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Autore: Viki_chan    07/02/2013    0 recensioni
Anna-chan, vent'anni, fotografa.
Questa è l'identità che il caso, l'ansia e alcuni "lost in translation" mi hanno portato a creare.
Tutto quello che viene dopo è un insieme di (s)fortunati eventi poco chiari, totalmente involontari e piuttosto divertenti. Di mezzo, oltre a una grande confusione, ci siamo io, la mia vita prima e la mia vita dopo l'incontro con i Super Junior. E l'amore, in tutte le forme che vivere a contatto con questi ragazzi mi ha permesso di conoscere.
#1: La clandestina;
#2: Mister Park...;
#3: Il lavoro extra...;
#4: L'interprete Siwon...;
#5: L'ospite inaspettato...;
#6: Il messaggio in codice...;
#7: SUKIRA...;
#8: Le diversità...;
#9: L'incubo, la canzone e...;
#10: Fantasticherie romantiche, differenze linguistiche e..;
#11: Gli angeli, l'assenza e...;
#12: L'attesa, la voce metallica e...;
#13: Gli sguardi, la cena e...;
#14: Le modelle, il chiarimento e...;
#15: l'incontro con Park, il Tokyo Dome e...;
#16: Il compagno di shopping...;
#17: Non Anna-chan, l'appartamento e...;
#18: Le terrine vuote, le forme e...;
#19: La cena, la trasformazione e gli abbracci;
#20: La valigia, Incheon e la scatola di scarpe;
#Epilogo
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Una serie di (s)fortunati eventi


