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Autore: afterhour    13/02/2013    6 recensioni
I nostri piccioncini sono due persone che non hanno niente in comune, solo che una delle due è troppo testarda (o stupida) per capirlo.
"...Eccolo lì, bello come il sole, o forse la luna, con quegli occhi neri e quei capelli ancor più neri che contrastavano con il viso pallido, nonché quell’aria sicura e indifferente.
Era uno stronzetto, lo sapeva, ma non importava, le piaceva lo stesso.
- Ehi bello, vieni a farti un giro? –
Lui si voltò appena e le rivolse uno sguardo di sufficienza prima di salire sul bus senza neppure rispondere.
Stronzetto, appunto.
Ma non poteva farci niente: Uzumaki Naruko era in love..."
NO YAOI: FemNaruto x Sasuke
AU Threeshot
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Eccomi ancora qua con questa coppia improbabile!
Questo è un capitolo di transizione ed è visto dalla parte di Sasuke, per cui non è molto allegro.
Il prossimo, e ultimo, è lunghissimo (sono ancora indecisa se dividerlo in due o meno) ed è ancora dalla parte di lei…eh eh.




Una rompicoglioni


Sasuke pensava che la sua vita si spandesse a cerchi concentrici invece di seguire una linea immaginaria, come se dal punto in cui i suoi erano morti, lui guardasse all’indietro e non proseguisse più in avanti, e come se da quel punto stesso scaturisse un’onda nera che ricopriva il futuro, ma anche il passato, quello di una famiglia perfetta che non era mai esistita, intenta com’era a nascondere la vergognosa verità di un figlio affetto da malattia mentale.

Un altro punto fermo, da cui partiva un altro cerchio, era il giorno in cui suo fratello era uscito dal manicomio criminale (un luogo orribile) ed era stato internato in una casa di cura non troppo lontana da lì: attorno a quel punto lui aveva programmato la sua vita, come attorno al venerdì si raccoglieva la sua settimana.
Anche la facoltà l’aveva scelta in base a questo, ingegneria non gli piaceva particolarmente ma i soldi dei suoi non sarebbero durati all’infinito, e un giorno (il prima possibile) lui avrebbe dovuto guadagnare abbastanza per permettere ad Itachi di vivere in un buon istituto.

Sasuke amava suo fratello, lo amava perché era l’unica famiglia che aveva, e perché sapeva che non era in sé quando aveva ucciso i suoi, e che spesso, quando era cosciente, soffriva orribilmente, divorato dai rimorsi.
Eppure, anche, lo odiava, lo odiava perché aveva ucciso la mamma e il papà, perché lui aveva assistito a quel momento, aveva visto tutto quel sangue, lo aveva pregato terrorizzato di fermarsi, e lo odiava perché lo teneva legato a quel punto in eterno. Perché era la sua famiglia ma anche la sua catena: sapeva di doversi occupare di lui per sempre.

Itachi… a volte stava bene, a volte male, a volte era lucido, sereno, a volte era delirante e distantissimo, mentre altre volte i farmaci lo tenevano in uno stato semicosciente.
Lo vedeva ogni venerdì, e lo sentiva spesso.
Suo fratello lo chiamava col cellulare che gli aveva regalato anni prima per il compleanno, di solito quando era agitato, o stava male, e non avendo alcun senso della misura lo chiamava anche di notte se ne sentiva il bisogno, anche dieci volte in mezz’ora.
Sasuke rispondeva quando poteva, a volte non rispondeva per ore, troppo stanco, e a volte spegneva il cellulare, anche se si sentiva in colpa (si era imposto di spegnere il cellulare ogni volta che entrava in biblioteca, era il suo angolo di pace).

La sua vita era quella: lezioni, studio, biblioteca e poi palestra, fino a venerdì, il punto centrale.
Era cosciente di organizzarla in uno schema fisso, costante, grigio, come se in quel modo potesse controllarla, come se in quel modo fosse possibile controllare gli scoppi di follia, gli schizzi rossi di sangue, i sussulti di emozione, il trillo estenuante del telefono.  
Ma stava bene così, non amava gli imprevisti, il rumore, e non credeva nell’amicizia, tanto meno nell’amore.
Non si fidava di nessuno, non ci riusciva più.

2.


