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Autore: Il_Club_Delle_Felci    10/02/2013    1 recensioni
Lei è la classica pecora nera, lei è la non voluta.
Lei è una potenza gelida e distruttiva, lei è la non amata.
Lei è sarcasmo allo stato puro, lei è solo una ragazza.
Lei ha un nome, si chiama Eve.
Ma questa lei ha anche dei sentimenti.
E, sorprendentemente, saranno degli anelli di cipolla a costringerla a rivelarli.
Muovendosi in una città fuori dal tempo, riuscirà Eve a scoprire il suo destino trovando finalmente il suo passato?
FF scritta a 4 mani :3
Ci troverete anche l'ammhore e parecchio sarcasmo.
Durrie e Donnie
(questa storia è stata pubblicata su altri siti con account diversi, quindi NON DENUNCIATECI PER PLAGIO, siamo sempre noi due!)
OGNI 100 VISUALIZZAZIONI VI PERVERRA' UN SIMPATICO VIDEO IN CUI DAREMO SFOGO ALLA NOSTRA DEFICIENZA BALLANDO PER IL VOSTRO DILETTO.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Anelli di cipolla 4

Ed eccoci qua di nuovo con un altro capitolo.
Questa volta il "ritardo" è colpa della Durrie che non è riuscita a betare prima, e che chiede venia.

Le cene di famiglia sono un classico quando ritorna un parente, no?
Ecco, nemmeno Eve e i suoi fanno eccezione.

Buona lettura!

Durrie e Donnie

Anelli di cipolla

Capitolo 4: La bambina nel pozzo.

