Ed eccoci qua di nuovo con un altro capitolo.
Questa volta il "ritardo" è colpa della Durrie che non è riuscita a betare prima, e che chiede venia.
Le cene di famiglia sono un classico quando ritorna un parente, no?
Ecco, nemmeno Eve e i suoi fanno eccezione.
Buona lettura!
Durrie e Donnie
Anelli di cipolla
Capitolo 4: La bambina nel pozzo.
«Scusi, signorina Louise, mi saprebbe
cortesemente dire che cosa diamine è questa poltiglia marrone-giallastro che mi
ha appena messo nel piatto? E soprattutto, cosa sono quelle cose verdi che ci
galleggiano dentro?»
La cameriera aveva finito il giro della tavola imbandita e, servendomi per
ultima come da consuetudine –sentivo ancora la mia vecchia istitutrice che
starnazzava «prima il capofamiglia, poi sua moglie, poi i figli in ordine di
età!»–mi aveva appena rovesciato una specie di zuppa dalla consistenza
sospettosamente simile alla diarrea nella fondina.
E io avevo lo stomaco che
già faticava a dir poco a contenere tutto quel delizioso cibo
francese che avevo già mangiato.
«Sacrebleu, Evelinà! È fricassée au tourain, non ti
ricordi di quando l’hai mangiata dai nonni su a Poitiers, qualche estate fa?»
rispose mia madre al posto della cameriera.
«Mà, probabilmente ho rimosso l’episodio per riuscire a dormire la notte.»
Come avrò occasioni infinite di ripetere, la mia boccaccia sarcastica è decisamente
troppo larga, e soprattutto inappropriata.
Mia madre si fermò, con la mascella
semipendente di lato e gli occhi azzurri letteralmente ghiacciati, le nocche
che sbiancarono pian piano strette intorno alla cuillière d’argent.
Mio padre e Tosca interruppero bruscamente
le loro chiacchiere leggere sulla vita universitaria e Gualtiero deglutì
rumorosamente, teso.
Sulla tavolata era improvvisamente calato un inquietante silenzio di tomba (non
che prima ci fosse tanto rumore), ed ero certa che ora si sarebbe potuta
sentire una mosca che si scaccolava in un angolo della stanza.
La vocina nella mia testa rise, compiaciuta. La zittii con un pensiero
violento, l’equivalente psichico di un gancio ben assestato, quando capii cosa
mi aveva fatto fare.
Di nuovo.
Si mette male per la nostra eroina. Prepararsi all’esplosione. 3, 2, 1….
«Effettivamente ha un aspetto davvero orribile, però sforzati di mangiarla, che
Louise si è impegnata tanto a cucinarla!»
«Non me ne frega un cazzo dei tuoi rimpr…aspetta aspetta cosa hai detto?»
Mi aveva preso in contropiede.
«Che in ogni caso è meglio che la mangi, almeno per rispetto al lavoro di
Louise! E non dire cazzo, per piacere.»
Freeeena frena frena. Chi era quel mostro dall’aspetto gentile che aveva preso
il posto della mia stronzissima madre, Madame Lisotte Marie
Angeline Geneviève de Poitou-Montmayeur? Chi cavolo era quella
persona che non mi stava sclerando dietro perché avevo insultato un piatto
di haute cuisine? La cosa non aveva nessun senso, nessuno.
Avevo detto “cazzo” a tavola e non mi aveva ancora tirato un ceffone di quelli
dei suoi, stronzi, appesantiti da tutti i suoi anelli. Avevo più o meno
insinuato che la cucina francese facesse schifo ed ero ancora integra.
«Wo.»
«Come scusa?»
«Uhm, no nulla. Beh, grazie mille.» Aggiunsi rivolta alla cameriera, che
assentì con un cenno del capo, impassibile.
Avrei tanto voluto che ci fosse stata Giulia di turno in quel momento.
La situazione era decisamente troppo strana, quindi cercai una distrazione.
«Uhm, Tosh, che mi racconti dall’università?»
