e prima che Sirius sparisse dietro il ritratto lo chiamò ancora una volta. Quest’ultimo si trattenne dall’opporre una replica alquanto scortese e si limitò a mostrargli senza troppa voglia metà del suo volto.
«Cosa».
«Senti» cominciò Remus, e dapprima esitò un po’, infine si risolse a chiedergli in tono quasi brusco: «E’ tutto apposto?».
Sirius ebbe l’impressione che avesse scelto all’ultimo momento di eludere la questione che voleva realmente sottoporgli, tuttavia rispose comunque senza troppe parole: «Certo».
Remus non continuò oltre, e Sirius se ne andò prima che potesse fermarlo un’altra volta.
 
Era un bel fine pomeriggio, il cielo era già indistintamente rosato per il tramonto. Sirius si accorse che nel giro di qualche minuto molti studenti avevano già lasciato il parco. Lo percosse tutto, camminando lungo i prati che degradavano verso il campo e arrivando agli spogliatoi.
Sentiva il chiacchiericcio provenire dal campo e a tratti la voce di James che impartiva ordini, vedeva i vestiti degli studenti coricati sulle panche o afflosciati per terra e gli sovvenne di doversi cambiare. Una volta fatto udì il sibilo di scope in aria e improvvisamente lo investì il dubbio di non avere la sua con sé, ma meccanicamente doveva averla presa in Dormitorio perché ora era proprio lì, appoggiata come di sfuggita al muro vicino. Gli venne da sorridere, di fronte alla premura con cui il suo corpo si prendeva cura di lui, correggendo le disattenzioni delle sua mente. Un tal genere di riflessioni, chiaramente, lo sconcertavano di solito, ma in quel momento molte cose gli sembravano a lui estranee, e l’indagare oltre non avrebbe probabilmente portato ad alcuna conclusione, non che alcuna conclusione fosse necessaria. Afferrò quindi la scopa e proseguì per il campo.
Trovò i giocatori divisi in gruppi: alcuni volavano vicini al prato, altri seghettavano l’aria scansando ostacoli sospesi a forma d’uomo e che sparivano per poi apparire nuovamente sulla traiettoria dei giocatori quando meno se l’aspettavano, e poi c’erano altri due Grifondoro che si lanciavano i bolidi colpendoli con le mazze, o, era da concedere loro almeno questo, era evidente che ci provavano con ammirevole impegno. James, librandosi a mezz’aria, seguiva con l’attenzione di un’aquila i diversi drappelli, intercettando i sibili e i tonfi, e talvolta urlava ordini a un singolo o a una intera unità di giocatori. In particolare, teneva sott’occhio uno studente piuttosto minuto che sopra la scopa, a molti metri più in alto dal suolo rispetto agli altri, sembrava rimpicciolirsi ancora di più: era un tale, un certo Scott, che a malapena Sirius ricordava di aver notato in Sala comune, perché piuttosto anonimo e timido. Doveva essere del terzo o del quarto anno massimo, e si aggirava in aria sopra la sua Scopalinda, tracciando linee irregolari e incerte mentre con lo sguardo scrutava intorno a tratti spaesato, a tratti vigile. Sirius non si sentì un genio a dedurre il ruolo del ragazzo: doveva essere il nuovo Cercatore di Grifondoro.
Alle porte del campo, ai piedi di una tale organizzazione, si sentì infine piuttosto inutile. Perlustrò con lo sguardo rapidamente le tribune per controllare se qualcuno stava assistendo all’allenamento e con gioia le trovò vuote. Non vide neanche Peter che, stando a quanto sapeva, doveva essere lì. Ritenne quindi che avrebbe potuto benissimo voltare le spalle e filarsela senza compromettersi l’onore; subito dopo averlo deciso e appena prima di farlo, tuttavia, James lo vide.
«Felpato!» urlò in sua direzione. Poi si rivolse alla squadra gridando qualche cosa e picchiò verso di lui atterrando con destrezza. «Non ci credo, la prendi sul serio questa storia del Quidditch, eh?!» fece con tanto d’occhi, appioppandogli una pacca sulla spalla.
«Ah, domanda o affermazione che fosse, va’ al diavolo» fece Sirius con una smorfia e massaggiandosi la base del collo attentatagli.
«Direi piuttosto una profezia».
«Va’ all’inferno. Ti consiglio di raffreddare gli ardori e andarci piano, diciamo che oggi ne ho voglia» concluse, studiando i quattro giocatori che scansavano gli ostacoli dalle sembianze umane. In particolare ne studiò uno e d’un tratto sobbalzò.
«Quella è Mary» fece, strizzando un po’ gli occhi increduli in sua direzione e scrutandola attentamente. «E... insomma...»
«Se la cava» concluse James, osservandola a sua volta. «Sì. Si tratta solo di sopportare alcune sue civetterie e la voce un po’ acuta, ma per il resto non è per niente male. Proprio per niente, sai» concluse, fermandolo con uno sguardo severo.
Sirius ebbe il vago sentore che quelle ultime parole fossero una specie di rimprovero, una sottile allusione, ma finse di non coglierla, si finse invece interessato al suo manico di scopa nel pugno destro e abbozzando  una smorfia pensierosa lo studiò per qualche secondo, infine disse a mo’ di sfida: «Vediamo un po’ se mi ricordo come far funzionare bene quest’aggeggio». Quindi montò il manico e si librò schizzando in avanti sul prato.
«Sirius, aspetta».
Appena prima di spiccare il volo in direzione dei battitori, si voltò in direzione di James, il quale non si era mosso da terra ed vi era rimasto con uno sguardo impensierito.
«Cosa?»
Si formò un cipiglio sulla fronte di James, ma non disse altro e gli fece segno di andare con una mezza smorfia. Sirius non indagò oltre. Pensava di non voler conoscere la domanda che James per poco non gli aveva fatto, e si allontanò in direzione dei Battitori, deciso a dimostrare qualcosa. Né cosa, né a chi sapeva con precisione, ma si sentiva insolitamente agguerrito e di una bellicosità che a lui stesso pareva fuori luogo, immotivata e a tratti ridicola, ma che allo stesso tempo percepiva in quel momento, senza sapersi neanche spiegare perché, come talmente prepotentemente appagante e insieme di una così delicata puntualità che dalla gratitudine, come usava dire James qualche volta e in merito a qualunque materia, fosse essa animata o inanimata, ci avrebbe veramente fatto all’amore.
 
L’allenamento durò poco più di un’ora per Sirius, che era arrivato a due ore dal suo inizio, e sarebbe durato anche di più se il crepuscolo avesse impiegato di più a presentarsi quella sera. Ma il sole anche quell giorno era sparito e le nuvole che tornavano dopo settimane di congedo coprivano, ora, le prime stelle.
Del resto Sirius era ben contento, in effetti, che fosse giunta l’ora di mettere da parte il Quidditch per un po’.
Non che l’allenamento fosse andato male, nient’affatto: era riuscito – anche se non sempre per vie indiscutibili – a tenere testa ai tre Battitori di ruolo (o almeno a non umiliarsi completamente) e, cosa non meno faticosa, a tollerare la presenza di Mary. Quest’ultimo trionfo in particolare non era stato molto difficile da raggiungere, o non quanto avesse temuto in un primo momento, visto che lei non lo aveva degnato praticamente di uno sguardo. Ciò lo aveva lasciato piuttosto sorpreso. In effetti, quella era una reazione al suo bidone che non avrebbe previsto, non da Mary almeno.