«Scusi, signorina Louise, mi saprebbe cortesemente dire che cosa diamine è questa poltiglia marrone-giallastro che mi ha appena messo nel piatto? E soprattutto, cosa sono quelle cose verdi che ci galleggiano dentro?»
La cameriera aveva finito il giro della tavola imbandita e, servendomi per ultima come da consuetudine –sentivo ancora la mia vecchia istitutrice che starnazzava «prima il capofamiglia, poi sua moglie, poi i figli in ordine di età!»–mi aveva appena rovesciato una specie di zuppa dalla consistenza sospettosamente simile alla diarrea nella fondina.
E io avevo lo stomaco che già faticava a dir poco a contenere tutto quel delizioso cibo francese che avevo già mangiato. 
«Sacrebleu, Evelinà! È fricassée au tourain, non ti ricordi di quando l’hai mangiata dai nonni su a Poitiers, qualche estate fa?» rispose mia madre al posto della cameriera.
«Mà, probabilmente ho rimosso l’episodio per riuscire a dormire la notte.»
Come avrò occasioni infinite di ripetere, la mia boccaccia sarcastica è decisamente troppo larga, e soprattutto inappropriata.
Mia madre si fermò, con la mascella semipendente di lato e gli occhi azzurri letteralmente ghiacciati, le nocche che sbiancarono pian piano strette intorno alla cuillière d’argent.
Mio padre e Tosca interruppero bruscamente le loro chiacchiere leggere sulla vita universitaria e Gualtiero deglutì rumorosamente, teso.
Sulla tavolata era improvvisamente calato un inquietante silenzio di tomba (non che prima ci fosse tanto rumore), ed ero certa che ora si sarebbe potuta sentire una mosca che si scaccolava in un angolo della stanza.
La vocina nella mia testa rise, compiaciuta. La zittii con un pensiero violento, l’equivalente psichico di un gancio ben assestato, quando capii cosa mi aveva fatto fare.
Di nuovo.
Si mette male per la nostra eroina. Prepararsi all’esplosione. 3, 2, 1….
«Effettivamente ha un aspetto davvero orribile, però sforzati di mangiarla, che Louise si è impegnata tanto a cucinarla!» 
«Non me ne frega un cazzo dei tuoi rimpr…aspetta aspetta cosa hai detto?»
Mi aveva preso in contropiede.
«Che in ogni caso è meglio che la mangi, almeno per rispetto al lavoro di Louise! E non dire cazzo, per piacere.»
Freeeena frena frena. Chi era quel mostro dall’aspetto gentile che aveva preso il posto della mia stronzissima madre, Madame Lisotte Marie Angeline Geneviève de Poitou-Montmayeur? Chi cavolo era quella persona che non mi stava sclerando dietro perché avevo insultato un piatto di haute cuisine? La cosa non aveva nessun senso, nessuno.
Avevo detto “cazzo” a tavola e non mi aveva ancora tirato un ceffone di quelli dei suoi, stronzi, appesantiti da tutti i suoi anelli. Avevo più o meno insinuato che la cucina francese facesse schifo ed ero ancora integra.
«Wo.»
«Come scusa?»
«Uhm, no nulla. Beh, grazie mille.» Aggiunsi rivolta alla cameriera, che assentì con un cenno del capo, impassibile.
Avrei tanto voluto che ci fosse stata Giulia di turno in quel momento.
La situazione era decisamente troppo strana, quindi cercai una distrazione.
«Uhm, Tosh, che mi racconti dall’università?»
Mi parve che stesse fissando mia madre come se fosse appena sopravvissuta ad un disastro nucleare. Si girò rapida verso di me quando le parlai, ogni traccia di un qualsiasi sguardo strano -che probabilmente mi ero immaginata- sparita, sostituita dal più caldo dei sorrisi. 
Ancora una volta, non potei fare a meno di sorriderle.
«Oh, beh, che dire di nuovo? Potrei dirti che ho appena passato un esame con trenta e lode, ma non penso che ti sorprenderesti più di tanto!» rise, coinvolgendo tutta la tavolata, calorosa ed unita come non lo era mai stata.
Era vero, lei era sempre stata una tale secchiona che non ci si sorprendeva più di nulla, sarebbe stato a dir poco sconvolgente sapere che aveva preso un ventotto.
«E invece tu, Eve, tieni alto l’onore di famiglia scolasticamente parlando?»
Lei era l’unica De Cervis che aveva accettato di usare il mio classico nomignolo, nonostante tutti quanti fossero perfettamente a conoscenza di quanto odiassi il nome completo.
«Possiamo dire che nell’ultima verifica di filosofia su Socrate, sapevo di non sapere, ecco.»
Quel freddo venerdì di Dicembre era un giorno veramente fausto ed eccezionale.
Lei rise di gusto buttando indietro la chioma bionda e perfetta, gli occhi verdi e limpidi che mandavano lampi di allegria. Mio padre abbozzò un sorriso, mia madre palesemente non afferrò la battuta sull’aforisma socratico ma ridacchiò comunque per non essere da meno, e persino Gualtiero alzò gli occhi al cielo divertito.
