Tra ricordi e
speranze
25Maggio
Caro
diario,
non so
dove abbia trovato la forza di scriverti. Non riesco a star ferma. Non faccio
che tremare. Da tre giorni. È come se il mio mondo fosse finito con quella
dannata chiamata della polizia. Come se la mia vita si fosse spezzata quando la
voce di Liz Forbes mi ha riferito dell’incidente. Non ho voluto capire
all’inizio. Ho solo risposto un “ stanno tutti bene?” stentato, ma non ho
voluto neanche sentire la risposta ovviamente negativa dello sceriffo. Zia
Jenna mi ha raggiunto subito e dopo pochi istanti ho visto le lacrime bagnarle
il viso sempre così allegro. Allora ho capito. Ho capito che era la fine. Che i
miei non c’erano più e per poco neanche la mia sorellina così amata. I miei non
ci sono più e non torneranno mai più. È stato orribile. La consapevolezza di
quel pensiero mi ha colpito come se qualcuno mi avesse appena strappato il
cuore dal petto. Per poco non sono crollata sul pavimento dinanzi al telefono e
a Jenna che continuava a piangere e piangere e implorare un no sommesso a
intervalli di un secondo. Le braccia di mio fratello, del mio piccolo e dolce
Jeremy, mi hanno sollevata per impedirmi di farlo sul serio. Avrei voluto
piangere anch’io come mia zia, ma non ci sono riuscita. Perché il mio dolore
supera qualsiasi lacrima io possa versare. È un dolore troppo grande, troppo
dirompente. Un dolore che mi ha fatto morire. Come la mamma e il papà. Oggi
sono stati seppelliti. Siamo appena tornati dal funerale. Elena si è chiusa in
camera. Sta piangendo, lo posso sentire da qui. Ho sentito quello che ha
sussurrato tre sere fa quando siamo andati a prenderla dall’ospedale. Ha detto
che era colpa sua, che sarebbe dovuta essere stata lei a morire, non mamma e
papà. Non è vero. Io lo so. Non è colpa sua. Lei è innocente. Non è stata colpa
di nessuno. Un incidente. È stato solo un dannato, stupido incidente. Anch’io
avrei voluto trovare qualcuno a cui poter dare una colpa, ma non c’è. Non
esiste. Ed è inutile piangere. Perché le nostre lacrime non possono riportare
in vita le persone amate. Per quanto questo mi faccia male, non riesco ancora a
piangere. Sento di dover essere forte per una volta. Elena ha bisogno di me.
Jeremy sta patendo le pene dell’Inferno e anche lui è chiuso nella stanza
vicina a piangere e a sbattere oggetti contro il muro. Non ho la forza di
alzarmi e calmarlo cullandolo tra le mie braccia come faceva sempre la mamma
quando avevamo qualche problema. Perché io non sono lei. Io non sono mia madre
quindi non ho il diritto di comportami come lei. Mamma sapeva sempre cosa fare.
Io, invece, sbaglio e sbaglio e continuo a fare la scelta sbagliata. Non riesco
neanche a essere forte per mia sorella e mio fratello. Non so gestire il loro
dolore perché non riesco nemmeno ad attenuare il mio. In fondo come potrei?
Solo papà riusciva a dimenticarsi di tutto per noi. Come quando ebbi il mio primo
spazio nella piccola sfilata dei Fondatori. Sarebbe dovuto partire per Richmond
per un convegno importante di medicina. Invece rimase. Rimase per me, per
guardare la sua bambina fare ciò che le riusciva meglio. Pensare che non vedrò
mai più il suo sorriso orgoglioso di me mi fa stare così male da bloccarmi il respiro. Ma non riesco ancora a
piangere. È strano, orribile. E la consapevolezza di dover andar via mi divora.