Quell’assai discreto pomeriggio non aveva cancellato l’idea che si era sempre fatto del Quidditch, comunque: gli restava un interesse piuttosto distante e per certi versi incomprensibile, e non concepiva il modo in cui James e altri in maniera molto simile a lui ne fossero così irrimediabilmente innamorati, così perdutamente dipendenti. Reputava una moto degna di quell’adorazione… anzi: in effetti non ne era sicuro. Non tutto, ad ogni modo, altre cose, ma non il Quidditch.
 
Cionondimeno quel pomeriggio proprio il Quidditch aveva assorbito la sua attenzione, impiegato la sua mente, custodito i suoi pensieri; rideva mentre insieme a James e Peter (poco dopo il suo arrivo lo aveva visto infatti ritornare sulle tribune) risaliva il pendio in direzione del castello.
«Hai fatto un buon lavoro oggi, Felpato» disse James, battendogli una pacca sulla spalla, con i resti di una risata precedente sul volto sorridente e puntando gli occhi sulla finestra della torretta Grifondoro che riluceva di un colore caldo.
«Non ti ci abituare» replicò Sirius.
«Abituarmici? Non ti montare la testa, amico».
Sirius ridacchiò.
Rimasero in silenzio fino a che non arrivarono alla Sala Comune, qui lasciarono la divisa e i manici di scopa nel Dormitorio e scesero in Sala Grande per la cena.
Dopo il pasto, una volta in Sala comune, rimasero a giocare a scacchi magici davanti il focolare acceso fino a che l’intera sala non si svuotò.
«Ho visto prima McDonald entrare in Sala comune senza degnarti di uno sguardo» disse a Sirius James, stiracchiato sulla poltrona con le mani incrociate sulla nuca e i piedi distesi sopra il tavolinetto sul quale si giocava un’intensa partita, e troncando così l’argomento di cui Remus stava animatamente discutendo - ormai da qualche tempo da solo - e per l’accantonamento del quale questi gli indirizzò una pur mai recepita occhiataccia, e cioè sul valore corrispondente della moneta del loro mercato nella corrente moneta Babbana, dibattito sul quale Sirius quasi per nulla si era espresso e in merito del quale reputava alquanto ozioso e illogico discutere vista la diversità di uso e di merce con cui e per le quali le medesime venivano impiegate, incomparabilità che rendeva pertanto sterile e assolutamente vano ogni confronto.
«Ho visto Evans farlo per sei anni» replicò Sirius, tuttavia senza il trasporto che la maestria della stoccata pur avrebbe meritato, perché più concentrato sulla scacchiera, nell’intento di esaminarne i pezzi come se volesse stabilirci un qualche contatto mentale o di qualsiasi altro tipo. Remus ridacchiò, pago per la rivincita che su James l’amico in quel modo gli offriva per l’indelicato trattamento poco prima riserbatogli, e mentre muoveva il suo cavallo in una casella vuota. Peter, a gambe incrociate sul tappeto con le spalle al fuoco, assisteva al duello in corso di fronte a sé, profondamente silenzioso.
«Non te la ridere troppo, non c’è proprio niente da paragonare» replicò James stizzito.
«Forse hai ragione» convenne Sirius, con un ghigno. «La ragazza rifiuta il ragazzo... no, in effetti non è il mio caso». Remus sorrise e stavolta anche a Peter sfuggì un risolino.
«Ah-ah-ah» fece James in tono canzonatorio. «Ed è così che deve essere. Questa è proprio bella, il ragazzo che rifiuta la ragazza... per Godric, ti sembra modo? Desti sospetti con questo tuo atteggiamento, sai? Evans rifiutarmi, poi? Che sciocchezza! E’ il nostro modo di amarci, razza di troll».
Sirius rise, mentre faceva un’ottima mossa.
«Ma tu che vuoi capirne» continuò James. «Sei un automa, incapace di sentimenti».
«Chi ti dice che non li provi?» replicò in tono astuto, attento però a ostentare una flemmatica calma. «Magari per un’altra persona» continuò. Toccava a lui, e mentre muoveva riuscì a cogliere gli sguardi coscienti e vigili con cui gli altri tre l’uno con l’altro si interpellavano.
«D’accordo» fece allora James, come se si fosse finalmente risolto, riportando i piedi sul tappeto e risistemandosi sul divano in modo composto, un po’ sporto in avanti, come di chi sta per ascoltare con attenzione. «Chi?» chiese infine con una certa serietà.
Sirius continuò a studiare la mossa migliore da fare, dopodiché, una volta decisa, mentre muoveva disse: «Ma Peter, è ovvio».
Curioso di assistere alla reazione, alzò lo sguardo verso di loro con una specie di ghigno beffardo, ma li trovò ancora in attesa, quasi trattenendo il fiato, come se non avessero realmente considerato quella risposta, neanche nella sua natura ironica. Corrugò lievemente la fronte perplesso e finalmente giunse un risolino da parte di Peter, che pur cogliendo ovviamente l’ironia era impercettibilmente arrossito. Remus stirò un sorriso piuttosto forzato, quasi per clemenza, e James non si pronunciò in alcun modo.
«Va bene» fece Sirius, risuonando un po’ risentito. «Non farò mai il comico, ma rilassatevi, per Godric. Lunastorta, tocca a te».
Remus annuì ancora con una certa rigidità, e mosse quasi con imprudenza. Sirius, perplesso, lo guardò inarcando un sopracciglio, ma poi riportò la sua attenzione sulla scacchiera.
Sentì James prendere fiato come per parlare e, mentre stava ragionando completamente assorto sulla mossa da fare, lo sentì in tono improvvisamente più serio: «Felpato, senti, hai fatto quella cosa?»
Sirius ci mise qualche istante per capire a cosa si riferisse, corrucciò appena la fronte per riordinare le idee, e poi si ricordò.
Fu come se avesse realmente realizzato ciò che era successo soltanto ora. Rimase così quasi sorpreso per qualche secondo, con gli occhi sulla scacchiera che improvvisamente non vedeva più. Poi guardò James e, senza che fosse stato ancora completamente abbandonato da quello stupore, rispose con una strana e sospesa fermezza: «Sì».
James non si mosse, rimase con gli occhi immobili, fissi su di lui.
«Sì» ripeté Sirius in tono più secco e conciso, rifiutando e ricadendo, nell’arco di brevi istanti, in quell’irragionevole stupore, mentre riconduceva gli occhi sulla scacchiera. Spostò la sua torre a un passo dalla regina.