Mi parve che stesse fissando mia madre come se fosse appena sopravvissuta ad un
disastro nucleare. Si girò rapida verso di me quando le parlai, ogni traccia di
un qualsiasi sguardo strano -che probabilmente mi ero immaginata- sparita,
sostituita dal più caldo dei sorrisi.
Ancora una volta, non potei fare a meno di sorriderle.
«Oh, beh, che dire di nuovo? Potrei dirti che ho
appena passato un esame con trenta e lode, ma non penso che ti sorprenderesti
più di tanto!» rise, coinvolgendo tutta la tavolata, calorosa ed unita come non
lo era mai stata.
Era vero, lei era sempre stata una tale
secchiona che non ci si sorprendeva più di nulla, sarebbe stato a dir poco
sconvolgente sapere che aveva preso un ventotto.
«E invece tu, Eve, tieni alto l’onore di
famiglia scolasticamente parlando?»
Lei era l’unica De Cervis che aveva accettato di
usare il mio classico nomignolo, nonostante tutti quanti fossero perfettamente
a conoscenza di quanto odiassi il nome completo.
«Possiamo dire che nell’ultima verifica di
filosofia su Socrate, sapevo di non sapere, ecco.»
Quel freddo venerdì di Dicembre era un giorno
veramente fausto ed eccezionale.
Lei rise di gusto buttando indietro la chioma
bionda e perfetta, gli occhi verdi e limpidi che mandavano lampi di allegria.
Mio padre abbozzò un sorriso, mia madre palesemente non afferrò la battuta
sull’aforisma socratico ma ridacchiò comunque per non essere da meno, e persino
Gualtiero alzò gli occhi al cielo divertito.
Tosh riprese. «In ogni caso, occhio che se mi
finisci come l’anno scorso che ti hanno rimandata in matematica potrei decidere
di non portarti più nessun regalo», aggiunse facendomi l’occhiolino.
«Regali? Chi ha parlato di regali? Che
regali?»
Ommioddio, la parola regalo mi mandava in estasi
diretta, specie se veniva dalla bocca di mia sorella.
Dotata di una carta di credito pressoché
infinita, e maniaca dei negozietti minuscoli iperspecializzati e delle aste
d’antichità come era lei, ogni suo regalo era un piccolo tesoro al di là del
suo valore effettivo.
Indimenticabile l’anno in cui mi aveva
regalato un pugnale da cerimonia risalente al Medioevo, con l’elsa di ebano e
cuoio, la guardia in foglia d’oro tutta cesellata a motivi floreali, e un
cristallo di ematite (la mia pietra preferita) incastonata nel pomolo. Ero
letteralmente impazzita dalla felicità, e l’arma fece subito bella mostra di sé
al posto d’onore nella libreria in camera mia, ben conservata nel fodero
originale ma perfettamente restaurato. Unica pecca era una tacca a forma di cuneo
su uno dei fili della lama, ma ciò gli donava solo quell’aria da “stravissuto”
che mi faceva andare indietro nei secoli ogni volta che la sfioravo col
pollice.
«Calma, ti posso dire solo che c’è un
pacchettino blu e verde con un bigliettino con una E scritta sopra che ti
aspetta sotto l’albero, ma devi aspettare Natale per aprirlo!»
«Posso aprirlo quando è Natale con fuso orario australiano?»
«Eh no, aspetti la mezzanotte del 24 come tutti, nessuna eccezione nemmeno per
te!»
La conversazione a tavola procedette di
buon grado per una ventina di minuti, si mangiava, si parlava del più e del
meno. Ma si sa, tutto è destinato a crollare nella mia vita.
«Siamo di buon umore oggi, neh, signorina?»
La domanda, innocentissima, veniva dalla voce profonda di mio padre, un
omaccione di due metri con le spalle larghe come un armadio, che però manteneva
sempre un comportamento così impassibile ed educato da farlo sembrare più
fragile di quanto non fosse in realtà.
La sua domanda, teoricamente retorica, aveva una sfumatura strana, come se gli
interessasse sapere se ero davvero di buon umore.