Partirò. È deciso. Il lavoro a Carson City è già assicurato e mi aspettano per
Giugno. Ma come posso lasciarli così? Come posso essere tanto egoista? Io
voglio fuggire da questo dannato borgo di provincia in cui non c’è più posto
per me. Ma i miei fratelli? Cosa ne sarà di loro? La zia Jenna non può
prendersi cura di entrambi. Dovrei rimanere qui, lo so. Ma fa troppo male.
« Te ne
andrai, vero?» sussurrò timidamente Elena, ancora sulla soglia della sua
camera. Phobe la guardò. Indossava un pigiama azzurro, troppo grande per lei,
che le sformava i fianchi e il gracile corpo da quindicenne spaventata.
Tremava, sua sorella, ma non piangeva ancora e quello fu un bene. Avrebbe tanto
voluto negare, prenderla tra le sue braccia e dirle che sarebbe andato tutto
bene. Ma sarebbe stata una menzogna. Avrebbe voluto cambiare idea. Per lei. Per
Elena. Per l’amore che nutriva nei confronti della sua piccola principessa che adorava
Orgoglio e Pregiudizio, Pablo Neruda e P!nk. Ma non poteva.
«
Elena, amore, io devo,» esclamò dispiaciuta, tentando di alzarsi dal letto per
poi essere bloccata dalle lacrime che rigavano il bel viso di sua sorella. Non
ci riusciva. Non riusciva a guardarla mentre piangeva. Faceva troppo male per
sopportarlo. E sapere di essere in parte causa del suo dolore la fece sentire
un’egoista della peggior specie, «Ti prego, perdonami, se puoi.»
Ritornata al presente, Phobe sbatté le palpebre, pregando
fosse solo la sua immaginazione che le aveva giocato un brutto tiro. Pregando
di rimandare quello scontro che, nonostante tutte le richieste che avrebbe
potuto avanzare, sarebbe stato inevitabile. No. Non era solo la sua
immaginazione. Elena era lì, a pochi metri da lei, dopo due anni di silenzio
assoluto. Non una telefonata, non una lettera, nemmeno una cartolina con gli auguri
di Natale. Niente di niente. Il modo in cui si erano lasciate, tra pianti e un
dolore che squarciava il cuore, le aveva allontanate così tanto da far
permanere una nota di risentimento che le aveva portate a un distacco totale.
Ma Elena era lì. E loro avrebbero potuto trovare il modo di riappacificarsi.
Sua sorella non era cambiata poi molto. Aveva solo i capelli più lunghi e il
viso più adulto. Per il resto era la stessa ragazza longilinea e bellissima che
aveva dovuto salutare due anni prima. E anche Phobe era perfettamente
riconoscibile. Senza trucco, abiti firmati, borsette minuscole e tacchi sedici.
Era ritornata a essere la Phobe Gilbert di sempre, la diciottenne che aveva
fermato il carro dei Fondatori solo per un bouquet fuoriposto. Con i capelli di
un biondo scuro, dai riflessi color mogano, lasciati sciolti sulle spalle
strette. Con il sorriso sempre pronto e gli occhi brillanti di giovinezza. Con
quell’aria da bambina sincera e onesta che alle volte parlava in modo troppo
spigliato.
« Ecco il tuo cheeseburger,» sussurrò comprensivo Matt
richiamando la sua attenzione prima di poggiare un piatto contenente un panino
enorme sul tavolo ligneo con un bicchiere d’aranciata, la sua bibita preferita.
Le carezzò l’avambraccio con dolcezza, come se davvero fosse suo fratello e
Phobe, per un solo istante, si sentì al sicuro. Si sentì certa del perdono
delle persone che aveva amato e da cui era fuggita come una codarda. Fu solo un
attimo però.
« Mi odia, vero?» domandò con voce amara e intrisa di
vergogna e dispiacere. Abbassò lo sguardo color nocciola sul piatto quando vide
Elena alzarsi dal suo tavolo poiché non riusciva più a trattenere le lacrime.