Evento #1



Valigia.
Sì, la valigia c'è.
La vedo arrivare sul nastro trasportatore e mi sento già meglio. L'aeroporto Incheon è pieno di gente, in gran parte turisti e uomini d'affari in giacca e cravatta.
Incheon International, Seoul, Corea del Sud.
Io, la mia valigia, la mia borsa a tracolla piena fino all'orlo.
Dal mio volo sono scesi un grande numero di uomini eleganti, con il mio cappotto pesante e la mia sciarpa con i pon pon – tremendo regalo di Ayane-chan – mi sento una bambina dell'asilo.
Prendo il trolley dal nastro e mi avvicino al banco dei controlli, il numero 10. Accanto alla mia fila, al 9, un uomo e una donna cercano di tranquillizzare il loro bambino in lacrime.
Italiani.
Vorrei avvicinarmi e abbracciarli, è tantissimo tempo che non mi trovo in presenza di qualcuno che parla la mia stessa lingua.
Il banco 10 è il più efficiente: parto molto indietro alla famiglia del 9 eppure in un paio di minuti li raggiungo, qualche secondo e li supero, infine arrivo al banco.
L'ufficiale coreano mi ha già inquadrata non appena varco la linea gialla.
“Vengo da Tokyo” gli dico in giapponese appena apre bocca. L'uomo mi fa un cenno e gli porgo il documento. Lui legge il mio nome e mi guarda.
Bionda, occidentale. Non gli piaccio.
Mi chiede il biglietto in un giapponese accentato alla coreana. Parla in fretta e a bassa voce, sembra volermi mettere alla prova.
“E' una turista?” chiede diffidente.
“Sono qui per lavoro.”
Dopo l'ennesimo colpo, l'uomo è costretto a ridarmi i documenti. Lo saluto cordialmente e faccio un profondo inchino.
Il rispetto prima di tutto.
Mentre trascino la valigia verso il secondo sbarramento, mi viene il solito brutto pensiero: essere occidentale è sempre un problema. Lo era stato anche a Tokyo, all'inizio della mia meravigliosa vita giapponese.
Pensare alla città che mi sono appena lasciata alle spalle mi fa stare ancora peggio, così decido di aumentare il passo per gettarmi più in fretta tra le spire del gelato inverno coreano.
Il secondo controllo è una sorta di interrogatorio informale: l'agente, vedendo i miei tratti somatici, mi inizia a fare alcune domande in inglese. Rispondo con tranquillità e firmo alcuni documenti. Accanto a me, alla famiglia italiana del banco 9, non sembra andare così bene. Il padre, un uomo alto e magro, con una calvizie incipiente, sta guardando imbambolato l'agente di frontiera.
“Deve solo dichiarare di non avere con sé sostanze vietate o pericolose.” gli dico. La moglie mi guarda come se le avessi appena rivelato la strada per il paradiso.
Dopo aver sentito le mie parole, l'uomo si volta verso l'ufficiale e dice “I have nothing to declare” come se fosse il protagonista di Law & Order. La reazione dell'agente è immediata: compila in fretta il documento e glielo porge per firmarlo.
“Grazie.” mi dice la moglie mentre l'uomo sbriga le faccende. “Non ti abbiamo visto sul volo da Mosca, dove hai fatto scalo?”
“Non vengo dall'Italia.” le dico. Il figlio che culla tra le braccia sbadiglia sonoramente. “Arrivederci.”
La donna mi saluta e io mi inchino, ricordandomi solo un istante dopo che in Italia certe cose non si fanno.
Da troppo tempo sono lontana da casa.
Mentre mi avvicino all'uscita, un coreano in giacca e cravatta mi fa l'occhiolino. Spaventata, mi sistemo meglio la borsa a tracolla e aumento il passo.
Sola, in un paese straniero, l'ennesimo.
Il mio castello di bugie, alla fine, mi era caduto addosso.
Avevo lasciato l'Italia per vivere in Giappone, avevo trovato un lavoro e una casa, poi, tutto era andato a rotoli.
Per la mia famiglia, però, non era cambiato niente.
Avevo mentito, avevo evitato di dir loro che avevo perso il lavoro, che non avevo più soldi per vivere da sola e che mi ero fatta ospitare da Ayane-chan per un po'.
Due giorni prima del mio arrivo a Seoul, mi era scaduto il visto.
“Vai in Corea e nel frattempo chiedi un altro visto turistico, fanno tutti così.” mi aveva detto Ayane, la mia spalla destra in Giappone. “Se torni in Italia, ne sono convinta, non tornerai più.”
Aveva fin troppo ragione.
Pur di non tornare in Italia, l'avevo ascoltata.
Sono partita dal Narita Airport con in tasca i soldi per una notte in hotel, guadagnati in una giornata di volantinaggio vestita da fetta di pizza ed sono arrivata a Seoul.
Esco dall'aeroporto e salgo su una navetta per il centro, o almeno quello mi sembra di capire. Riesco ad arrivare in una zona molto trafficata, sepolta sotto una coltre di neve ghiacciata.
Non so dove sono e non so cosa fare.
L'unica cosa che mi viene in mente camminando sui marciapiedi lucidi di ghiaccio è di cercare un ristorante italiano.
Alla fine, il “Pompei” sembra un miraggio in mezzo a un mare di sconosciuti.
Il ristorante è già pieno di clienti e sui tavoli campeggiano già pizze giganti dall'aspetto invitante.
Non mangio da 12 ore e mi sembra di impazzire.
Entro, trolley gigante a seguito, e subito vengo intercettata da un cameriere che di italiano ha solo la bandierina sulla divisa. Mi dice qualcosa in coreano e io mi sento un po' morire dentro.
“Non parlo coreano.” gli dico in giapponese.
“Sei russa?”
No, sono solo bionda, vorrei dirgli. Anche se non sono di qui, so che per i coreani essere russa significa essere una prostituta. Un sinonimo tremendamente razzista.
 “Italiana.”
“Sei italiana?” chiede in italiano.
“Sì. Avrei bisogno di una dritta.”
Il ragazzo mi guarda e poi si volta verso il bancone per controllare che l'uomo – occidentale – e la donna – coreana – non ci stiano guardando.
“Non mangi quindi?”
“Si, anche.”
“Ti metto al tavolo più vicino alla cucina, però.”
Annuisco e mi faccio fare strada. Inutile dire che tutti gli avventori del locale ci stanno guardando. Quando passiamo davanti al bancone, l'uomo e la donna mi squadrano, poi si rivolgono al figlio con uno sguardo rassegnato.
“Qui.” dice lui indicandomi un tavolino in un angolo abbastanza scomodo del locale.
“Cosa vuoi?”
“Una margherita e un caffè. Avete il wi-fi?”
“Sì.”
“Perfetto.”
Il ragazzo fa un mezzo inchino e si allontana. Rimasta sola prendo il cellulare, mi connetto al wi-fi e scrivo a Ayane-chan.

 
SONO A SEOUL. TUTTO BENE. NON SO DOVE DORMIRE.

Pochi istanti dopo, Ayane mi risponde:
 
CERCO UN HOTEL VICINO A DOVE SEI. MANDAMI LA TUA POSIZIONE. STAI TRANQUILLA, PARLA SEMPRE GIAPPONESE.