Era lunedì, e non appena arrivato in biblioteca appoggiò una pila di libri sopra la sedia che non usava, non che servisse a molto: ‘quella’ si presentava ogni giorno, toglieva i libri senza chiedere e si sedeva tranquilla accanto a lui.

Non sapeva come avesse fatto a trovarlo, forse lo aveva semplicemente pedinato, non ne sarebbe stato sorpreso, era da un po’ che lo importunava.
Era una rompicoglioni.
E una rompicoglioni estremamente insistente considerato che era sempre lì.
Una ragazza normale dopo un po’ si stancava di essere ignorata e passava ad altri, ma quella non sembrava per niente scoraggiata (non era a posto, doveva essere matta, o ritardata), ed ora minacciava di rovinargli quell’angolino di pace che si era ritagliato, cui teneva particolarmente, e in più con quella sua invadenza rischiava di creare un precedente.
Naturalmente aveva spesso considerato l’idea di cambiare posto, ma sapeva che non sarebbe servito a niente, che quella lo avrebbe seguito, e almeno finché rimaneva lì per poco e non lo disturbava più di tanto, era meglio provare con la solita tattica ed ignorarla, semplicemente… per quanto fosse ottusa prima o poi avrebbe capito l’antifona.

  - Eccomi qua – gli fece quel giorno tutta allegra mentre appoggiava dei libri sull’angolo del tavolo – ho anch’io un sacco di roba da studiare oggi – spiegò indicandoli.

Come no.
Già gli pareva strano che sapesse leggere e scrivere.
La guardò liberare la sedia e piazzarsi seduta di fronte a lui, spudorata come sempre (e il fatto che non fosse in grado di vestirsi con un minimo di gusto non l’aiutava).

 - Oggi sono felice – gli spiegò mentre sfogliava uno dei libri senza neppure far finta di leggerlo – a dire la verità sono spesso felice, cerco di godermi la vita –
Lo sbirciò prima di aggiungere:
 – Non è che mi sia andato sempre tutto rose e fiori, ma sono una lottatrice – e poi – sono orfana da tempo, come te –

Lui non aveva detto niente, non aveva alzato lo sguardo, aveva solo aggrottato la fronte, infastidito, considerando freddamente che se attaccava con quegli argomenti lo costringeva ad andarsene e cambiare biblioteca, cosa che preferiva evitare.

 - So che fa male parlarne, ma andava detta – pareva avergli letto nel pensiero quella.

 - Stai zitta – le sibilò, seccato per averle anche solo replicato.

Non era poi così facile ignorarla, in più non si offendeva mai, anzi, le rare volte in cui lui apriva la bocca, e non certo con garbo e gentilezza, lo guardava estasiata, facendolo innervosire ancora di più.

Almeno dopo non aveva più parlato… e quasi, quando taceva, anche se continuava a sbirciarlo non molto discretamente, poteva tollerarla, bastava non guardarla, perché tutto quell’arancione gli faceva male agli occhi.

Anche quella volta, prima di andarsene, gli lasciò uno di quei bigliettini che si ostinava a scrivergli.
Lo lesse in fretta prima di accartocciarlo e buttarlo, suo malgrado curioso: se non altro quella aveva fegato, non si poteva negare, ed era davvero una lottatrice, doveva dargliene atto.
 Questa volta non era neanche così orrendo, stava migliorando:
lasciatemi sulla tua bocca e sulla sabbia essere felice,
essere felice perché sì,
perché respiro e perché respiri

Le corrispondeva in fondo, non aveva mai conosciuto una persona così sfacciatamente allegra e di buon umore, sempre.
Il giorno dopo sarebbe andato a trovare suo fratello in clinica, e avrebbe avuto proprio bisogno di un po’ di allegria.
Come no.
 
Dopo essere stato in palestra (aveva bisogno di scaricare la tensione) tornò a casa con l’ultimo treno, come sempre, ed entrò nella sua casa vuota giusto in tempo per andare a dormire, come sempre.
Il giorno dopo andava a trovare suo fratello, ed iniziava tutto di nuovo.
__

I giorni passavano, concentrici, avvolti attorno al venerdì.

Prima di lunedì di solito aveva completamente rimosso l’esistenza di quella tizia svitata, ma per qualche strano motivo man mano che il tempo passava non gli dava più così fastidio vederla arrivare, era volgare, stupida e rompicoglioni, eppure non lo disturbava più di tanto: se riusciva a non aprire troppo quella boccaccia poteva anche arrivare ad abituarsi alla sua presenza, nonostante continuasse a sbirciarlo, sempre senza discrezione.