Sapere che la sua sola presenza fosse in grado di ferire in quel modo sua
sorella, che non piangeva quasi mai, era per lei un motivo di sofferenza inimmaginabile.
Avrebbe voluto raggiungerla e implorarla per ricevere un qualche segno
positivo, dopo essersi scusata mille e mille volte per come era stata egoista
nel voler realizzare solo i propri desideri. Sì, avrebbe voluto. Ma sapeva bene
che per Elena non sarebbe stato più come prima.
« Phobe, credi davvero che Elena sia capace di odiare
qualcuno?» la fece riflettere come se fosse suo padre, con quel tono di
divertita contestazione che le ricordava tanto quello di suo zio John quando
gli aveva chiesto perché non sorridesse mai. Domanda abbastanza indelicata,
doveva riconoscerlo.
« No, non seriamente,» ammise anche a se stessa. Elena era
troppo pura, troppo innocente per conoscere l’odio e provarlo verso qualcuno, «
Devo andare a parlarle?» chiese dubbiosa, ben sapendo che no, non sarebbe stata
la scelta migliore da compiere. Elena era scomparsa nel bagno del Grill e la
sua bella figura non accennava a fuoruscire. Le mancava. Anche solo averla a
qualche metro in più di distanza, celata al suo sguardo, le procurava un senso
di vuoto al centro del petto. Come fosse stata in grado di riuscire a
continuare a vivere senza di lei, senza Jeremy, senza la sua Mystic Falls
divenne un mistero in quel momento.
« Aspetta,» le consigliò infatti il ragazzo, con un tono
fiducioso che la rinfrancò. Mattie ci credeva. Credeva sul serio che Elena
l’avrebbe perdonata. Forse non subito. Ma l’avrebbe fatto. Phobe sarebbe voluta
essere dello stesso parere del suo migliore amico, però la verità era che
conosceva sua sorella troppo bene. Quando qualcuno decideva di uscire dalla sua
vita, difficilmente vi rientrava, « Il Grill non è posto adatto a una
rimpatriata. Le dirò io che vi incontrerete a casa vostre questa sera,»
assicurò dolcemente, carezzandole la mano ancora protesa sulla superficie
lignea del tavolo. Matt si congedò con un sorriso più ampio quando le vide
accennare un assenso e Phobe si sentì smarrita come quando era entrata nel locale
pochi minuti prima.
« Sai dov’è Jer?» sussurrò mentre lui si era già voltato per
raggiungere gli altri clienti che lo stavano chiamando.
« Il suo turno qui inizia tra un paio d’ore. Sarà in giro,»
le comunicò scrollando le spalle. con Jeremy sarebbe stato più semplice, lo
sapevano entrambi. Con Jeremy non aveva mai rotto i ponti del tutto. Loro due
si sentivano per telefono ogni domenica mattina, rigorosamente dopo
mezzogiorno, e si scambiavano gli auguri di Natale e del Ringraziamento. Jeremy
aveva acconsentito persino a prendere un numero della sua rivista settimanale
per osservare il suo lavoro. E, soprattutto, Jeremy sapeva che sarebbe tornata
a casa. Solo non gli aveva comunicato quando.
« Mattie… io… mi dispiace tantissimo. Dille solo questo. Per
favore,» lo pregò costernata mentre scorgeva lo sguardo dispiaciuto di Bonnie
che assomigliava tanto a una condanna a cui Phobe non avrebbe potuto evitare di
affrontare.
« Patetico,» commentò la vampira Originale, prima di
passarsi il lucido sulla labbra. Elena trattenne i singhiozzi che rischiavano
di scuoterle il petto, ma non riuscì a fermare il flusso delle lacrime che le
stavano bagnando le guance, « Piangere in un bagno. Che c’è? A Stefan non piaci
più?» cinguettò divertita guardandola con sufficienza. Elena aveva le mani
strette intorno al lavabo bianco dinanzi allo specchio semplice, e le nocche erano
divenute bianche per la pressione contro la pietra. Aveva il capo chino e non
riusciva a smettere di piangere, nemmeno dopo essersi accorta di non essere più
sola in quell’unico luogo di solitudine.