 
Era ridicolo. Un’intera giornata non ci aveva pensato, e adesso tutto gli ricadeva addosso in un momento e non poteva scansarsi. Gli sembrava di non aver vissuto, tutto il pomeriggio e poi la sera, fino a quel momento, di non averlo fatto fino ad allora. Gli sembrava di non aver pensato, ragionato, di non aver convissuto in quel corpo con se stesso, ma con un’altra persona. Era come riscuotersi da uno stato di stordimento, riaversi da una condizione di dormiveglia. Ripensò al pioppo, alla verifica di Trasfigurazione, a loro quattro che decidevano di farla finita, al Tassorosso, alle risate, alle urla e al fine pomeriggio passato sopra una scopa a giocare a Quidditch, a scansare la mente e a selezionare la vita. E più ci pensava e più si sconosceva, più si sorprendeva, più si sconcertava per non aver ricordato, non aver ripensato a nulla di tutto questo per l’intera giornata. Ebbe l’impulso di alzarsi bruscamente e allontanarsi da tutti per riaversi, ritrovarsi, ritornare in sé, ebbe l’impulso di scuotere tutto quanto lo stesse addormentando, di rifiutare il silenzio inquietante, e di nascondersi a quella scoperta di come per un breve periodo non era più stato!: ma rimase immobile, seduto tra loro, con gli occhi che dietro uno sguardo assorto si nascondevano increduli.
Infine si sforzò di ritornare lucido. Si concentrò nel gioco nel tentativo di rifiutare la consapevolezza di quale effetto morfinico la sua mente esercitava sui suoi pensieri e così annullarlo, paradossalmente, ricadendo nuovamente proprio in quello stato d’incoscienza, nascondendosi nell’oblio. Fece la sua mossa, senza neanche considerare se Remus avesse fatto la propria.
Ma James voleva sapere.
«Sirius, hai parlato con Elyn
La voce di James gli suonò improvvisamente più dura, e la avvertì mentre pronunciava quel nome come impietosa, implacabile, severa. Si irrigidì un po’, ma non lo diede a vedere. Poi si voltò a guardarlo e con il tono più convincente e fermo possibile, rispose: «Sì, James, l’ho fatto», ma senza volerlo la sua voce uscì inavvertitamente indurita, e i suoi occhi, mentre fissi affondavano inflessibili in quelli di James, lo erano forse ancora di più.
Nessuno rispose.
Il fuoco crepitava nel camino e Remus non muoveva.
«Ed è andato tutto liscio?» insistette James senza scoraggiarsi.
«Liscio» disse Sirius, con un mezzo sorriso che agli altri sarebbe parso strano se solo la luce soffusa non avesse ingannato i loro occhi, e riportò nuovamente lo sguardo sulla scacchiera. «Liscio come il culetto di un Tassorosso» continuò, mascherando di un tono umoristico ciò che nasceva in realtà da un moto sprezzante della sua interiorità. Non rise nessuno di loro.
«C’è niente che dobbiamo sapere?» continuò James infine, col tono di chi sta chiedendo con evidente chiarezza e unicamente per premura un’ultima conferma, per considerarsi infine pienamente persuaso. Sirius, tuttavia, credette di avvertire dell’altro nel modo in cui aveva fatto quell’ultima richiesta e gli parve di poterla identificare, quella cosa, forse come freddezza: una freddezza al limite della noncuranza o che ha il suo stesso limite proprio nel soddisfacimento del proprio interesse, consapevolmente appena prima di contaminarsi degli interessi altrui, dell’interesse altrui. Non riuscì a impedire alla mente di sfociare nell’immediato collegamento, che gli si presentò come una conclusione ovvia, seppur assurda, ma precisa: appena prima di contaminarsi dell’interesse di Elyn.
E allora fu un attimo.
Sirius pensò di dire loro tutto, di rovinare ogni lungimiranza che potesse salvaguardare loro, e al posto loro, compromettere Elyn; di raccontare come le cose erano realmente andate, di come si erano sbagliati e di come forse non tutto era perduto, non tutto compromesso, o almeno non per loro, e che forse qualcosa poteva essere recuperato. Ma fu nello stesso momento che ebbe per la prima volta sentore di qualcos’altro, di quello che con ogni probabilità James aveva già compreso da molto: avvertì, come mai prima aveva fatto, tutta la pesantezza della situazione, si rese conto di quanto davvero stesse rischiando di coinvolgersi, ancora più di quanto già non avesse fatto, e si sentì nauseato, umiliato, stanco.
Pensò di dir loro tutto, ma fu solo un attimo: quello dopo arrivò e lo cancellò.
«Niente» disse Sirius, scrollando un po’ la testa china sugli scacchi, e con gli occhi che avrebbero rivelato quanto di falso ci fosse in quelle parole se solo non fossero stati tenuti bassi e avessero goduto di una degna illuminazione. «Niente. E’ andato tutto secondo i piani».
Allora James non disse più niente, e Sirius ne fu grato.
Probabilmente se lo immaginò soltanto, ma qualcosa gli si dissolse dall’addome. Non sapeva se fosse il peso di quella logorante relazione che forse vedeva infine la fine, o il peso della sua lealtà che veniva sacrificata sull’altare del facile sollievo. Tremò impercettibilmente a quest’ultimo pensiero: il pensiero di lui, Sirius Black, che fuggiva le difficoltà emotive così vilmente, che agognava la sua passata e inoppugnabile integrità e che a lei sfinito faceva ritorno, con la coda fra le gambe, senza preoccuparsi di scavalcare l’opinione e il benessere altrui e tutto ciò che loro, delle loro stesse persone, avevano coinvolto.
Tremò però anche come elettrizzato al pensiero che fosse finita, non parendogli quasi vero: e nonostante tutto sembrava che finalmente lo fosse.
«Perché»…
Sirius non prestò importanza alla voce incerta e quasi timorosa che esordì in quel momento, nel principio di una domanda, forse per via della persona a cui apparteneva, che dell’indifferenza altrui non si faceva - almeno in apparenza - troppi complessi, fino a quasi preferire che non gli venisse riserbata particolare attenzione, specialmente nei casi in cui, seguendo un naturale impulso, chiedeva spiegazione di qualcosa che non gli era apparsa particolarmente chiara, e pentendosene subito dopo. O forse non prestò a quel particolare esordio attenzione perché non aveva più nessuna voglia in corpo di alimentare ulteriormente un discorso che avrebbe mantenuto ancora in vita anche la più piccola parte di quella storia e sentiva un tremendo bisogno di lasciarsi tutto alle spalle, ora che il grosso era fatto. Desiderava soltanto chiudere quel capitolo, seppur in un modo che non avrebbe sperato, in un modo sbagliato forse, seppure in una menzogna.
Ma quella stessa persona alla cui domanda Sirius quasi distolse le orecchie, come si fa con la mente, ritenendo non necessario prestarvi una qualche pur minima attenzione, la persona che così poco aveva operato, così poco di sé aveva coinvolto e così minimo sforzo aveva condiviso in favore dell’edificazione di quello strano rapporto con Elyn, e quella persona che per la compromissione di quello stesso rapporto ancora meno avrebbe quindi dovuto mobilitarsi e ancor meno avere la pur minima voce in capitolo, senza alcun diritto, quella persona rovinò tutto.
«Perché… Sirius, dici… perché dici questo?».
Tutti e tre dunque si voltarono a guardare Peter, che fino ad allora era rimasto tutto il tempo in silenzio, ad ascoltare ogni parola pronunciata, spiando ogni più intima espressione, sempre in silenzio, sempre immobile, e che adesso esordiva in quel modo singolare, col suo modo sempre così insolito, sempre così emblematico. L’ultimo a incrociare i suoi occhi fu Sirius, che si era mosso molto lentamente, e sul suo volto attento c’era lo sguardo più eloquente, lo sguardo più vigile.