«Non so, oggi ho visto una ragazza sull’autobus che piangeva, e le ho dato il
mio fazzoletto. Forse è il karma che mi ripaga per la mia buona azione!»
Ignoro ancora oggi perché glielo dissi, ma quel giorno doveva essere davvero
incredibilmente fuori dal normale, probabilmente un allineamento del Sole. La
mia famiglia mi voleva bene, ero felice e potevo essere tranquillamente me
stessa.
«Non avrai mica dato il tuo fazzoletto di
lino coi ricami in seta ad una perfetta sconosciuta?» saltò su incazzatissima
mia madre, e stava per aggiungere altro quando la manona di Raffaele le prese
la spalla e la strinse, rapida, e con gli occhi le disse “no”. Mia madre si
portò una mano alla bocca, quasi che avesse detto qualcosa di troppo, e mi
fissò impaurita.
Non capii il suo sguardo, ma persi ogni illusione che poteva essermi cresciuta
dentro.
«Beh, in fondo, Eve, hai fatto bene, bisogna essere gentili
coi meno fortunati.»
Si sentiva che ogni parola faticava ad uscirle dalla gola, talmente erano
false. Sentii che avrebbe voluto farmi la predica, ma si trattenne, voleva
riportare l’allegria su quella tavola.
Mi avevano ingannato, non sapevo perché,
ignoravo cosa mi nascondessero, ma mi avevano dato l’illusione di poter essere
felice con loro per poi strapparmela brutalmente di mano.
Ormai tutto era rovinato, uno specchio incrinato, eravamo di nuovo alla solita
tensione tra i due capi del tavolo ma subito Gualtiero, e dico Gualtiero,
cercò di ricomporlo.
«Dimmi, Evelina, come sta andando quella ricerca di storia a cui stai
lavorando?»
«Bene.»
Non ci cascai più. L’idillio era svanito,
l’incanto spezzato. Cercai di trattenermi dal fare qualsiasi cosa. Sentivo la
loro falsità che mi macchiava la pelle. Ritornai al mio solito cocciuto
mutismo.
«E cosa hai fatto oggi a scuola, dai?»
«Niente.»
Ero solo così delusa da loro, probabilmente stavano solo cercando di rabbonirmi
per riuscire a passare un Natale felice come famiglia, darmi dei regali costosi
e pensare di comprarsi così il mio affetto.
L’ennesima fottuta illusione di una felicità che non mi apparteneva. La
ricchezza in cui sono cresciuta non racconta il disagio che ho dentro.
Questa è solo una volta come tante, mi
dicevo, una volta delle tante in cui io tornavo indietro.
Tornavo quella bambina bionda, con il
vestitino e le treccine e le scarpine, che giocava nel grande giardino ombroso
di casa sua una mattina d’estate.
Tornavo quella bambina che giocava sul
bordo del pozzo, che scivolava, che batteva la testa sul fondo asciutto da
anni.
Tornavo quella bambina si svegliava dopo chissà quanto, che piangeva e urlava
finché poteva, finché ne aveva la forza, ma che nessuno era lì per sentire.
Tornavo quella bambina che avevano
tirato fuori dal pozzo per miracolo dopo quasi otto ore, quando finalmente
qualcuno si era accorto della sua assenza.
Tornavo quella bambina che si era salvata perché
il giardiniere stava potando le piante vicino al gazebo, e aveva sentito un suo
lamento.
Tornavo quella bambina che non capiva perché
nessuno si era chiesto dove fosse, visto che non era venuta a pranzo e nessuno
l’aveva più vista dopo la colazione.
Tornavo quella bambina che sentiva di sfuggita
il suono dell’ambulanza, aveva perso troppo sangue, la vita che le stava
scivolando via.
Tornavo quella bambina che era sopravvissuta.
Ma quel giorno, dentro di me, qualcosa si era
rotto, e non si era mai più aggiustato.
Credo si chiamasse fiducia, o forse
amore per la famiglia.
Avevo l’impellente desiderio di alzarmi da tavola, non
so quanto avrei tollerato ancora di stare in mezzo a loro.