« Va’ al diavolo, Rebekah,» esclamò con rabbia, con lo
sguardo ancora chino e il viso circondando dai lunghi capelli castani lasciati
sciolti. Non aveva per niente voglia di ascoltare quella vampira boriosa e
infantile. Non in quel momento. Non con sua sorella a pochi metri di distanza. Sua
sorella. La sua Phobe. La sua confidente, la sua amica, l’unica persona a cui
avrebbe potuto raccontare ogni cosa e ricevere dei consigli sinceri e utili. La
ragazza che era partita quando aveva più bisogno di una persona al suo fianco
che potesse aiutarla a superare quella tragedia che aveva colpito la loro
famiglia.
« Maleducata. Non si trattano così le persone,» mormorò
imbronciata la bella vampira dagli occhi color del mare, tuttavia non turbata
né dal suo tono minaccioso né dalle lacrime. L’aveva pugnalata alle spalle.
Rebekah pensava seriamente che meritasse tutto quel dolore, da chiunque fosse
stato arrecato.
« Per favore, Rebekah, lasciami sola,» la pregò portandosi
le dita alle tempie, scostando due ciocche color del mogano. Non ce la faceva.
Non riusciva a sopportare oltre tutta quella situazione. Tra le liti con
Stefan, i sentimenti crescenti per Damon, la situazione di stallo con Jeremy,
non poteva anche occuparsi del ritorno di Phobe. Non ne aveva più la forza.
Voleva soltanto rimanere sola e pensare. Pensare a un modo per uscire da quella
dannata situazione. Pensare a una soluzione a tutti i suoi problemi. Pensare al
modo migliore per dire a se stessa che no, non amava più Stefan. Per dire a se
stessa che quello che provava per Damon superava la semplice amicizia e superava
persino tutto quello che avrebbero potuto pensare le sue amiche se avessero
conosciuto l’entità dei pensieri che le vorticavano nella mente, « Mi dispiace
di averti pugnalata, okay? Mi dispiace che ti sia sentita tradita. Vorrei dirti
che davvero ho sofferto per te, ma so che non mi crederesti. Ora, ti prego,
lasciami sfogare in pace,» implorò per la prima volta guardandola negli occhi. Quello
sguardo fece quasi sobbalzare la bella vampira Originale, ma riuscì a
dissimulare la sorpresa come un semplice movimento del labbro superiore.
« Non pensavo fossi una ragazza che soffrisse per la fine di
una relazione,» replicò Rebekah, scrollando le spalle prima di volgere lo
sguardo verso l’uscita. Doveva tornare dai suoi familiari e dal pranzo strano
quanto inutile che li vedeva protagonisti. L’aveva voluto sua madre e,
soprattutto Niklaus e Mikael, avevano acconsentito senza replicare. Rebekah
aveva trovato l’idea praticamente assurda, a dire il vero, ma gli occhi tanto
simili ai suoi, eppure così diversi, di Niklaus l’avevano fatta desistere
dall’esplicarlo ad alta voce. Non l’aveva perdonato. Ci sarebbero voluti
decenni prima che Niklaus avesse potuto ottenere il suo perdono. Ma rimaneva
sempre suo fratello e non poteva abbandonarlo così, proprio nel momento del
bisogno.