«N-non è andata così» proseguì Peter, facendo trillare la sua voce come quella di chi sta solo innocentemente facendo notare un piccolo, irrilevante errore nel discorso di qualcuno; cionondimeno un brevissimo fremito percorse tutto il suo corpo e gli occhi assunsero un’espressione sinistramente allarmata a testimonianza del loro essere consci, in realtà, di quanto una dimenticanza di quella portata sconvolgesse totalmente l’evoluzione della storia, portandola inevitabilmente alla sua fine, e non potesse essere pertanto frutto di una semplice disattenzione, piuttosto di un’omissione volontaria, qualunque fosse stato il motivo per cui Sirius l’avesse fatto, di una scelta ponderata: perfettamente erano, quegli occhi, consci di tutto questo.
«Scusa, Felpato, io ho visto» continuò, mentre a tratti porgeva lo sguardo intimorito agli occhi di Sirius, pregandolo per il perdono di qualcosa che stava per fare e che, senza riuscire forse a comprenderne il motivo, intuiva essere sbagliato e forse grave, e allo stesso tempo rifiutandosi caparbiamente di accettare quella altrui risoluzione e guardandosi da quegli occhi come fossero quelli di un offensore.
«Peter» gli disse Sirius, quasi in un sussurro, mentre gli fermava le pupille in uno sguardo dall’apparenza inclemente e indocile, che non molto in fondo, però, tradiva la sorpresa e l’allarme di un intervento inaspettato.
«Tu non dovevi essere al campo, Peter?» osservò Remus, la fronte contratta in una piega sospettosa e gli occhi si facevano stretti e attenti sotto suggerimento di una cautela appena percettibile.
«E’ sparito per un po’» rispose per lui James: quest’ultimo studiava a sua volta Peter con vivo interesse, ma allo stesso tempo lievemente irrigidito, come anche lui in risposta a una certa prudenza. 
«S-sì» confermò Peter e mentre parlava evitava lo sguardo pressante di Sirius, divenutogli insostenibile. «Andavo a prendere la bacchetta che avevo dimenticato in Dormitorio» arrossì sulle guance per l’imbarazzo di quella confessione, «e mentre passavo per il parco ho visto loro due». Quindi cercò per un breve istante gli occhi di Sirius, ma incapace di reggerne la portata della loro condanna, ne sfuggì nuovamente. Questi non poté vedere lo sguardo di Remus su di lui, a scrutare attentamente i suoi lineamenti contratti, non poté vedere neanche James che invece teneva gli occhi sul più riservato di loro - e forse per questo il più imprevedibile - con l’aria di chi non si aspettava un intervento simile e desiderava saperne di più. Non li vide perché i suoi occhi erano irrimediabilmente fissi su quelli pavidi di Peter.
E non si mosse, non fiatò, bastava il suo silenzio a farsi sentire e Peter lo sapeva: e fu per questo che scelse di non guardarlo mentre parlava, illudendosi che non accogliere con lo sguardo le mute richieste di silenzio che urlavano gli occhi di Sirius bastasse a discolparlo da qualunque cosa stesse compiendo, della cui gravità non riusciva a cogliere chiaramente l’origine e la ragione, né gli aggrovigliati e irraggiungibili confini.
«Li ho visti litigare, Sirius le ha detto che avevamo intenzione di non vederla più, discutevano sul fatto che lei fosse innamorata di qualcuno…». Parlava frettolosamente, quasi senza prendere fiato, con il tono ansioso e colpevole e l’urgenza di chi si illude che fare qualcosa di sbagliato più velocemente possa in qualche modo ridurne la gravità. «E l’ho vista fare una magia di fronte a lui… un incantesimo evanescente su una piuma, che però non è riuscito» continuò fremendo. Sirius avvertì il suono dello stupore di James e, anche se non lo sentì, poteva immaginare quello muto di Remus, ma era lo stupore di una deduzione sbagliata, perché non era per lui che la piuma non era sparita, come Codaliscia aveva lasciato supporre.
Come risvegliandosi, si riscosse: non poteva più lasciarlo continuare e si sentì un idiota per non averlo fermato prima.
Spostò d’istinto la mano sulla bacchetta che sporgeva dentro la veste, mentre Peter proseguiva: «Non era per causa sua però» disse più esitante, e gli occhi gli tremarono ancora nel realizzare che ciò che avrebbe detto ora era la cosa più grave, la più imperdonabile intromissione nell’intimità di qualcuno.
«Peter» lo ammonì Sirius, cercando di mantenere i nervi saldi, convinto ancora che l’amico potesse in qualche modo realizzare di dovere interrompere il racconto, prima di sconfinare in ciò che non gli apparteneva e che non era previsto venisse rivelato. Ma Peter non lo ascoltò e proseguì.
«Non è di lui che è innamorata»
«Peter»
«Né di noi»
«Diavolo, Peter!». Sembrava non sentirlo, e non si sarebbe fermato. Per qualche motivo, riteneva di vitale importanza rivelare anche quell’ultimo particolare, il nome di quel ragazzo, nonostante quanto avesse detto fosse già perfettamente sufficiente a rovinare ogni garanzia Sirius avesse assicurato, a se stesso e a loro, ogni protezione avesse laboriosamente eretto: ma oltre ogni cosa, oltre alla consapevolezza dell’irrilevanza di quell’ulteriore rivelazione, c’era la stupidità che era in grembo a quell’ennesima dimostrazione di egoismo, c’era la prepotenza dell’irruzione di Peter in qualcosa di cui non sarebbe mai dovuto venire a conoscenza e la sconcertante facilità con cui adesso, quella cosa, la stava rivelando; e, in qualche modo, tutto ciò gli apparse una così assurda mancanza di rispetto, una così irrimediabile violazione dell’intimità di lei, e, nonostante Elyn non avesse confidato neanche a lui volontariamente quella informazione, il fatto che adesso Peter la stesse per raccontare gli parse una tale meschina violenza a lei, alla sua persona, alla sua fiducia, che fosse questa o no un fantasma, da risultargli molto più imperdonabile di quanto non gli apparisse la sua stessa negligenza nel tentare di recuperare quel rapporto, che si sarebbe potuto sanare semplicemente rivelando con trasparenza come non fosse in realtà tutto compromesso da una stupita infatuazione come loro avevano creduto; gli apparse più intollerabile di quel suo operare attivamente per oscurare la realtà dei fatti, conducendo, lui stesso, alla sua inevitabile fine, ciò che in tutti quei mesi era stato creato, non solo da lui e Elyn, ma da tutti loro. Quello che Peter stava per fare gli parse più inconcepibile e inaccettabile di quanto, senza vederlo, non stava lasciando che fare a se stesso: più che a ogni altra cosa, più che un affronto alla sua lealtà, alla sua coscienza e alla sua persona e alla persona di Elyn, più di tutto questo - senza che però avesse la forza o la capacità o il desiderio di rendersene conto - un affronto a tutto quello che tra loro e lei c’era stato, se c’era stato, e anche se era qualcosa che adesso apparteneva al passato, anche se era qualcosa che, paradossalmente, ora desiderava ardentemente, con ogni spasimo del suo corpo, distruggere, cancellare, annientare.
