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Autore: __Lunatica    11/02/2013    9 recensioni
Una ragazza come tante, con tanti problemi.
Pensa di essere un errore, ne è sicura.
Ha conosciuto persone orribili che le hanno reso la vita difficile.
Pensa di essere insignificante.
Ma non lo è. E' una ragazza meravigliosa, deve solo capirlo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-Una come tante-


Sto correndo più veloce che posso.
Respiro a fatica, ma continuo a correre.
Mi volto un secondo per vedere se mi stanno ancora inseguendo. Si, sono dietro di me.
Mi stanno raggiungendo. Io sto rallentando.
Non ce la faccio più.
Inciampo.
Cerco di rimettermi subito in piedi, ma sono troppo stanca.
Col fiato corto ricomincio a correre, ma ormai è troppo tardi, mi hanno raggiunto.
Mi bloccano alle spalle. Io cerco di liberarmi.
Scalpito.
Urlo.
Cerco di graffiare con le unghie.
Ma è tutto inutile.
Ed eccolo che arriva.
E’ davanti a me, il mio incubo più grande, il mio mostro, che purtroppo invece di essere immaginario è fin troppo reale.
“Hai davvero provato a scappare?” dice ma so che non aspetta una risposta.
“Illusa.” Dice.
Ed ecco il primo pugno, dritto in faccia, sull’occhio. Urlo.
“Tappategli la bocca!” dice ai suoi amichetto e uno di loro mi mette la mano davanti alla bocca.
“Nessuno ti aiuterà, nessuno aiuta una sfigata cicciona come te. Non importa a nessuno.” Dice poi spregevole.
Mi colpisce con un altro pugno, sulla pancia questa volta. Urlo di nuovo, ma il mio urlo è soffocato dalla mano di uno dei due ragazzi.
“Stai zitta. Devi stare zitta.” Mi dice.
Un calcio, sullo stinco. Cado per terra, sono a gattoni. Non ho la forza per alzarmi. E poi a che scopo? Per farmi continuare a picchiare? Ancora e ancora, giorno dopo giorno?
“Alzati” mi ordina.
Ma io non mi muovo rimango ferma, immobile sperando che se ne vadano, che abbiano pietà per una volta, solo una volta.
“Alzati!” ripete e sputa vicino alle mie mani.
Alzo lo sguardo e subito uno schiaffo violentissimo colpisce la mia guancia.
“Fai schifo. Sei scema? Sai cosa significa alzati? Devi alzarti in piedi grassona!”
Sputo sangue, i due ragazzi alle mie spalle mi sollevano.
“Non ti fai schifo?” mi chiede beffardo “Io se fossi in te mi farei tanto schifo. Preferirei morire piuttosto che essere te.”
Ma lui non sa che io c’ho pensato milioni di volte. Ho pensato a mettere la parola fine alla mia vita, ho pensato al dove e al come, ho pensato a chi scrivere una lettera, in verità un paio sono già scritte dentro ad un cassetto chiuso a chiave della mia camera. Ho pensato a chi ringraziare, quelle poche, pochissime persone che hanno almeno provato ad aiutarmi, ho pensato a chi mi ha portato a pensare di fare il gesto estremo e sicuramente la persona che ora ho davanti agli occhi è la causa principale. Sono anni ormai che mi tortura, aveva iniziato con qualche insulto qui e la detti per far ridere gli altri, fino ad arrivare alle mani, a lasciarmi graffi, tagli e lividi.
“Lasciatela.” Dice semplicemente e i due ragazzi mi lasciano a peso morto sul marciapiede e tutti e tre se ne vanno.
Vorrei rimanere lì, ma so che non posso, quindi con la poca forza che non so come mi è rimasta mi alzo in pieni e zoppicando arrivo a casa.