« Non è per Stefan. Quella di allontanarsi è stata una
necessità per entrambi. Piango perché… perché lei è tornata. E io… io non
pensavo l’avrei più rivista, capisci?» No. Rebekah non capiva nulla di quello
che le stava dicendo. In fondo Rebekah non avrebbe potuto capire. Lei non aveva
una sorella, non l’aveva mai avuta, nemmeno in vita, « È ironico parlarne con
te. Che t’importa? Tu mi odi. O almeno mi detesti abbastanza da volermi
ammazzare. Quindi… quindi credo proprio che andrò a casa a farmi una tisana. Sperando
che questi due anni siano stati solo un incubo. Buona giornata,» le augurò
quasi divertita prima di uscire dai bagni. Rientrò nella sala principale e notò che la sua migliore
amica era ancora seduta al loro tavolo, le patatine fritte davanti a lei ancora
intatte e lo sguardo fisso sulla propria sinistra. La sua espressione era piena
di dispiacere e costernazione. Elena comprese subito a chi fossero rivolti i
suoi occhi limpidi. Lo comprese e per quello non si volse a osservare lei.
« Elena, senti,» incominciò Bonnie, tentando di farla
ragione. Non ci riusciva. Persino il pensiero di guardare sua sorella le
procurava un senso di spossamento immenso che non avrebbe mai saputo
sormontare. Poi, si domandava, perché doveva sempre compiere lei i primi passi.
In fondo era stata Phobe ad andarsene e Phobe sarebbe dovuta tornare da lei.
Fine del discorso. Prese il giubbotto di pelle nera, il suo preferito, e la
borsa della scuola « Aspetta, dai. Almeno parlale,» tentò la strega, ma senza
successo. Indossò velocemente il giubbotto, sollevandosi poi i capelli e
volgendo lo sguardo all’amica d’infanzia.
« Non posso,» sussurrò con le lacrime agli occhi e Bonnie le
credette. Le credette sul serio, « Devo andare a casa. Bonnie, per favore, io
devo andare a casa.»
« Va bene. Ho capito. Ti accompagno io,» esclamò la sua
migliore amica, afferrando anch’ella la borsa e lasciando i soldi sul tavolo. Non
l’avrebbe fatta guidare in quelle condizioni. Comprendeva bene che non sarebbe
stato il caso. E anche Elena dovette percepire il suo pensiero, poiché annuì distrattamente,
ben attenta a non rivolgere lo sguardo verso i tavoli centrali.
« Ecco a voi. Se volete altro,» mormorò cortesemente Matt
lasciando gli ultimi piatti al tavolo della famiglia Originale. Il che era
abbastanza ironico, ma era il suo lavoro e Matt lo faceva senza fiatare. Quello
che doveva essere il padre, un uomo alto, biondo, ben piazzato e con uno
sguardo, che assomigliava terribilmente a quello della sua unica figlia,
abbastanza inquietante, gli rivolse un mezzo sorriso di ringraziamento per poi
volgere lo sguardo dinanzi a sé. Verso la ragazza che si stava nuovamente
accomodando al tavolo, al fianco di sua madre, tra lei ed Elijah. Klaus era di
fronte a lei e accanto all’ibrido vi erano gli altri due fratelli.
« Da quando hai bisogno di andare in bagno, sorellina?»
domandò il ragazzo biondo, quello sulla ventina e che sembrava essere il più
giovane dei quattro a sua sorella che aveva le labbra schiuse in un sorriso
abbastanza soddisfatto.
« Da quando si fanno chiacchierate interessanti,» rispose
allegra, avvicinandosi il piatto contenente delle patate al curry e un
hamburger dietetico. Come se davvero avesse paura di rovinarsi il girovita, «
Matt, chi è quella ragazza?» gli domandò prima che si allontanasse troppo,
indicandogli quella che aveva appena soprannominato nella sua mente “la figliol
prodiga”. Era una bella ragazza, assomigliava poco alla doppelganger, tranne
che per gli occhi scuri. Quelli erano quasi identici. Una vera fortuna. Non
voleva avere altri rituali magici tra i piedi. Bastava il ritorno di sua madre
e suo padre a scombussolarle l’esistenza, così come l’amore ritrovato tra i due
genitori. Non che non ci credesse, ma era troppo strano.