Tosh riprese. «In ogni caso, occhio che se mi finisci come l’anno scorso che ti hanno rimandata in matematica potrei decidere di non portarti più nessun regalo», aggiunse facendomi l’occhiolino.
«Regali? Chi ha parlato di regali? Che regali?» 
Ommioddio, la parola regalo mi mandava in estasi diretta, specie se veniva dalla bocca di mia sorella.
Dotata di una carta di credito pressoché infinita, e maniaca dei negozietti minuscoli iperspecializzati e delle aste d’antichità come era lei, ogni suo regalo era un piccolo tesoro al di là del suo valore effettivo.
Indimenticabile l’anno in cui mi aveva regalato un pugnale da cerimonia risalente al Medioevo, con l’elsa di ebano e cuoio, la guardia in foglia d’oro tutta cesellata a motivi floreali, e un cristallo di ematite (la mia pietra preferita) incastonata nel pomolo. Ero letteralmente impazzita dalla felicità, e l’arma fece subito bella mostra di sé al posto d’onore nella libreria in camera mia, ben conservata nel fodero originale ma perfettamente restaurato. Unica pecca era una tacca a forma di cuneo su uno dei fili della lama, ma ciò gli donava solo quell’aria da “stravissuto” che mi faceva andare indietro nei secoli ogni volta che la sfioravo col pollice.
«Calma, ti posso dire solo che c’è un pacchettino blu e verde con un bigliettino con una E scritta sopra che ti aspetta sotto l’albero, ma devi aspettare Natale per aprirlo!»
«Posso aprirlo quando è Natale con fuso orario australiano?»
«Eh no, aspetti la mezzanotte del 24 come tutti, nessuna eccezione nemmeno per te!»
La conversazione a tavola procedette di buon grado per una ventina di minuti, si mangiava, si parlava del più e del meno. Ma si sa, tutto è destinato a crollare nella mia vita.
«Siamo di buon umore oggi, neh, signorina?»
La domanda, innocentissima, veniva dalla voce profonda di mio padre, un omaccione di due metri con le spalle larghe come un armadio, che però manteneva sempre un comportamento così impassibile ed educato da farlo sembrare più fragile di quanto non fosse in realtà. 
La sua domanda, teoricamente retorica, aveva una sfumatura strana, come se gli interessasse sapere se ero davvero di buon umore.
«Non so, oggi ho visto una ragazza sull’autobus che piangeva, e le ho dato il mio fazzoletto. Forse è il karma che mi ripaga per la mia buona azione!»
Ignoro ancora oggi perché glielo dissi, ma quel giorno doveva essere davvero incredibilmente fuori dal normale, probabilmente un allineamento del Sole. La mia famiglia mi voleva bene, ero felice e potevo essere tranquillamente me stessa.
«Non avrai mica dato il tuo fazzoletto di lino coi ricami in seta ad una perfetta sconosciuta?» saltò su incazzatissima mia madre, e stava per aggiungere altro quando la manona di Raffaele le prese la spalla e la strinse, rapida, e con gli occhi le disse “no”. Mia madre si portò una mano alla bocca, quasi che avesse detto qualcosa di troppo, e mi fissò impaurita.
Non capii il suo sguardo, ma persi ogni illusione che poteva essermi cresciuta dentro.
«Beh, in fondo, Eve, hai fatto bene, bisogna essere gentili coi meno fortunati.»
Si sentiva che ogni parola faticava ad uscirle dalla gola, talmente erano false. Sentii che avrebbe voluto farmi la predica, ma si trattenne, voleva riportare l’allegria su quella tavola.
Mi avevano ingannato, non sapevo perché, ignoravo cosa mi nascondessero, ma mi avevano dato l’illusione di poter essere felice con loro per poi strapparmela brutalmente di mano.
Ormai tutto era rovinato, uno specchio incrinato, eravamo di nuovo alla solita tensione tra i due capi del tavolo ma subito Gualtiero, e dico Gualtiero, cercò di ricomporlo.
«Dimmi, Evelina, come sta andando quella ricerca di storia a cui stai lavorando?»
«Bene.»
Non ci cascai più. L’idillio era svanito, l’incanto spezzato. Cercai di trattenermi dal fare qualsiasi cosa. Sentivo la loro falsità che mi macchiava la pelle. Ritornai al mio solito cocciuto mutismo.
«E cosa hai fatto oggi a scuola, dai?»
«Niente.»
Ero solo così delusa da loro, probabilmente stavano solo cercando di rabbonirmi per riuscire a passare un Natale felice come famiglia, darmi dei regali costosi e pensare di comprarsi così il mio affetto.
L’ennesima fottuta illusione di una felicità che non mi apparteneva. La ricchezza in cui sono cresciuta non racconta il disagio che ho dentro.
Questa è solo una volta come tante, mi dicevo, una volta delle tante in cui io tornavo indietro.