Fu tutto questo, seppur non l’avesse realizzato che in seguito, che gli fece sentire lo stomaco in fiamme e chiudere le dita intorno alla bacchetta, senza pensare al fatto che colui che gli stava davanti non era che Peter e semplicemente guidato da un istinto primordiale e cieco.
«Non è di lui che è innamorata» così aveva cominciato, «né di noi» aveva continuato, e adesso volgeva alla conclusione: «Ma di...»
Appena prima che Peter avesse concluso la frase, proprio nel momento in cui Sirius stava per puntargli addosso la bacchetta, Remus si alzò bruscamente mandando rumorosamente per terra la sedia dietro di lui.
«Basta!» sbottò di colpo verso Peter, che sobbalzò atterrito. «Stai esagerando, Peter, chiudi il becco ora
James lo guardò sbigottito, senza capire, mentre Sirius con in cuore che gli galoppava nel petto e la testa ancora febbricitante per l’emozione rinfilava la bacchetta nella veste. Remus non se ne accorse, ma con la fronte imperlata di sudore e gli occhi ancora accesi dalla tensione Sirius gli rivolse uno sguardo in cui trovò spazio una riconoscenza che era intensa e insperata, mentre mormorava fra sé, senza che nessuno lo sentisse, in un sospiro sollevato e rabbioso allo stesso tempo: «Godric ti benedica, Remus».
«Peter, non c’è bisogno che tu dica ogni cosa, soprattutto se quelli di cui parli non sono affarituoi» continuò Remus in tono perentorio, senza esitazione, intrappolando Peter in uno sguardo così inflessibile che questi non riuscì a sfuggirne neppure una scintilla, e nonostante in nessuna parte del suo corpo lasciasse sfuggire alcun eccesso in maniera squilibrata, negli occhi ferrei e autoritari di Remus era chiara la sua innegabile insofferenza, per quanto misurata fosse.
«Io... Remus, io...» balbettò Peter disorientato, ma prima che realizzasse di dover articolare una scusa decente, sentirono la porta di uno dei dormitori maschili aprirsi in cima alla torre, dopodiché ne sentirono una di un dormitorio femminile, e un’altra e un’altra ancora, fino a che non riuscirono più a individuare il numero di porte che si aprivano e a contare il rumore di piedi riversi sulle scale a chiocciola. Ci furono una innumerevole quantità di vestaglie e pigiami, e di pugni in aria che brandivano bacchette in lumos senza che ce ne fosse realmente bisogno, visto che i quattro protagonisti della scena erano ben illuminati dal fuoco crepitante, e ci furono dei bisbigli e dei mormorii, e degli sguardi sorpresi e meravigliati di fronte alla vista di Remus in piedi sopra tutti, e della sua sedia rovesciata per terra.
«Che sta succedendo qui?!» urlò il neoprefetto di quinto anno Charlie Rooney, che si fece spazio in mezzo alla calca sulla scala.
Remus, fedele a quella sua radicata timidezza, esitò in un primo momento di fronte alle numerose decine di bocche dischiuse in segno di sbigottimento e di occhi che assistevano avidi alla scena e che in particolare rivolgevano a lui sguardi di stupore e sconcerto e di attesa, come se tutti si aspettassero logicamente che fosse lui, in quanto ritenuto responsabile dello scompiglio, a dover parlare e rispondere dei fatti. L’attimo di esitazione fu subito scacciato dalla rinata sicurezza con cui ogni fibra di Remus si ricompose subito dopo e dalla realizzata consapevolezza del fatto che lui sembrava essere l’unico presente in grado di rimediare alla situazione e in qualche modo difendere le loro posizioni. James era infatti, se possibile, ancora più allibito di ogni singola persona la cui pianta del piede giaceva in quel momento nel pavimento della torre di Grifondoro, e volgeva gli occhi stupefatti a destra e a sinistra, totalmente incapace di prevedere da chi aspettarsi la prossima mossa.
Sirius si era soltanto all’inizio voltato d’impulso in direzione delle porte che si aprivano e delle figure che si accalcavano sulle scale; subito dopo aveva riguidato lo sguardo indietro, quasi docilmente, ancora tutto carico di ogni singola tensione, apprensione e ansia di cui s’era ammalato solo pochi istanti prima e che s’erano ora mutate in sentimenti sospesi che non identificò neanche, dal momento che ogni suo atomo, rispondendo al controllo di un groviglio indefinito di emozioni violente e offuscate che ormai subordinava ogni fibra, pensiero, intenzione di quel suo corpo, si concentrava ora semplicemente, in un eremitico silenzio, sopra la figura di Peter, che pareva essersi ora rimpicciolito sul tappeto a ridosso del focolare, nel punto in cui solo qualche minuto prima assisteva alla troncata partita a scacchi, e dove adesso sembrava in grado di fare nulla, se non puntare lo sguardo sui suoi propri piedi, senza osare levare la testa.
«E’ tutto apposto, Rooney» replicò Remus, manifestando un perfetto controllo della voce. «Stavamo proprio andandocene a letto» e detto ciò rivolse uno rapido sguardo, in un moto apprensivo, a ciò che sotto la sua figura eretta stava accadendo, attorno al tavolo in cui poco prima sedeva, e dove non trovò nient’altro che silenzio.
Come se Rooney avesse voluto immaginarsi di proposito una momentanea mancanza di sicurezza nel tono o nell’atteggiamento di Remus solo per crearsi l’occasione di poter affermare nuovamente la propria autorità, ricambiò le sue parole con la stessa, infondata arroganza di prima: «Non mi pare proprio, Lupin, di avervi beccati proprio nell’attimo ameno in cui con letizia e di pari iniziativa concordavate di andarvene amorevolmente a letto».
La sua espressione era di puro trionfo e di esplicita sfida a trovare una replica degna di ciò a cui lui aveva appena divinamente dato vita. Qualcuno rise, possibilmente di scherno, ma ciò gli bastò per amplificare la baldanza con cui sostenne lo sguardo ben poco provato, seppur ancora indulgente di Remus.
«Rooney, giuro che leviamo subito le tende da qui, ma me la posso vedere io» disse, cercando di opporre un tono ragionevole, ma che però volse pericolosamente a una nota quasi desolata per quanto quell’interlocutore gli apparisse poco capace di collaborare in maniera intelligente.
«Te la puoi vedere tu, dici? Non mi piace, Lupin, il tuo modo irruento di vedertela con le cose» lo disse quasi con dolcezza, come quando si spiega qualcosa di semplice a un bambino, e con un movimento della testa lento e profondo e un accenno di sorriso, e modellando le sopracciglia perché assumessero una piega compassionevole, accennò lievemente alla sedia dietro il ragazzo, che con lo schienale per terra e le gambe per aria che puntavano verso di loro ricordava sgradevolmente l’immagine disturbante e impudica di una mucca che sospesa pendeva dal soffitto.