Un paio di settimane più tardi erano ancora lì, e ormai era davvero, quasi, un’abitudine.
Non aveva mai conosciuto una donna così tenace e così incapace di accettare un rifiuto, e normalmente diventava estremamente intollerante con quel tipo di persone, ma lei, a differenza delle altre, era incredibilmente semplice, ingenua, e a suo modo innocente, e questo la rendeva se non altro innocua: non era qualcuno da cui doveva guardarsi le spalle perché tentava di fregarlo con qualche sotterfugio, o da temere perché si nascondeva dietro a maschere, a parole finte, o atteggiamenti fasulli, era tutta lì, limpida e trasparente, e in un certo senso la sua gioia di vivere si spandeva attorno a lei, lucente come i suoi capelli troppo biondi ed i suoi occhi troppo azzurri.
Per quanto potesse sembrare paradossale era in qualche modo riposante avere a che fare con lei, come una giornata di sole abbagliante dopo tanta pioggia.

In fondo bastava solo portare pazienza, prima o poi se ne sarebbe andata.

- Oggi c’è il sole, e sono felice – lo salutò quel giorno.

- Oggi piove, e sono felice perché la pioggia mi pulisce la macchina – gli aveva detto una volta.
O anche:
 - Oggi è nuvoloso, ma io sono felice lo stesso, perché posso vedere te –

I suoi tentativi di conquista erano abbastanza patetici, quasi quanto la sua camminata sui tacchi alti o i suoi accessori di cattivo gusto.

 - Acc… - gli fece poco dopo (per nulla imbarazzata dal fatto che il suo stomaco si fosse rumorosamente fatto sentire) – devo mettere qualcosa sotto i denti, o crepo –

Era sboccata, stupida, e volgare.
E a suo modo metodica.

Non poteva parlare molto, in biblioteca, ma per un quarto d’ora circa gli buttava là diverse frasi, ed ogni volta gli accennava ad alcune cose di sé.
Ad esempio un lunedì gli aveva spiegato che non aveva molte amiche, perché le altre donne la trovavano invadente e rompiscatole (chissà perché, eh?), e che un tempo si era sentita molto sola, ad esempio a scuola, un posto che aveva odiato, in cui si era ritrovata totalmente emarginata.
Un’altra volta gli aveva raccontato del suo primo ragazzo, aveva quindici anni, quando, sue parole testuali, era così stupida che pensava che per farsi amare bisognava farsi toccare le tette. Poi era cresciuta ed aveva iniziato a mollare schiaffoni, ma non doveva preoccuparsi, a lui non ne avrebbe mai tirati (e gli avrebbe anche lasciato toccarle le tette, supponeva, che non erano neppure male, forse un po’ eccessive, come tutto in lei).

Infine, il giorno dopo, aveva asserito convinta che per come era lui, uno così chiuso in se stesso, era probabile che non avesse mai avuto una ragazza, non che fosse un problema per lei, per niente, gli avrebbe spiegato lei come fare, e se doveva dirla tutta le andava benone dato che era gelosa, ed anzi un po’ le dispiaceva di non averlo aspettato anche lei, aveva proprio sprecato il suo corpo con gentaglia.

Nonostante l’immensa stupidità del discorso si ritrovò a trattenere un sorriso, e subito si bloccò, per un momento incredulo.
Era da una vita che non sorrideva, che non provava nemmeno l’impulso di farlo, ed era illogico questo, come se i sorrisi, l’allegria, la felicità, potessero essere contagiosi.
Sciocchezze.

Ma intanto, con queste frasi risibili, che comunque non riusciva a non ascoltare, se ne volavano via le settimane, e arrivava il venerdì, e c’era la visita a suo fratello.

Il lunedì ritornava come una valanga di colori, e frasi sussurrate, anche se ogni tanto lei si dimenticava di parlare piano e qualcuno intorno la zittiva con rabbia.