Tosca mi guardava preoccupata, sapeva che ero a tanto così dal mettermi ad
urlare. Ma non lo feci. Strinsi forte il coltello della carne, perdendomi nella
luminosità argentata che splendeva ogni volta che la lama riuscita a catturare
la luce delle lampade.
Mi concentrai sulla superficie del metallo. Era così
lucido che rifletteva i miei occhi, che in quel momento erano di un grigio
freddo.
Sentii che qualcuno parlava, non ascoltai nemmeno, le nocche che sbiancavano
per la forza della presa.
«Ne ho abbastanza di tu che ti comporti così, cazzo!»
Era Gualtiero questo, che, bravo figlio di sua madre, era totalmente stizzito
dalla mia assenza di comunicazione.
«Problemi?»
Gualtiero, caro Gualtiero, lo sai che ci sono sfide che non puoi vincere, non
con me.
«Senti, stronzetta, almeno le tue cazzo di turbe
tienitele per te, a qui nessuno gliene fotte un cazzo se hai la sindrome
premestruale o che cazzo ne so io, almeno fingi di essere educata un minimo,
cristo santo! Ti rendi conto che ci stai rovinando la vita? Cavolo, noi
potremmo essere la famiglia perfetta, ma NO, ci devi essere tu, la stracazzo di
pecora nera di turno, che ci rovina sempre tutto.»
«Gualtiero, ricomponiti.»
Il tono di mio padre era tagliente, a denti stretti, carico di un’urgenza che
non compresi.
«No, non mi ricompongo un bel niente, perché mi sono rotto di dover sopportare
sempre che quella lì faccia il bello e il cattivo tempo! Noi abbiamo il diritto
ad essere felici, e lei ce lo porta sempre via, e ora lo dico e ora lo ripeto,
no, papyno, non me ne fotte delle conseguenze, io sono stufo!»
Si era alzato in piedi, appoggiandosi con le mani al tavolo, e stava
praticamente urlando come una checca isterica, nonostante tutti cercassero di
farlo sedere, di farlo ragionare, di farlo stare zitto.
Continuava a parlare e ad insultarmi, ma oramai afferravo
solo pezzi di frase.
«Inutile…»
«…senza futuro…»
«…peso per tutti noi.»
Ero fuori dal mio corpo, completamente estranea alla vicenda. Non riuscivo
nemmeno a percepire chiaramente la rabbia che provavo, mi arrivava in sordina.
Io ero nel mio mondo, uno spazio bianco infinito e desolato, senza cielo né
terra. Coglievo appena quello che i miei che dicevano a mio fratello, guardavo
ma non vedevo davvero Tosca che si copriva la bocca con la mano. Sentii
sfrigolare qualcosa, puzza di bruciato.
Non parlai. La tensione mi stava logorando, dovevo fare qualcosa per spezzarla.
Agii d’istinto.
Mi alzai, piantai il coltello di punta nel tavolo, con violenza, lacerando la
tovaglia. La lama rimase conficcata a fondo nel legno, tremando leggermente.
Scappai.
Fuori dalla sala iniziai a correre. Sulle scale stavo
praticamente volando.
Intravidi appena appena la figura di Giulia al lato del mio campo visivo, una
domanda senza voce sulle labbra, che cercava di fermarmi.
La ignorai, e tirai dritto. Entrai in camera mia e sbattei la porta della
camera con tanta violenza da far tremare il muro.
Mi ci appoggiai, cercando di calmare i primi singhiozzi che stavano iniziando a
scuotermi. Lentamente, scivolai in basso lungo la parete, arrivando a sbattere
il culo per terra, la testa tra le gambe.
Che.
Cazzo.
Avevo.
Appena.
Fatto.
Le lacrime seguirono presto i singhiozzi. Piansi per
un tempo indefinito, non capivo più nulla. Piansi per me, egoisticamente. Perché
Gualtiero aveva ragione, ero sempre io col mio carattere di merda, quella che rovinava
tutto. A tentoni, resa cieca dalle lacrime, afferrai un pacco di fazzoletti
dalla borsa che avevo mollato lì quando ero tornata da scuola, e cercai di
soffiare via il dolore assieme al moccio.