Remus seguì il suo sguardo voltandosi un istante dietro, poi riavviò di nuovo la testa in un movimento un po’ secco e scomposto che suggeriva quanto quella conversazione cominciasse a infastidirlo. Fissò per qualche istante il tappeto nello spazio tra le due scalinate con un’espressione urgente e concentrata allo stesso tempo, come se stesse selezionando le parole da usare per liquidare definitivamente la questione. Infine alzò gli occhi su Rooney che, in prima fila sul quarto scalino, stava attendendo la sua risposta, e disse: «Rooney, sono un prefetto e so perfettamente quello che devo fare. Mi dispiace di aver fatto rumore», mostrò loro le mani in un gesto accondiscendente e remissivo e abbassò per un attimo la fronte in segno di completa ammissione delle sue colpe, senza però mai abbandonare con lo sguardo gli occhi di Rooney per non concedergli alcun margine di sopravvento, poi rialzandola riprese: «Adesso ce ne andiamo nel nostro Dormitorio e il discorso si chiude qui». La sua espressione era così piena di quella costruita condiscendenza che anela a scongiurare ogni pur minima contestazione nel versante opposto, eppure manifestava chiaramente anche la sua così minima stima per quella persona - una considerazione che però non nasceva da una cattiveria caratteriale - e in maniera così evidente da indurre a credere chi avesse un po’ troppo sopravvalutato le capacità di Rooney che questa sua eloquenza espressiva potesse compromettere ogni possibilità di conciliazione tra le parti.
«Be’, dico solo che mi sembrava avessi delle difficoltà a rispondere delle tue funzioni, tutto qua» replicò Rooney, in tono adesso quasi disinteressato dietro il quale si celava l’insofferenza per l’inoppugnabilità degli argomenti e delle parole di Remus. Le scale cominciavano già a sfollarsi, qualcuno degli ultimi anni stava già tornandosene al proprio dormitorio, mentre ai più piccoli la scena destava ancora un ragguardevole interesse. Charlie indugiò ancora, probabilmente nel tentativo di trovare qualche obbiezione da opporre, ma non sembrava destinato a trovarne, e di lì a poco se ne sarebbe andato anche lui: sembrava che Remus fosse riuscito ancora una volta a salvarli.
«Sai, non credo che Remus abbia il minimo problema ad adempiere al suo ruolo di Prefetto, Rooney, se proprio vuoi saperlo. Non si scoraggia neanche con gente come noi» s’intromise James, dopo aver smaltito la confusione e riacquisito il suo bisogno di esprimere il suo parere in ogni occasione possibile, rivolgendosi a Rooney assai, forse troppo, gentilmente. Gli mostrò quindi un sorriso cordiale.
Ma per quanto delicato - e per una volta sinceramente tale - quest’ultimo intervento di James sembrò dare nuova vita allo spirito di rivalsa di Rooney, il quale riadottò l’atteggiamento offensivo.
«Sai, Potter» cominciò, ritemprandosi, e sembrava nuovamente risoluto a dare altro filo da torcere ai profanatori della quiete notturna. «Non lo dico per me, nossignore, lo dico per l-...»
«Chiudi quella maledettissima fogna, razza di idiota».
Chi aveva iniziato a salire i gradini in direzione dei propri Dormitori rielaborò le proprie intenzioni, provvedendo frettolosamente a riguadagnare sulla scala una posizione che rendesse loro nuovamente visibile la scena e la persona che aveva appena proferito parola. Rooney rimase a bocca aperta, interrotta nel compito di portare a termine la pronuncia di quella seguente eletta parola, come un pesce che vede le fauci dello squalo spalancarsi proprio davanti a lui e dallo sbigottimento non trova la forza né una ragione per chiudere la bocca prima di morire, né la paura concede in lui alcuno spazio ad una qualunque preoccupazione di salvaguardare e mantenere integra, se non altro, la dignità.
Anche Remus e James si voltarono verso Sirius, nascondendo alla meglio il turbamento che avevano anche in loro suscitato l’inespressiva calma e l’inusuale crudezza con cui l’amico aveva adoperato l’arma della parola. Lo trovarono nella stessa posizione in cui l’avevano lasciato, seduto sulla poltrona, con le spalle un po’ curve in avanti, con la testa un po’ volta in direzione delle scale, ma senza che sembrasse guardare nessuno dei presenti, neanche Rooney. Lo sguardo era solo rivolto in direzione di un punto sospeso poco più avanti delle scale, quasi sulla traiettoria del neoprefetto, ma ancora da essa discosto, come se non trovasse la forza o forse la voglia di girarsi completamente a guardare la persona con cui parlava, oppure come se non reputasse ciò che stava accadendo attorno a lui troppo degno della sua attenzione e concedendo loro la vista di quella sola mezza faccia avesse fatto molto più di quanto non ritenesse opportuno fare.
Prima di quel momento non aveva staccato gli occhi da Peter neanche per un attimo. A tratti lo aveva guardato solo per osservarlo, ma non precisamente con l’intenzione di studiarlo; altre volte, con una vaga consapevolezza di ciò, aveva aspettato da parte sua gli indizi di una reazione che non fosse il suo attuale starsene accucciato, ricurvo su se stesso come un bocciolo colpevole di dover sbocciare; i suoi occhi si erano, altre volte, semplicemente posati su di lui, senza che lo vedessero. In ogni caso, in quello che faceva e nel passare dall’una all’altra di queste occupazioni era stato guidato da nient’altro che un vago e debole grado di coscienza. Non era poi stato in grado di afferrare la consistenza e la composizione del tumulto di sensazioni che sentiva dentro, cosa che avrebbe dovuto richiedere una notevole e minuziosa applicazione di una lucidità e di una attenzione che in quel momento non possedeva, e impegno che non sembrava nelle condizioni di potersi prendere perché, semplicemente, era troppo mentalmente stanco perché potesse riuscire lucidamente ad affrontare quella situazione.
Davvero molto semplicemente, era stanco. E stufo.
In tutto quel tempo era rimasto quindi immobile, mentre il vago sentore di ciò che avveniva all’esterno di quel suo particolare stato catatonico non suscitava in lui alcuna reazione. Non aveva prestato molta attenzione al dibattito e alle parole che attorno a lui si sprecavano, anche se le sentiva, e in qualche modo - seppur guidata da nessuna prescrizione intenzionale - la sua mente gli inviava dei piccoli segnali di assunzione e in qualche modo faceva sapere in linea di massima alla sua coscienza - che in quei momenti sembrava quasi completamente assente - gli sviluppi fuori in corso e inviava brevi informazioni sul modo in cui se la cavavano gli amici, ma erano informazioni che lui non accompagnava arbitrariamente oltre la soglia dell’inconsapevolezza: non era questo un processo in cui si rendeva attivamente promotore e consapevole artefice, al contrario, la volontarietà del passaggio dell’informazione da un’elaborazione incosciente a una consapevolezza cosciente era una caratteristica che mancava a quelle brevi conoscenze che sentiva di avere solo occasionalmente, in aggiornamento dell’andamento esterno, come in risposta a un istinto di sopravvivenza: era come se queste informazioni fossero semplicemente parte di lui, frammenti, interferenze, come se gli nascessero da dentro e non invece che provenissero da un’osservazione e un apprendimento esterno: lui ne veniva semplicemente a conoscenza, ma non le cercava volontariamente, studiando gli accadimenti esterni; e se anche tutto ciò non fosse stato possibile, comunque, qualunque cosa facesse, non si accorgeva di farlo. Dentro si sentiva intanto solo una confusa e disordinata coesistenza di emozioni, che a tratti percepiva pallide come appartenenti a un mondo a parte, quando languiva in quel stato incosciente e isolato, e in mezzo alle quali a tratti, quando ristabiliva una qualche presa sulla realtà o forse su se stesso, ne sentiva emergere qualcuna in particolare, prevalere sulle altre in un eccesso improvviso, senza che riuscisse a identificarla nonostante ne avvertisse la prepotenza. Era stato più o meno questo il suo stato per qualche secondo, forse un minuto o due.