Sto per rispondere quando sento la sedia di fronte alla mia spostarsi. Alzo lo sguardo e trovo l'uomo che prima stava dietro al bancone che mi fissa.
“Cosa ha combinato questa volta?” mi chiede in italiano, con accento toscano.
“Chi?”
“Lee, mio figlio. Ti ha messa incinta?”
“NO!” sbotto. “Io non so chi sia Lee.”
Il volto dell'uomo si rilassa appena.
“Chi sei allora?”
“Vengo dal Giappone. Sto cercando un posto per dormire e avevo fame.”
“E' una bugia?” mi chiede in giapponese.
“Assolutamente no. Il ragazzo mi ha fatto accomodare e ha preso la mia ordinazione. Ho solo bisogno di mangiare e di una connessione internet.” dico in fretta, sicura, con il mio miglior accento di Tokyo. Mi sembra di averlo convinto.
“C'è una guest house qui a due passi. E' un po' spartana, ma se dici che ti manda Sandro, troveranno un posto per te. Però da qui te ne devi andare subito, stai attirando troppo l'attenzione.” dice in italiano, poi estrae di tasca un blocchetto per le ordinazioni e inizia a scrivere qualcosa in hangul.
“Esci, cammina per cento metri e prendi la prima a destra. L'insegna è azzurra e bianca. Dai questo alla donna al bancone. Buona fortuna.”


Cacciata via.
Dopo aver seguito le istruzioni dell'intrattabile Sandro, arrivo alla guest house. La proprietaria sembra non saper parlare nessuna lingua tranne il dialetto di Seoul, così le consegno il biglietto del ristoratore e mi inchino. Lei lo legge, fa un mezzo inchino e sparisce dietro al bancone, per poi ricomparire con una chiave in mano. La stanza che mi apre è uno squallido quadrato di muri scrostati. Le dico arigatou e lei si inchina ancora, poi se ne va.
Un tetto, almeno quello.
Appoggio la borsa al letto e faccio un giro di perlustrazione. La doccia è privata, il bagno, invece, deve essere fuori dalla stanza. Mi scappa la pipì, ma l'idea di dover usare un bagno pubblico mi addormenta la vescica. Sembra che la stanza non venga pulita con cura da una vita.
La prima cosa che faccio è accendere il computer portatile e cercare una connessione internet.
Stanza che cade a pezzi e connessione wi-fi super veloce.
Paradossi orientali.
Cerco Ayane-chan su Skype, mi risponde al primo squillo e accende la webcam.
Il suo visino sorridente mi mette di buon umore.
“Dove sei?”
“In una guest house un po' malconcia, ma almeno ho un tetto sopra alla testa.”
“Come hai fatto a trovare quel posto?”
“Un italiano mi ha aiutata.” mi limito a dire, anche se avrei altri commenti da fare. “E' una soluzione temporanea.”
Ayane mi guarda, poi si prende una ciocca di invidiabili e liscissimi capelli neri e se la arrotola su un dito, in meditazione.
“E poi, che farai domani?”
“Non lo so: non sono mai stata a Seoul, non ho soldi, non ho un lavoro e le uniche parole in coreano che conosco sono “oppa” e i titoli delle canzoni dei Super Junior.”
Hey, I'm Mister Simple.” commenta lei con una faccia sexy, facendomi ridere.
Anche lei ride per qualche secondo, poi si blocca e diventa seria.
“Che c'è?”
“La SM entertainment è a Seoul.”
“La SM? E cosa c'entra?”
“Magari hanno bisogno di una berra itariana.” le ultime due parole le dice in un buffo italiano storpiato.
“Non so ne cantare, ne ballare, ne recitare. Una berra itariana inutile, insomma. Neanche tanto berra.”
Ayane non mi sta più ascoltando, ma batte le dita in modo frenetico sulla tastiera.
“Ti ho inviato l'indirizzo.” dice poi. “Vai là e inventati qualcosa. Tanto non hai nulla da perdere. E mi raccomando...”
“Parla sempre giapponese.” diciamo in coro. “Ho capito. Nel frattempo, magari, cerco di imparare qualche parola in coreano.”
“Ok, oppa.” risponde lei mostrandomi indice e medio alzati alla webcam. “Ci sentiamo domani.”
“Ciao.”

 
   
 
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