Tornavo quella bambina bionda, con il vestitino e le treccine e le scarpine, che giocava nel grande giardino ombroso di casa sua una mattina d’estate.
Tornavo quella bambina che giocava sul bordo del pozzo, che scivolava, che batteva la testa sul fondo asciutto da anni.
Tornavo quella bambina si svegliava dopo chissà quanto, che piangeva e urlava finché poteva, finché ne aveva la forza, ma che nessuno era lì per sentire.

Tornavo quella bambina che avevano tirato fuori dal pozzo per miracolo dopo quasi otto ore, quando finalmente qualcuno si era accorto della sua assenza.
Tornavo quella bambina che si era salvata perché il giardiniere stava potando le piante vicino al gazebo, e aveva sentito un suo lamento.
Tornavo quella bambina che non capiva perché nessuno si era chiesto dove fosse, visto che non era venuta a pranzo e nessuno l’aveva più vista dopo la colazione.
Tornavo quella bambina che sentiva di sfuggita il suono dell’ambulanza, aveva perso troppo sangue, la vita che le stava scivolando via.
Tornavo quella bambina che era sopravvissuta.
Ma quel giorno, dentro di me, qualcosa si era rotto, e non si era mai più aggiustato.

Credo si chiamasse fiducia, o forse amore per la famiglia.

Avevo l’impellente desiderio di alzarmi da tavola, non so quanto avrei tollerato ancora di stare in mezzo a loro.
Tosca mi guardava preoccupata, sapeva che ero a tanto così dal mettermi ad urlare. Ma non lo feci. Strinsi forte il coltello della carne, perdendomi nella luminosità argentata che splendeva ogni volta che la lama riuscita a catturare la luce delle lampade.
Mi concentrai sulla superficie del metallo. Era così lucido che rifletteva i miei occhi, che in quel momento erano di un grigio freddo.
Sentii che qualcuno parlava, non ascoltai nemmeno, le nocche che sbiancavano per la forza della presa.
«Ne ho abbastanza di tu che ti comporti così, cazzo!»
Era Gualtiero questo, che, bravo figlio di sua madre, era totalmente stizzito dalla mia assenza di comunicazione.
«Problemi?»
Gualtiero, caro Gualtiero, lo sai che ci sono sfide che non puoi vincere, non con me.
«Senti, stronzetta, almeno le tue cazzo di turbe tienitele per te, a qui nessuno gliene fotte un cazzo se hai la sindrome premestruale o che cazzo ne so io, almeno fingi di essere educata un minimo, cristo santo! Ti rendi conto che ci stai rovinando la vita? Cavolo, noi potremmo essere la famiglia perfetta, ma NO, ci devi essere tu, la stracazzo di pecora nera di turno, che ci rovina sempre tutto.»
«Gualtiero, ricomponiti.»
Il tono di mio padre era tagliente, a denti stretti, carico di un’urgenza che non compresi.
«No, non mi ricompongo un bel niente, perché mi sono rotto di dover sopportare sempre che quella lì faccia il bello e il cattivo tempo! Noi abbiamo il diritto ad essere felici, e lei ce lo porta sempre via, e ora lo dico e ora lo ripeto, no, papyno, non me ne fotte delle conseguenze, io sono stufo!»
Si era alzato in piedi, appoggiandosi con le mani al tavolo, e stava praticamente urlando come una checca isterica, nonostante tutti cercassero di farlo sedere, di farlo ragionare, di farlo stare zitto.
Continuava a parlare e ad insultarmi, ma oramai afferravo solo pezzi di frase.
«Inutile…»
«…senza futuro…»
«…peso per tutti noi.»
Ero fuori dal mio corpo, completamente estranea alla vicenda. Non riuscivo nemmeno a percepire chiaramente la rabbia che provavo, mi arrivava in sordina. Io ero nel mio mondo, uno spazio bianco infinito e desolato, senza cielo né terra. Coglievo appena quello che i miei che dicevano a mio fratello, guardavo ma non vedevo davvero Tosca che si copriva la bocca con la mano. Sentii sfrigolare qualcosa, puzza di bruciato.
Non parlai. La tensione mi stava logorando, dovevo fare qualcosa per spezzarla.
 Agii d’istinto.
Mi alzai, piantai il coltello di punta nel tavolo, con violenza, lacerando la tovaglia. La lama rimase conficcata a fondo nel legno, tremando leggermente.
Scappai.
Fuori dalla sala iniziai a correre. Sulle scale stavo praticamente volando.
Intravidi appena appena la figura di Giulia al lato del mio campo visivo, una domanda senza voce sulle labbra, che cercava di fermarmi.
La ignorai, e tirai dritto. Entrai in camera mia e sbattei la porta della camera con tanta violenza da far tremare il muro.
Mi ci appoggiai, cercando di calmare i primi singhiozzi che stavano iniziando a scuotermi. Lentamente, scivolai in basso lungo la parete, arrivando a sbattere il culo per terra, la testa tra le gambe.

Che.
Cazzo.
Avevo.
Appena.

Fatto.