Apro la porta, come sempre non c’è nessuno. In cucina trovo un biglietto: Qui c’è il pranzo, mangialo. Buon appetito.  Con amore mamma.
Non lo farò, non lo mangerò, come sempre lo butterò nella busta e andrò a buttarlo nel secchio dell’immondizia fuori casa.
Vado in camera, mi siedo sul letto e inizio a piangere. Non per il dolore fisico, ormai a quello ero fin troppo abituata.
Mi alzo e vado davanti allo specchio, vedo l’occhio e il labbro gonfio, vedo i jeans strappati, alzo la maglietta e mi tocco la pancia, dolore. Dolore ovunque.
Come farò a nasconderlo a mia madre?
Che scusa mi inventerò questa volta?
Sono caduta? Inciampata? Come? Quando? Perché? E soprattutto ancora?
Quante volte avevo mentito? Troppe.
Torno in cucina e prendo del ghiaccio. Ne metto un po’ sull’occhio e un po’ sul labbro.
Dolore, ancora.
Sempre zoppicando torno sul letto e mi sdraio.
Sento il mio stomaco borbottare. Lo ignoro, come ormai facevo da troppo tempo.
I milioni di insulti mi vengono in mente e comincio di nuovo a piangere.
Non capivo, mai avevo capito e probabilmente mai capirò.
Stavo dimagrendo, non mangiavo più praticamente niente, in pochi mesi avevo perso più di dieci chili, nonostante tutto continuavano a insultarmi, menarmi, offendermi, ferirmi.
Le sentivo le ragazze oggi in classe che stavano parlando, o meglio sparlando di me, del mio peso, del mio grasso, le sentivo ridere mentre mi definivano grassa, cicciona, obesa.
Quelle ragazze che fin dal primo giorno, senza neanche darmi la possibilità di farmi conoscere mi avevano subito escluso e giudicato. Isolata da tutti e da tutto.
Scendo dal letto e mi peso. Sessanta chili. La pancia brontola ancora ma non ci faccio caso.
Guardo la lametta ancora macchiata di sangue sul mio comodino. Alzo le maniche del mio maglione e vedo le bende macchiate di sangue, le tolgo, disinfetto le ferite.
Rimango per un po’ a fissare le mie braccia ormai piene di tagli.
E’ questo vivere?
Soffrire ogni santo giorno, sentirsi uno schifo, non essere accettata per qualche chilo in più o perché non si hanno i vestiti firmati?
Il telefono squilla, rispondo.
“Tesoro sono mamma.  Volevo dirti che questa sera purtroppo torno tardi a casa, la riunione durerà più del previsto.” Dice
“Va bene mamma” dico “Non ti preoccupare” cerco di tenere un tono normale quando invece un misto di tristezza e sollievo mi invade.
Tristezza, perché ancora una volta mia madre aveva messo il lavoro prima di me, perché so che in parte lo fa per me, ma io infondo desidero più stare con lei che avere una casa grande se poi devo essere quasi sempre da sola in questa grande casa. Perché da quando i miei genitori hanno divorziato e mio padre si è trasferito in un’altra città, lontano, per stare con la sua fidanzata di venti anni e non si fa quasi mai sentire questa casa è diventata così grande, enorme, e ogni giorno mi ricorda tutte le loro litigate, le urla, i pianti…
Sollievo, perché non devo mentire ancora. Non devo nascondere i miei tagli e inventarmi assurde scuse per i miei lividi. Scuse alle quali, non so come, mia madre crede, o fa finta di credere per non affrontare la verità.
“Tesoro, mi dispiace, mi farò perdonare.” Dice mia madre, e sento nel suo tono di voce che gli dispiace davvero.
“Non ti preoccupare mamma, lo so che ti dispiace.” Detto questo mi saluta, ricambio e attacco il telefono.
 