« Nessuno che ti possa interessare,» le comunicò Matt e la
sua voce poteva apparire anche gentile e convincente. Era quello che le piaceva
del ragazzo. Sembrava sempre sincero e per lei, tanto abituato alle menzogne e
ai sotterfugi di Niklaus, era qualcosa di totalmente sconosciuto. Matt si
allontanò celermente, notando la ragazza che stava uscendo dal locale, « Elena,»
la chiamò quasi pregando che si fermasse e l’ascoltasse. Ma Elena aveva lo
sguardo basso e quello gli fece intuire tutto quanto.
« Scusa, Matt. Ti chiamo io,» mormorò la ragazza. Matt notò
che il suo cuore stava battendo troppo forte poiché aveva il respiro corto.
Come se avesse corso una maratona. La lasciò andare. Sarebbe stato impossibile
trattenerla ancora.
« Bon, dille che verrà questa sera,» comunicò dolcemente alla
Bennet. Bonnie gli rivolse un’occhiata quasi minacciosa, certamente contrariata. Sapeva bene
che non era compito di Bonnie comunicare a Elena una notizia del genere, e che
non era neanche il proprio, ma Phobe era come una sorella per lui, come Vicki.
E Matt non voleva vederla soffrire, « Le dispiace. E poi è sua sorella. Che
dovrebbe fare? Non parlarle per tutta la vita?» domandò esasperato per far
ragionare entrambe. Bonnie lo osservò per un istante, dubbiosa, poi annuì,
concordando con lui.
« Proverò a parlarle. Ma conosci Elena. È testarda,» mormorò
Bonnie prima di volgere lo sguardo a Phobe, dedicarle un breve sorriso di
bentornato e scomparire dietro la sua migliore amica. Matt guardò il grande
orologio dietro il bancone. Segnava che erano trascorsi un paio di minuti dalla
sua fine del suo turno di lavoro. Sciolse il noto del grembiule nero, lo adagiò
sul bancone facendo cenno a Nancy di metterlo via, poi si avvicinò velocemente
a Phobe intenta dissimulare il dolore sorseggiando l’aranciata.
« Non dovevi, Mattie,» lo ammonì dolcemente carezzandogli la
mano mentre si sedeva di fronte a lei, « Va tutto bene. La capisco,» continuò
veritiera. Oh se la capiva. Comprendeva benissimo il comportamento di Elena. La
sua reazione sarebbe stata la stessa, « Senti, io questa sera andrò a casa. Se
mi vorrà aprire, cercherò di spiegare le mie ragioni. Se non vorrà, beh…,» fece
una pausa imbarazzata prima che Matt le rivolgesse un sorriso aperto e sincero,
spronandola a continuare, « Potrei venire a stare da te? Solo per un po’. Giuro
che ti metterò in ordine la casa, laverò i piatti, farò la spesa e tutto quello
che vorrai. Mi basta solo il divano. Per favore,» lo pregò con i grandi occhi
da cerbiatta che tanto assomigliavano a quelli della sua sorellina minore di
tre anni. E Matt non aveva mai saputo dire di no a Elena. L’aveva amata troppo,
sia come fidanzata che come amica.
« Ma stai scherzando, Phobe? Sei mia sorella. Non ti farei
dormire sul divano per niente al mondo. Tu dormi nella stanza di Vicki,»
esclamò facendola sorridere di gioia, « E comunque, fidati di Elena. Per quanto
testarda possa essere, ti vuole un bene dell’anima. E Jeremy anche. Vedrai che
ti ascolteranno. Andrà tutto bene,» le promise dolcemente facendola sentire
bene. Matt sapeva sempre cosa dire con lei. Una qualità davvero rara.
« Sì, in un modo o nell’altro,» sospirò giocando con la cannuccia
dell’aranciata, « Alla fine si risolve tutto, no?» Matt sorrise,
incoraggiandola con il suo entusiasmo, e annuì. Peccato che non ne fosse
proprio tanto sicura.