Dopo quella che a lui parse non un minuto, piuttosto un’eternità, qualcosa di cui si era totalmente accorto aveva ridestato però la sua consapevolezza, catturato brevemente il suo interesse: era stato Peter, che aveva solo per un attimo trovato il coraggio di alzare lo sguardo, ma incrociati i suoi occhi lo aveva subito ricacciato tra le maglie del tappeto. Quest’immagine aveva suscitato in Sirius un non indifferente senso di insofferenza, solo questo, un moto forse di rabbia o disgusto, ma era molto meno di quanto pensasse e molto più debole di quanto non fosse necessario per definirsi pericoloso; ma nel discriminare tra i tanti, finalmente, questi precisi sentimenti, si era sentito l’attimo dopo immediatamente bombardato da una moltitudine di informazioni. Aveva cominciato a sentire ciò che gli avveniva attorno e aveva udito Remus che tentava di far ragionare il neoprefetto: prima, quando languiva in quel suo stato di isolamento, aveva avuto solo una vaga idea di ciò che gli stava accadendo intorno e, seppur capisse essere una vera seccatura, non avrebbe mai potuto immaginare che la voce di Rooney, in una condizione di perfetta presenza a se stesso, avrebbe potuto urtarlo così tanto e così violentemente come ora aveva prova facesse. Riprendendo contatto con la realtà, aveva sentito proprio quest’ultimo dare rogne a Remus, con la sua stupida presunzione, e questi tentare di venire a patti con lui: ma la ragionevolezza di quest’ultimo si scontrava con l’ottusità insulsa del suo interlocutore, il quale lo aveva a sua volta accusato di non essere in grado di svolgere le mansioni che la sua carica gli imponeva di svolgere, la qualcosa, al solo sentirla, aveva letteralmente disgustato Sirius. James era intervenuto in aiuto di Remus, in un tentativo conciliante e collaborativo, talmente troppo aldilà dei suoi standard che gli era apparso quasi ridicolo nel farlo, e poi aveva sentito ancora una volta, di nuovo, daccapo e sempre all’infinito Rooney, quello stupido idiota aprire la bocca a pronunciare la prima parola di una replica che si preannunciava solo il prologo di una processione di altre inconsistenti ed estenuanti idiozie; e di nuovo, e di continuo, e all’infinito quella sua voce così infantile e così rivoltante che dava forma a miseri pensieri e si offriva arma di tortura a una mente ancora più frivola, piccola e insignificante. Lo aveva innervosito maledettamente quel suo atteggiamento indulgente, artificiosamente morbido, quel retroscena d’isterica presunzione da cui pescava quelle sue immacolate e assennate risposte, cercate tra le tante in modo che rispecchiassero inviolabili criteri di ironia, efficacia e un non troppo evidente beffeggio, accuratamente e vilmente celato dalla logica perfetta delle repliche, appositamente studiate per accattivarsi un pubblico nel quale non poteva lasciarsi sfuggire occasione di creare consenso.
Forse erano i sensi amplificati, o lo stato di precario controllo che esercitava sul suo proprio corpo e forse anche sulla sua propria immaginazione, ma Sirius in quel momento riconobbe nella voce del Grifondoro in maniera lampante e maledettamente chiassosa ognuna di queste cose e gli sembrò così intollerabile da poterci diventare matto: era il limite, non avrebbe potuto tollerare una parola di più o sarebbe scoppiato, esploso, diventato pazzo.
«Sai, Potter» aveva cominciato Rooney, con tutta la carica e il ridicolo risentimento di chi improvvisamente sensibilizza fino allo stremo il proprio ego e la propria persona e ogni più assurdo e irragionevole senso di giustizia solo per alimentare una qualunque stupida battaglia in difesa di chissà quale diritto, con l’unico intento, rivestendosi dei panni del paladino degli interessi altrui, di interpretarsi in realtà come il depositario fastidioso e molesto dell’unica missione di seminare rogne a chi abbia qualche sentore essere a lui ben superiore e in ogni aspetto migliore.
«Non lo dico per me, nossignore, lo dico per l-…»: loro” avrebbe dovuto dire, ma non ci riuscì, perché Sirius aveva parlato e lo aveva fatto senza sforzarsi di pensare a cosa e a come lo stesse dicendo, semplicemente aveva lasciato alla sua bocca dire una qualche cosa, e, pace dei cieli!, non lo aveva più sentito parlare, si era chiuso quel suo strazio di bocca e adesso, dopo tre o quattro secondi, miracolo del cielo, lo stava ancora facendo. Facilmente quella così poca padronanza che su se stesso esercitava in quel momento avrebbe potuto condurlo all’aggressività, ma così non fu, o almeno non gli parve, e lui stesso si sorprese. Non che gli importasse comunque: adesso tutto ciò che desiderava era non vedersi più davanti quelle anonime facce e, come non si era per alcun motivo trovato davanti l’esigenza di dover registrare la loro presenza fino a quel momento, sperava adesso di non doversi ritrovare a fare i conti con una simile necessità, prima di potersi considerare definitivamente al sicuro da una tale prospettiva, una volta raggiunto il Dormitorio, in modo da potersene tranquillamente andare a letto senza prima dover aver in qualche modo a che fare con nessuno di loro, fingendo che per tutto l’arco della giornata non li avesse mai incontrati.
Allora sì che si sarebbe sentito profondamente grato.
Come lui stesso si era accorto ma senza prestare al fatto molta importanza, era vero che quella sua precaria presenza a se stesso non lo aveva condotto a reazioni incontrollate e spropositate, come ci si sarebbe aspettati. Al contrario - ed era stato proprio questo a turbare i presenti e Rooney, ma soprattutto Remus, James e, anche se meno manifestamente, Peter -, Sirius aveva mantenuto una calma a suo modo assordante e, a seconda dell’inclinazione dei caratteri, anche rasente lo spaventoso. Così contrastante con quel suo temperamento turbolento e vivace che di un’occasione del genere (e cioè del contrasto con Rooney) non avrebbe fatto altro che raggirare il fastidio in suo favore, rendendolo ideale palcoscenico su cui manifestare le sue capacità ironiche e dare prova ancora una volta di quanto brillante fosse - seppur in onore a certi biasimabili fini e in virtù di certe altre discutibili, eppure realmente esistenti, inclinazioni -, stridendo con ogni sfaccettatura che di quel carattere conoscevano, questa nuova quasi ostinata chiusura era un aspetto estraneo all’immagine che di lui avevano, non tanto i suoi coetanei, ma i suoi amici, e che pure era sempre stata fedele alla realtà, più di quanto lui stesso non avrebbe saputo una più simile ritrarne di quella sua propria, infinita personalità.