Ormai il sole è calato, è ora di cena, ma non ho fame o meglio ho fame, ma non voglio mangiare, non devo mangiare.
Dopo aver bendato di nuovo i miei tagli, mi metto il pigiama e mi sdraio.
Nella notte, nel mio letto, nel silenzio inizio a piangere in silenzio, inizio a bagnare il cuscino.
 
 
E’ mattina, mia madre è uscita presto, mi ha asciato la colazione.
Svuoto il bicchiere di latte nel lavandino e mi preparo.
Esco, fa freddo e piove. Non è una di quelle piogge violente, è una di quelle pioggerelline leggere che ti danno fastidio.
Arrivo a scuola, prima di entrare nel cancello abbasso lo sguardo e veloce attraverso il cortile per poi entrare nell’edificio svelta cercando di non incrociare lo sguardo con nessuno.
Entro in classe, mi siedo al mio banco, nessuno mi saluta, come se fossi invisibile, come se valessi meno di un granello di polvere.
La professoressa entra, la lezione inizia ma io presto poca attenzione.
Pian, piano però la classe inizia muoversi, la voce della professoressa è sempre più bassa come se si fosse allontanata, sbatto le palpebre, vedo tutto a chiazze, sento le forze abbandonarmi.
Mi guardo intorno per cercare aiuto, tutti mi fissano, sento un misto di voci che non riesco a decifrare, vedo l’espressione preoccupata della professoressa, qualcuno dice che sono pallida, qualcun altro mi chiede cosa sta succedendo.
Ma io non riesco a rispondere e prima che riesca a dire o fare qualcosa i miei occhi si chiudono e vedo solo buio, tanto buio.
 
 
Una voce profonda e roca parla lentamente, come quella di una persona che sta annunciando qualcosa di importante.
Sento qualcuno singhiozzare e poi sento la voce di mia madre chiamarmi più volte.
Vorrei dirle che sto bene, vorrei dirle che andrà tutto bene.
Ma ancora una volta non riesco a dire niente.
Così provo a muovermi ma il mio corpo rimane fermo. Non risponde ai comandi che le da il mio cervello. Questa cosa mi fa andare nel panico.
Cosa succede?
Provo ad aprire gli occhi. Tutto quel buio non mi piace, mi fa paura. Si, mi fa paura non sapere dove mi trovo, perché non riesco a muovermi e a parlare.
Sento dei passi, troppo pesanti per essere quelli di mia madre.
Qualcuno mi afferra la mano e inizia a piangere ininterrottamente. E’ lei è al mio fianco mia mamma.
Qualcuno bussa alla porta.
Più di due persone parlano ma non capisco cosa dicono, però sento mia madre lasciarmi la mano, vorrei chiamarla, dirle di rimanere ma non posso.
 Il silenzio e il buio.
Forse sono in coma.
Forse non mi risveglierò mai più.
Forse sto morendo…
Sento qualcuno afferrarmi la mano.
Non so chi sia.
Non riconosco quel tocco.
Sicuramente non è la mano di mia madre.
Sembra quella  di un uomo.
Ma non può essere quella di mio padre per varie ragioni: Non gli importa niente di me, è troppo piccola per essere la sua…
Ho l’istinto di stringerla.
Ma non ci riesco, eppure quel tocco sconosciuto e inaspettato è meraviglioso.
Il calore della sua mano e la sua stretta come se non mi volesse lasciare andare per nessun motivo al mondo mi da forza.
Sento la sua voce, non la conosco.
“Noi non ci conosciamo, non so neanche il tuo nome a dirla tutta, ma non devi mollare. Ho sentito il medico dire che il tuo stomaco è vuoto, che non mangi da diversi giorni, ho visto che ti guardava i polsi e mi sono permesso di avvicinarmi e ho visto i tagli. Non devi farlo, so che non conto niente e che non te ne frega niente e che probabilmente le mie parole non ti faranno cambiare idea ma devi sapere che chiunque sia la persona che ti ha portato a fare questo non lo merita. Sei meravigliosa e non riesco a capire come mai ti stai facendo del male e non stai mangiando.”
Tu non sai, tu non sai com'è la mia vita.
Ci riprovo a stringere quella mano, non so come riesco a non piangere, probabilmente sono le parole più belle che una persona all’infuori della mia famiglia mi abbia mai detto.
Una singola lacrima mi riga la guancia destra e finalmente riesco a stringergli la mano.
Sento la sua stretta più forte e poi lo sento chiamare il dottore ad alta voce più di una persona entra nella stanza correndo, il ragazzo viene allontanato da me e mi lascia la mano, quella di mia madre sostituisce prontamente la sua.
“Amore” mi chiama mia madre “Ti prego apri gli occhi.”
Apro gli occhi, una forte luce mi acceca, sbatto le palpebre per un po’.
Mia madre mi stritola in un abbraccio.
Provo a parlare, ma mi brucia la gola, prontamente il dottore mi passa un bicchiere d’acqua.
“Bevi un sorso alla volta.” Mi ammonisce
E io piano bevo.
“Cosa è successo” chiedo spaesata, mi guardo intorno.
Sono in una stanza d’ospedale.
L’odore di pulito, di troppo pulito mi invade.
Le pareti bianche, il pavimento bianco, il letto bianco, le coperte bianche, troppo bianco.
C’è un letto affianco al mio, in cui ora è sdraiato un ragazzo, il ragazzo.
Mi guarda e sorride appena.
“Tesoro, qui fuori ci sono i tuoi compagni di classe.” Dice incerta mia madre “Vorrebbero vederti.”
“No.” Dico decisa con la voce roca.
“Ma vogliono sol…” insiste mia madre
“Non li voglio vedere, digli di andarsene, digli di non rivolgermi la parola, difendimi! Digli che non voglio vedere nessuno di loro. Cosa c’è? Ora gli faccio pena? Ora che sono qui, fisicamente distrutta oltre che psicologicamente si preoccupano? Dopo tutto..” la voce si spezza e inizio a singhiozzare piano.
“Sono loro. Loro la causa di tutto?” chiede furiosa e io annuisco piano.
La vedo uscire dalla stanza e la sento urlare, la sento che mi difende, che li insulta e questo mi fa sorridere. 
 
