Dita di cristallo
Al funerale di Atrèe Garcia erano presenti solo tre persone: io, Isabel e Audrey Blanc. Un bel modo per salutare una delle migliori persone che abbia mai conosciuto.
Tre visi parzialmente conosciuti a piangere su una tomba di uno sconosciuto.
Ancora non mi capacitavo della sua morte, eppure era successo, un avvenimento comune nella vita di ogni uomo, e allora perché sconvolge tanto?
Forse perché era così giovane, forse perché viveva con me o forse perché ci accomunava l'amore per la stessa persona? Qualunque fosse la risposta, sarebbe certamente stata incomprensibile alla mente umana, incomprensibile come i legami che tesse il ragno delle relazioni, invisibili ma resistenti come il titanio che solo la morte può, appunto, distruggere; eppure non ne ero così sicuro: comunque sarebbe andata sarei rimasto legato a quel ragazzo per sempre.
L'avrei rivisto ogni notte, quando la nebbia avvolge le strade e confonde le sagome degli alberi e dei marciapiedi e dei lampioni, l'avrei rivisto davanti a me, con i capelli biondi e l'impermeabile beige mentre sorrideva.
La neve mi stava facendo perdere sensibilità ai piedi, ma non osavo muovermi, l'aria pesante impediva qualsiasi movimento e ulteriore tristezza si andava sommando a quella già enorme che ricopriva le gracili spalle di Isabel Garcia.
Quella donna dalla pelle cinerea fissava con sguardo vuoto la lapide che portava scritto il nome del fratello perso già una volta.
Atrèe Garcia
Parigi 18 gennaio 1879 - 17gennaio 1907
rispettabile amico e amorevole fratello
Era buffo: era morto il giorno prima del suo compleanno. Sorrisi, nonostante il momento grigio e triste. Anche la natura sembrava piangere la sua scomparsa: il vento non soffiava più e aveva smesso anche di nevicare, Audrey mi aveva rivelato che Atrèe era morto con il sorriso, più probabilmente era una smorfia. Non glielo dissi, soffriva già abbastanza.
“Gli volevo bene” mi disse Isabel
“Anche io”
“Lui non voleva più vedermi ma è normale, in tutti questi anni non l'ho mai cercato” continuò cominciando a singhiozzare
“No, non posso piangere: è troppo facile farlo adesso, quando tutto è finito” si disse cercando di trattenere l'ennesimo singhiozzo.
“Isabel, piangere ti farà bene” cercai di suggerirle io
“Se continuassi a farlo non mi fremerei più: si piange per tutti gli errori commessi, non lo sai?”
Scossi la testa, mi rattristai pensando quanto poco si volesse bene Isabel, sentiva sulle spalle tutte le colpe della sua vita e, probabilmente, si addossava anche quelle altrui. Le lanciai un'occhiata di sfuggita, il suo volto era tornato quello di una bambola di porcellana distaccato e bellissimo. Mi fece paura. In quei tratti riconobbi il viso di Atrèe, dopotutto erano fratelli. Anche se erano completamente diversi, scorreva lo stesso sangue nel loro corpo e portavano lo stesso cognome, in un certo senso stare con Isabel era come stare con Atrèe.
Penso fosse stato normale pensare quelle cose, quando muore una persona importante, non si riesce ad accettarlo e quindi si trovano scappatoie per sentirsi, in qualche modo, ancora vicini a quella persona.
Eppure il suo corpo freddo ed esangue era qualche metro sottoterra e sarebbe passato poco tempo prima che la putrefazione lo decomponesse, nelle sue viscere si sarebbero sviluppati i vermi, quelli bianchi e cicciotti: le larve della putrefazione, appunto. Di lui sarebbero rimaste solo le ossa e qualche capello, avrebbe passato l'eternità a fissare il coperchio della bara con le sue orbite vuote e il cranio lucido.
La Morte. Già una volta mi ero confrontata con essa. La signora della vita.
La vita sarebbe continuata per tutti, tranne che per noi tre che, con il cuore che sanguinava, ci cingemmo a lasciare il cimitero innevato.
Fu come dare “l'addio” definitivo ad Atrèe.
Audrey svanì dietro il primo angolo con le guance rigate dalle silenziose lacrime che non avevano mai smesso di scorrere.
Rimanemmo solo io e Isabel.
O meglio.
Rimasi solo io. E l'ombra di Isabel.
La mia amica era ancora al cimitero, nella tomba assieme al fratello.
“Da quand'è che sei morta?”
“E tu?”
Mi lasciò così. La vidi allontanarsi strisciando i piedi nella neve fresca, la gonna bagnata e il vecchio cappellino nero. Finalmente capii quello che intendeva Atrèe quando diceva che Isabel era una bambina cresciuta troppo in fretta.
Il signor Moliner gli aggiustò la mano con una fasciatura, era l'ottava di quel mese. C'erano stati periodi peggiori in cui le fratture non si limitavano solo alla mano, eppure aveva imparato a vivere così, aveva accettato la sua malattia che gli degenerava le ossa fino a farle diventare della stessa consistenza del cristallo.
Il suo nome? Che importanza aveva saperlo? Nessuno lo chiamava.
Per lei era “Dita di cristallo”, gli piaceva: lo faceva sentire prezioso nella sua fragilità, come un tesoro, così lo fece suo.
Viveva li, rinchiuso da ormai troppi anni e lei era l'unica che lo venisse a trovare per piacere e non per circostanza.
Elèonore era innamorata di lui e lui lo sapeva, ma non meritava di esserlo e così l'aveva respinta più di una volta sperando che si stancasse di lui e lo lasciasse morire nella sua solitudine, la sua vita era effimera e inutile e, una ragazza come Elèonore così vitale e sana, non meritava di amare una persona la cui vita era appesa ad un filo. L'amore è cieco, però ed Elèonore non lo abbandonò mai.
Certo, anche Dita di cristallo l'amava, ma non come avrebbe voluto: non potevano toccarsi né sfiorarsi potevano solo parlarsi. Questo lo distruggeva: avrebbe tanto voluto intrecciare le sue dita tra i fili di rame della ragazza, accarezzarle la pelle e assaporare il sapore delle sue labbra, ma non poteva.
“Cosa si prova a vivere qui?”
“Quello che provi tu”
Elèonore storse il naso “Io non provo nulla”
“Appunto.”
nda: ringrazio tutti coloro che mi hanno seguita fin qua! :D