Eppure, per quanto avulsa alla sua persona apparisse quella reazione e per quanto difficile risultasse loro attribuirgliela, c’era, in quella tensione contenuta, in quella impetuosità fatalmente ferita e gravemente oppressa, in quella grinta inaccettabilmente addomesticata e ridotta all’innocuità, una strana maturità, come però indesiderata, come, a dispetto di tutte le volte che non c’era stata e la sua presenza sarebbe stata invece fortemente indicata e in seguito delle volte rimpianta, come se questa volta fosse inappropriata e, in un modo quasi biasimevole, sbagliata.
Non vedendo in Rooney ancora alcuna reazione, dopo circa sette o otto secondi, Sirius si lasciò sfuggire, in quel volto un po’ cupo, una specie di sorriso. Non sapeva se fosse perché il fatto lo divertiva alquanto, o forse perché semplicemente questa incredule inoffensività che aveva investito l’avversario lo aveva quasi reso a sua volta incline ad appianare una volta per tutte le diatribe, nonostante avesse potuto divertirsi - come non avveniva molto frequentemente con il buonismo che circolava - con una vittima talmente sciocca e vulnerabile, come solo può esserlo uno che ha troppa stima di se stesso e troppo confida nelle proprie capacità. Era Sirius, in un certo senso, un perfetto conoscitore di tutte le tipologie di vittime in cui poteva incappare, e certo ormai molto raramente ne scopriva di nuove: l’esperienza l’aveva portato ad acquisire la capacità di scoprire molto velocemente i punti deboli delle persone, soprattutto se queste non godevano di una forte personalità e di una grande stima per se stessi, e talvolta gli bastava sentire solo poche parole, o il modo in cui esse erano pronunciate, per stanare le insicurezze di chi si trovava davanti, e allora era facile giocare proprio su quelle, riducendo le persone soltanto a individui estremamente fragili ed esercitando così un potere oppressore che talvolta, quando quelle poche volte capitava che si mettesse a rifletterci su un po’ più del dovuto, si ritrovava lasciarlo decisamente sorpreso. Ma ciò avveniva, per fortuna, molto raramente. No, non avrebbe saputo dire cosa lo portava a fare quelle cose con James, e in realtà non si chiedeva mai perché. Non gli procurava un qualche piacere perverso il veder addolorarsi le persone, né saziava in questo modo un qualche suo sadico bisogno di provocare sofferenza negli altri. In effetti, aveva il sospetto che non fosse proprio l’esito a valle delle loro azioni che lo spingeva a perseguirle, né era un bisogno a monte di essere lui il carnefice e autore di tale sofferenza: non credeva che fosse la sofferenza, in una qualunque delle sue manifestazioni, il motivo che lo spingeva compiere tali azioni. Le sue conclusioni, però, non andavano oltre queste semplici certezze. Sapeva che, ripensando a ciò che faceva, una volta fatto, non si sentiva in qualche modo migliore o meglio di prima, né era appagato, contento o compiaciuto di quello che aveva fatto; non necessariamente si sentiva male o pentito, questo no, ma a parte il fatto (e che neanche accadeva puntualmente) che alcuni di quei fatti – lui non li chiamava crimini, ma alcuni sostenevano esasperatamente che questo fosse il termine adatto, Lily Evans, per esempio - lo divertissero per la loro assurdità o perché fossero realmente molto buffi, e non per i suoi soli standard, sui quali un grosso numero di ‘qualcuno’ avrebbe anche potuto aprire una questione, ma evidentemente per i livelli di molti, visto che lui e James non erano esattamente gli unici due scemi a ridere quando capitava che una loro malefatta risultasse tutto sommato un’opera molto buffa; a parte tutto questo, questo innocente divertimento, non provava nient’altro che giustificasse una qualche forma di appagamento postuma a quegli episodi diversivi. 
In ogni caso, adesso si trovava davanti monsieur Charlie Rooney in persona, e di lui conosceva abbastanza da lavorarselo a colpi di punzecchiature e umiliazioni e convincerlo dopo meno di un minuto a rinchiudersi scornato nel suo Dormitorio per almeno una settimana, prima di rivederlo con quel suo muso sospettoso e beghino a ficcanasare liberamente tra gli affari altrui; tuttavia, la prospettiva non gli era poi molto allettante, e preferiva risparmiare a lui la pena e a se stesso lo sforzo creativo: nella sua mente rimaneva fedele il proposito di non impegnarsi in nessun’altra attività, prima di concludere quella giornata fin troppo lunga, che non fosse dirigersi nel suo letto e dormire.
Allora, per pochi istanti ritornò rivolto verso il focolare e vide, proprio mentre Peter sbirciava con lo sguardo sopra di lui, una vampata particolarmente vigorosa allungarsi come un braccio e inviare, come in avanscoperta, un’unica scintilla fuori dalla cornice del camino, che presto si dissolse: fu come un segnale, ed era sicuro di non possedere una valida interpretazione per ritenerlo tale, ma così lo recepì: dunque si alzò e si rivolse finalmente alle persone presenti. Aveva previsto il fatto che con ogni probabilità avrebbe trovato tutti i loro sguardi puntati su di sé, compreso quello di Rooney, che trovò meno miserevole di quanto non si aspettasse: provato sì, scosso, ferito nella sua usuale saccenteria, fors’anche evidentemente umiliato, ma non isterico, ripugnante né indecoroso, quasi freddo invece, rigido e più che mai contenuto. Anche Remus e James lo guardavano, ma quando incontrò i loro occhi distolsero lo sguardo.
«Perdonate il chiasso» disse con un tono e un volume che poco spessore concedevano a quelle parole – forse per la poca abitudine a scusarsi -, quasi come pronunciate di sfuggita e poco sentitamente, e che tuttavia erano sincere perché condivideva il loro stesso desiderio di quel silenzio che rivendicavano, e di cui sentiva in quel momento un estremo bisogno. Ma probabilmente nessuno le sentì come tali e forse per questo alle sue parole seguì solo silenzio. Quasi avesse aspettato di ricevere una risposta mai giunta, solo dopo qualche istante Sirius si decise ad afferrare il mantello ricaduto sullo schienale del divano e incrociò per un istante gli occhi irrequieti di Peter che tornarono a sfuggire subito dopo, volgendosi verso un lontano angolo della stanza.
Vedendolo così agire e interpretando le sue scuse come una chiusura del sipario, i Grifondoro cominciarono a muoversi a loro volta verso i rispettivi Dormitori, e qualche porta già si chiudeva. Sirius si incamminò verso le scale e mentre passava accanto a Rooney - il quale non si era ancora mosso ed era rimasto come prima, imperturbabile -, rallentando il passo perché lo sentisse, gli disse sinceramente scosso per quel suo stato: «Ehi Rooney, scusa», per poi proseguire per la sua strada.
Si sentì in pace soltanto una volta raggiunti gli ultimi scalini, prima del Dormitorio: anelava quelle mura, quella tana, quel rifugio dietro i drappi del baldacchino come nient’altro, ed era una sensazione dolcissima sentirsi la giornata alle spalle e conoscere esattamente cos’altro doversi aspettare da quella e la precisa successione, perché nient’altro poteva ormai accadere: solo il letto, il silenzio e la notte.
Ma stava per aprire la porta del Dormitorio, sentì un dolore alla schiena e la notte arrivò prima di tutto.

   
 
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