Ogni volta se ne andava per prima (al lavoro supponeva, se la immaginava con una chiave inglese in mano, in tuta da meccanico) e gli lasciava un bigliettino accartocciato con il suo numero da una parte, ed una frase dall’altra.
Dopo la prima frasetta orrenda era migliorata parecchio, forse troppo, e presto aveva annusato puzza di bruciato.
Aveva fatto finta di niente fino a quando un giorno non gli era venuta la curiosità di controllare: era bastato digitare qualche parola su google per scoprire che si trattava di versi tratti da poesie di Neruda.
L’idea che spacciasse versi celebri per suoi (anche se non lo aveva dichiarato esplicitamente lo aveva fatto intendere), era così ridicola che non aveva potuto non sorridere di fronte al computer.
Ed era la prima volta che sorrideva dopo anni.

Eppure ormai gli capitava spesso di trattenere il sorriso.
Un giorno ad esempio gli aveva raccontato che nonostante i suoi fossero morti in un incidente stradale a lei piaceva guidare, tantissimo.

 - Una volta ti porto al mare, è bello d’inverno, ti piacerebbe – gli aveva detto.

Ed era strano perché era vero, a lui piaceva molto il mare d’inverno, gli era sempre piaciuto.

 - O se preferisci andiamo a fare un giro senza meta, così, allo sbaraglio – aveva rettificato il giorno dopo.

Ed anche quest’idea non gli dispiaceva anche se sapeva che era irrealizzabile: partire, andarsene via, lasciarsi il passato, tutto, alle spalle.

 - O rimaniamo in città, ci giriamo tutte le bettole e poi votiamo la peggiore, ti divertiresti, e magari sorrideresti una volta –

Questo no, grazie, ma ancora una volta trattenne a stento il sorriso.

A volte invece lo irritava terribilmente.
Come quella volta in cui gli aveva domandato cosa faceva il venerdì: non le aveva risposto, non l’aveva neppure guardata (ogni tanto la guardava).
Il giorno successivo gli aveva chiesto brutalmente se andava a trovare suo fratello.
Sasuke non aveva alzato gli occhi ma aveva stretto appena la dita che reggevano il libro, chiedendosi come lo aveva saputo, o per quale caso era riuscita ad immaginarlo.
La volta dopo gli aveva detto che ci aveva pensato molto, e che suo fratello non aveva colpa e faceva bene ad andare a trovarlo, anche se doveva essere dura.
Ed era così banale come frase da essere più che irritante, quasi crudele, eppure era così banalmente vera che l’aveva fissata sorpreso per alcuni secondi.

 - Un giorno mi piacerebbe accompagnarti – gli mormorò prima di riprendere a far finta di leggere.

E chissà come sarebbe stato entrare in quel luogo grigio, in quel mondo grigio, con una persona che era tutto un colore.

Intanto altri giorni erano passati, erano diventati mesi, e senza neppure accorgersene aveva iniziato a rispondere alle sue domande meno stupide, senza sforzarsi molto.

In qualche modo quella tizia sguaiata ed invadente era riuscita a stabilire un contatto, e non riusciva a dispiacersi per questo, non troppo almeno, perché forse davvero l’allegria era contagiosa, ed era come se qualcosa di tutta quella gioia di vivere, una minuscola parte, impalpabile, quasi impercettibile, rimanesse appiccicata sulla pelle.

- Adesso che arrivano le belle giornate dobbiamo proprio partire all’avventura – gli ripeteva ogni tanto – io e te, da soli, liberi e felici, e in culo tutto il mondo –

Libero, felice…come se potesse essere così semplice.

Era tanto che non si permetteva più di sognare, come era tanto che non sorrideva più, e in fondo non credeva che quel gioco potesse durare ancora a lungo: per quanto ottusa, un giorno si sarebbe accorta anche lei che loro due non avevano niente in comune, come due linee parallele destinate a non potersi incontrare mai, ed avrebbe smesso di imporgli la sua presenza.
E chissà, forse quello sarebbe diventato un altro piccolo punto della sua vita cui guardare all’indietro.

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Questo Sasuke freddo, triste e quasi rassegnato, mi serviva per esigenze di copione, ma non mi pare troppo ooc, in caso ditemelo.
E’ da un po’ che sto accarezzando l’idea di scrivere una storia con Itachi vivo ed affetto da malattia mentale, anzi, avevo anche scritta una shot, con un Sasuke più grandicello che mi piaceva molto, ma non mi piaceva per niente come avevo reso Sakura, e l’ho scartata. Però l’idea di base continua a rimanermi in testa, per cui prima o poi la svilupperò.
 
   
 
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