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Autore: liserc    28/08/2007    1 recensioni
[...]Ma lasciatemi avere la speranza, almeno quella, quella che i miei genitori mi avevano lasciato per tre lunghissimi giorni di sorrisi, risate, promesse, pianificazioni. E che si erano ridotti a questo.[...]

E' più uno sfogo, che una fic. Perdonatemi, se non vi piace, non vi chiedo di leggerla ^^.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chiusa in un armadio, ecco dov’ero.
Semplicemente, mi ero rinchiusa lì dentro, con l’augurio più profondo che almeno lì non ci sarebbe stato nessuno a guardare gli occhi rossi, ad ascoltare i singhiozzi, a contare le lacrime, che, inesorabilmente, sfociavano dai miei occhi offuscati.
La musica era la mia sola compagna, quella musica che mi era sempre stata vicina, soprattutto nei momenti di difficoltà.
Quella stessa che ora era la sola testimone del mio pianto liberatorio, che ero riuscita a reprimere giusto il tempo di nascondermi in quel piccolo armadio buio, raggomitolata su me stessa, a pensare.
Pensare che con il nonno, sarebbe stato tutto diverso.
Le speranze – vane – di un’adolescente depressa.
Ma lasciatemi avere la speranza, almeno quella, quella che i miei genitori mi avevano lasciato per tre lunghissimi giorni di sorrisi, risate, promesse, pianificazioni. E che si erano ridotti a questo.
Un’ora di pianto soffocato, un’ora di urla mentali, di maledizioni, di dolore.
Un’ora della mia vita che aveva visto quel poco di anima rimastami andare via.
Che aveva visto quel poco di me ancora volenteroso di questa vita, fissarmi da fuori, prima di volare via.

Un’ora che avrei rinfacciato per sempre, ai miei genitori.
Loro.
Loro, che mi avevano fatto ciò.
Quanto fa male, l’illusione? Quanto fa male, vederla scomparire?
Quanto mi aveva fatto male, correre per la casa con le lacrime pulsanti per uscire, alla ricerca di un mazzo di chiavi, che, avevo scoperto, mi era stato sottratto per impedirmi di uscire?
Quanto mi aveva fatto male l’incomprensione degli amici, la gioia svanita, la voglia infinita di buttarmi da quel balcone del quinto piano, dal quale mi ero sporta, per poi ritrarmi, troppo spaventata per buttarmi?
Troppo spaventata, o troppo altruista, dipende dai punti di vista.
Perché mai mi potrei buttare, per ferire i miei amici, quei pochi rimastimi.
Eppure, i miei genitori erano in grado di ferirmi, così spudoratamente, illudendomi di una felicità che non sarebbe mai arrivata.
Erano in grado di farmi essere felice per tre giorni, ed uccidermi alla fine del terzo.
Erano in grado di spararmi un colpo al petto che non sarebbe mai andato via, mai, a sangue freddo.

E io, piccola stupida, piccola stupida illusa, ci ero cascata, di nuovo.
Di nuovo, ero caduta nella rete di inghippi, tranelli, tradimenti, e di nuovo, ne uscivo in lacrime.

La parola, quella che ero riluttante tirar fuori già prima, si era persa fra i singhiozzi, e non sarebbe mai tornata fuori.
Non con loro. Non con la mia famiglia.
Loro per me erano peggio che morti, mi avevano inflitto un male troppo grande, per sperare che io potessi ancora considerarli sangue del mio sangue.
Un male che ti uccide dentro, che non ti fa respirare, non ti fa più vedere il mondo, c’è solo dolore, dolore, dolore sordo, dolore di un’adolescente a cui è stata privata quella piccola felicità, quella piccola piccolissima felicità di un abbraccio puro e sincero, di un’occhiata, di un sorriso sincero, di un bacio leggero.
E ora ero lì.
Nel mio angolino buio di mondo, dimenticata da tutti, a singhiozzare, mentre le lacrime bagnavano il mio viso, il collo, la maglia.
A soffrire per un dolore più grande di me, che ero ancora così piccola.
A soffrire per una cosa inflittami dai miei genitori, quelli che si reputavano, almeno, tali.

Un ultimo singhiozzo mi scosse, prima di sentire la porta della camera chiudersi.
Uscii piano piano dal mio nascondiglio, reprimendo le ultime lacrime di rabbia e dolore che mi appannavano gli occhi.
Il pianto mi aveva, quanto meno, tranquillizzata.
E con la fine di quello, erano finite anche le lacrime, ma il dolore era rimasto.
Ma ero troppo vuota, per piangere.
Vuota come una bambola, priva di emozioni.
Solo una, dominante: il dolore.
Il dolore della perdita di una persona che non avevo mai potuto considerare ‘mia’. La perdita della felicità infantile, che se n’era andata con quel pianto.
Non è impossibile ricostruire la felicità, quando si hanno degli amici.

Ma sarebbe stato così duro, così dannatamente duro, riconquistarla…
Un sospiro lento mi uscì dalle labbra dischiuse, prima che le mani mi asciugassero involontariamente le lacrime che ancora bagnavano il viso.
Prima di passare una mano sulla bocca, sporca di sangue, del mio sangue, che avevo fatto uscire a forza di mordere le labbra, per reprimere gli urli e i singhiozzi.

E ora ero lì, imprigionata in quella grande casa, sola con il mio dolore, che non sarei riuscita ad accantonare in un angolo.
Come si può far male al proprio figlio?
Come si può condannare al dolore il sangue del proprio sangue, per l’egoismo di non voler rischiare di perderlo?

Mi fate solo più male, mamma, papà. Mi fate solo più male, così.
  
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