Le lacrime seguirono presto i singhiozzi. Piansi per un tempo indefinito, non capivo più nulla. Piansi per me, egoisticamente. Perché Gualtiero aveva ragione, ero sempre io col mio carattere di merda, quella che rovinava tutto. A tentoni, resa cieca dalle lacrime, afferrai un pacco di fazzoletti dalla borsa che avevo mollato lì quando ero tornata da scuola, e cercai di soffiare via il dolore assieme al moccio.
Una fitta improvvisa in mezzo agli occhi. Passai il dorso della mano sotto il naso.
Sangue.
Fantastico, davvero, un momento eccezionale per uno dei miei soliti attacchi di epistassi. 
Cercai di alzarmi per andare a cercare un altro pacchetto, ma alla fine optai per trascinarmi letteralmente fino al bagno e mi sedetti sulla tazza del cesso, col coperchio chiuso.
La testa buttata indietro, la schiena appoggiata al muro piastrellato gelido, una mano a premere il naso per arrestare l’emorragia, anche se ad essere obiettivi i continui singhiozzi non aiutavano affatto. Stavo una vera merda. Abbassai un po’ il capo, evitando accuratamente di guardarmi nello specchio alla parete. Non avevo proprio voglia di vedermi in quello stato, che immaginavo non fosse la mia forma migliore. Ero fuori di me. Non respiravo, aspiravo aria con un gorgoglìo, non avevo ossigeno al cervello. Dopo un po’ iniziai a calmarmi, lo stomaco smise di dirmi che ero una deficiente, le lacrime si seccarono, gli spasmi si tranquillizzavano e il sangue si coagulò, lasciandomi solo un sapore di terra e metallo e perdita in bocca.

Non so esattamente come, ma riuscii a sfilarmi la maglia e i pantaloni, a mettermi il pigiama, e a infilarmi a letto. Non avevo né la voglia né la forza di pensare. Mi sentivo semplicemente vuota. Il dolore se n’era andato e aveva lasciato il nulla dietro di sé. Iniziai a fissare l’affresco sul soffitto, un pantheon di dei greci un po’ sbiadito, e per distrarmi iniziai ad identificarli.
Quello i calzari alati è Mercurio, quello con l’elmo e l’abito nero è Ade, quella con la coppa è Ebe, quella con l’arco è Artemide...il sonno stava finalmente accogliendo il mio oblio.
Qualcuno bussò delicatamente alla porta, strappandomi dal dormiveglia. 
«Hey…posso entrare?»
Era Tosca.

«Entra.»
Parlare mi fece raschiare la gola, il suono della mia voce era orribile.
Cercai di darmi una sistemata, ma sapevo che ero pesta, rossa e gonfia, per cui mi limitai a scostarmi il ciuffo dal viso e a tirarmi su dai cuscini.

Tosca aprì la porta, rimanendo sulla soglia, in controluce. Era in pigiama pure lei, solo che al contrario di me sembrava uscita dalle pagine patinate di una rivista di moda, anche se era viola e la maglia aveva stampato un orsacchiotto con la scritta “Abbracciami forte”.
«Vorrei chiederti come stai, ma ho idea che sarebbe una domanda alquanto stupida», disse, abbozzando un sorriso amaro.
Non risposi.
«E, insomma, non mi sembra giusto che tu debba soffrire così tanto. Ci sono io per te, ok? Sempre, anche quando sto a Venezia, ci tengo che tu lo sappia, ecco.»

Si passò una mano tra i capelli, timidamente. Continuai a fissarla in silenzio.
«Senti, piuttosto, vuoi un po’ di compagnia per dormire stanotte? Non me la sento di lasciarti sola…d’altronde sono la tua sorellona, è a questo che servo, no?»
Sorrise, anche se aveva gli occhi lucidi.
Non ci fu bisogno che le dicessi nulla. 
Non feci a tempo a scostare le coperte per farla entrare nel letto che lei aveva già chiuso la porta, piano.

Non mi fece altre domande, sapeva che non ero in condizioni di parlare.
Si infilò sotto il piumone con me, e mi offrì il suo abbraccio caldo e protettivo. Mi appoggiai contro il suo seno morbido, esausta, mentre lei mi cantava una dolce ninna nanna, accarezzandomi la testa.
E il sonno, finalmente, mi vinse.

 

  
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