 
 
 
Con lo zaino sulle spalle varco il cancello della mia nuova scuola.
A testa alta attraverso il cortile e lo vedo. Lì, davanti alla porta mi saluta con la mano.
Mi avvicino e lo saluto con un bacio a stampo sulle labbra.
“Come stai?” mi chiede lui, lo stesso ragazzo dell’ospedale, lo stesso che mi aveva aiutato tanto, che mi aveva suggerito di cambiare scuola, che mi aveva suggerito di venire nella sua scuola.
“Bene” rispondo e puoi mi blocco.
“Che c’è?” mi chiede preoccupato
“E’ strano dire di stare bene e esserlo veramente.”  Dico sorridendo e ricominciando a camminare
Lui sospira sollevato.
“Hai fatto colazione?” mi chiede
“No.” Ammetto e poi visto il suo sguardo deluso spiego “Ero in ritardo! Non ho avuto tempo!”
“Davvero?” chiede
“Si. Anzi, ho fame. Dopo mi prendo qualcosa alle macchinette.” Dico
“Lascia stare le macchinette. Ci ho pensato io.” E mi porge un pacchetto con un cornetto al cioccolato dentro.
Lo prendo.
“Grazie.” Dico grata
“Di niente.” Mi risponde
Siamo arrivati davanti alla porta della mia nuova classe.
Lancio uno sguardo impaurito e dubbioso a quella porta.
“Andrà tutto bene. “ dice lui
“Certo” sussurro “Ora ho te”
Mi saluta con un bacio e si allontana. Mi faccio coraggio ed entro in classe.
Per qualche attimo silenzio.
Una ventina di paia di occhi mi fissano.
Io non so che fare.
Poi un gruppetto di ragazze si avvicina a me
Ecco che inizieranno a prendermi in giro.
Ecco che ricomincia la tortura.
Penso.
“Tu sei la ragazza nuova?” mi chiede una ragazza alta, bionda con gli occhi azzurri, fisico perfetto, la persona perfetta per uccidere la mia autostima già quasi del tutto inesistente.
Io annuisco lentamente.
“Ciao!” dice entusiasta “Come ti chiami?” mi chiede e prima di farmi rispondere mi dice il suo nome che dovrà ripetermi parecchie volte prima che io riesca a ricordarmelo.
“Ti siedi vicino a me?” mi chiede e io accetto euforica
E’ andata tutto bene, da oggi in poi la mia vita sarebbe andata bene.
Perché non ero io quella sbagliata, ma erano loro, quelli che mi prendevano in giro, che mi insultavano, mi uccidevano dentro ad esserlo.
Non ero io a dover cambiare, ma loro.
Non ero io a dovermi vergognare, ma loro.
Ora lo so.
Non esistono persone sbagliate, ma conoscenze sbagliate.
La vita può riservarti regali meravigliosi, ma decide lei quando donarteli.
Oppure si devono stringere i pugni e prendere in mano la proprio viva, o anche sperare di trovare una persona che ti sconvolga la vita. 
  
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