Una fitta improvvisa in mezzo agli
occhi. Passai il dorso della
mano sotto il naso.
Sangue.
Fantastico, davvero, un momento eccezionale per
uno dei miei soliti attacchi di epistassi.
Cercai di alzarmi per andare a cercare un altro
pacchetto, ma alla fine optai per trascinarmi letteralmente fino al bagno e mi sedetti
sulla tazza del cesso, col coperchio chiuso.
La testa buttata indietro, la schiena appoggiata
al muro piastrellato gelido, una mano a premere il naso per arrestare
l’emorragia, anche se ad essere obiettivi i continui singhiozzi non aiutavano
affatto. Stavo una vera merda. Abbassai un po’ il capo, evitando accuratamente
di guardarmi nello specchio alla parete. Non avevo proprio voglia di vedermi in
quello stato, che immaginavo non fosse la mia forma migliore. Ero fuori di
me. Non respiravo, aspiravo aria con un gorgoglìo, non avevo ossigeno al
cervello. Dopo un po’ iniziai a calmarmi, lo stomaco smise di dirmi che
ero una deficiente, le lacrime si seccarono, gli spasmi si tranquillizzavano e
il sangue si coagulò, lasciandomi solo un sapore di terra e metallo e perdita in
bocca.
Non so esattamente come, ma riuscii a sfilarmi la
maglia e i pantaloni, a mettermi il pigiama, e a infilarmi a letto. Non avevo
né la voglia né la forza di pensare. Mi sentivo semplicemente vuota. Il
dolore se n’era andato e aveva lasciato il nulla dietro di sé. Iniziai a
fissare l’affresco sul soffitto, un pantheon di dei greci un po’ sbiadito, e
per distrarmi iniziai ad identificarli.
Quello i calzari alati è Mercurio, quello con l’elmo e l’abito nero è Ade,
quella con la coppa è Ebe, quella con l’arco è Artemide...il sonno stava
finalmente accogliendo il mio oblio.
Qualcuno bussò delicatamente alla porta, strappandomi dal dormiveglia.
«Hey…posso entrare?»
Era Tosca.
«Entra.»
Parlare mi fece raschiare la gola, il suono
della mia voce era orribile.
Cercai di darmi una sistemata, ma sapevo che ero
pesta, rossa e gonfia, per cui mi limitai a scostarmi il ciuffo dal viso e a
tirarmi su dai cuscini.
Tosca aprì la porta, rimanendo sulla
soglia, in controluce. Era in pigiama pure lei, solo che al contrario di me
sembrava uscita dalle pagine patinate di una rivista di moda, anche se era
viola e la maglia aveva stampato un orsacchiotto con la scritta “Abbracciami
forte”.
«Vorrei chiederti come stai, ma ho idea che sarebbe
una domanda alquanto stupida», disse, abbozzando un sorriso amaro.
Non risposi.
«E, insomma, non mi sembra giusto che tu debba
soffrire così tanto. Ci sono io per te, ok? Sempre, anche quando sto a Venezia,
ci tengo che tu lo sappia, ecco.»
Si passò una mano tra i capelli,
timidamente. Continuai a fissarla in silenzio.
«Senti, piuttosto, vuoi un po’ di
compagnia per dormire stanotte? Non me la sento di lasciarti sola…d’altronde
sono la tua sorellona, è a questo che servo, no?»
Sorrise, anche se aveva gli occhi lucidi.
Non ci fu bisogno che le dicessi nulla.
Non feci a tempo a scostare le coperte per farla entrare nel letto che lei
aveva già chiuso la porta, piano.
Non mi fece altre domande, sapeva che non ero in
condizioni di parlare.
Si infilò sotto il piumone con me, e mi offrì il suo abbraccio caldo e protettivo.
Mi appoggiai contro il suo seno morbido, esausta, mentre lei mi cantava una
dolce ninna nanna, accarezzandomi la testa.
E il sonno, finalmente, mi vinse.