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Autore: La neve di aprile    02/09/2007    4 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
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HAND IN GLOVE
# 9 PROMISES, DRAMAS AND WHISKY

~ part II



 
PARLA IZZY:
Non abbiamo mai più parlato, di quanto accadde quella notte.
Era un tabù, un argomento che non toccavamo mai direttamente e che, tacitamente, era proibito.
Non che non fossi curioso, lo eravamo un po’ tutti: non capitava spesso di vederti in difficoltà davanti a qualcosa,  ma bastava guardarti, guardare come la tua faccia si trasformasse in una maschera di terrore quando casualmente si sfiorava la questione, per capire che non era il caso di chiederti nulla.
Quel poco che sapevo –e tutt’ora so- di tuo fratello, è quello che mi raccontasti quella notte, tra un singhiozzo e l’altro, mentre cercavi di tenere ferma la voce, in una cantilena che seguiva il ritmo affannoso dei tuoi respiri e ti lasciò stremata, nel corpo e nello spirito.
Nemmeno quando venni al suo funerale, nonostante me lo avessi esplicitamente vietato, seppi qualcosa di nuovo.
Sembrava di assistere ad una rappresentazione teatrale, l’ultimo episodio di una saga nel quale si celebra la scomparsa di un personaggio noto a tutti al punto che non vi è nemmeno bisogno di dire altro che il suo nome per evocarne la memoria.
Quel che è certo, è che la sua dipartita cambiò la tua vita, la rivoltò come un calzino, la stravolse molto più di quanto non feci io, con la mia burrascosa comparsa.
Non sei mai più stata la stessa, da quel giorno.
O meglio, a guardarti eri sempre tu, la solita Roxanne: testarda, caparbia, mai disposta a scendere a compromessi.
Ma i tuoi occhi.
I tuoi occhi si riempirono di una luce triste, il tuo fascino divenne quello di una creatura malinconica, autunnale, che non aveva nulla a che vedere con il raggio di sole che eri stata per me.
Ovvio, non fu questo a spingermi a fare quello che ho fatto.
Se le cose tra noi sono andate così come sono andate, non ha nulla a che vedere con quella notte di maggio.
Ma dire che sei rimasta uguale, sarebbe mentire.
 


 
So far away from life
Close my eyes
Hold me tight.

HIM, Bury me deep inside your heart.

 


 
MALIBU’, 28 maggio 1988
Izzy accarezzò dolcemente il volto di Roxanne, illuminato dai raggi argentati della luna che coloravano la stanza, passando oltre le lunghe tende bianche tirate davanti alle finestre aperte.
Era una splendida notte di maggio, calda e limpida: il cielo, costellato di stelle, splendeva orgoglioso sulla metropoli, sfoggiando i suoi gioielli più belli e più preziosi.
La luna, una perfetta sfera perlacea, era la regina incontrastata di quelle tenebre impreziosite da miriadi di gemme, e vegliava maestosa i sogni della città che tardava a spegnerare il suo mare di neon colorati.
Si chinò su di lei, baciandole gli occhi chiusi e gonfi di pianto.
Dormiva da nemmeno mezz’ora, e il suo respiro era ancora interrotto da singulti che sembravano non avere nessuna intenzione di darle pace.
Le scostò una ciocca castana dal volto, affondando le dita tra i capelli e scendendo fino al collo, massaggiandoglielo dolcemente e tenendo le labbra premute contro la sua fronte, nella vana speranza che in un qualche modo potesse trasmetterle un po’ di tranquillità, almeno per dormire serenamente.
Avrebbe fatto possibile e impossibile per evitare che soffrisse in quel modo, ma c’era ben poco che potesse effettivamente fare davvero.
Starle accanto. Ascoltarla. 
Già cercare di confortarla era difficile, figurarsi riuscirci davvero.
Roxanne mugolò qualcosa nel sonno, nascondendo il viso contro il suo petto.
Izzy la strinse a sé, circondandola con le braccia: lei mormorò qualcos’altro, apparentemente cullata da un sonno finalmente liberatore, sospesa in un mondo dove non era morto nessuno e la vita era un susseguirsi di momenti felici e basta, senza tragedie nel mezzo, a spettare un ritmo di per se perfetto.
Non si era mai sentito così impotente in vita sua.
Quel pianto, quelle vere e proprie urla di dolore.
Era sempre stato convinto che solo nei film o nelle televele alla tv potessero esistere scene tanto strazianti, era cresciuto con la certezza che gli esseri umani non potessero soffrire così tanto in una volta sola.
Ma si era dovuto ricredere.
Non aveva mai visto Roxanne disperarsi prima d’allora.
Piangere si, più di una volta, ma disperarsi mai.
Stupidamente si era quasi convinto che non era tipo da lasciarsi andare al punto di perdere la voce e finire le lacrime. 
E adesso avrebbe preferito morire, piuttosto che guardarla piangere così di nuovo.
Nel corso di mezz’ora, quando ancora erano nel salone, si era scolata un’intera bottiglia di whisky e si era lanciata sulla seconda prima che la fermassero.
“Lasciatemi in pace.” era sbottata ridacchiando, quando sia lui che Steven le avevano chiesto per l’ennesima volta cosa fosse successo.
Alla fine, quando anche l’ilarità causata dall’alcol se ne era andata e l’aveva vista sul punto di esplodere, l’aveva presa in braccio e portata via, nella loro stanza.
Una volta lì, non aveva nemmeno avuto il tempo di chiudere la porta che lei si era accasciata per terra dopo un attimo di pausa, fermandosi a metà di una frase, aveva scagliato via le scarpe che indossava, contro una parete, e aveva iniziato ad ansimare, come se stesse soffocando.
“Tiramelo via, Izzy, TIRAMELO VIA!” aveva gridato, cercando in tutti i modi di liberarsi del vestito come se fosse diventato incandescente e la stesse bruciando viva.
Si era liberata dell’abito, ma le cose non erano migliorate: i rantoli si erano trasformati in singulti, le urla si erano fatte strazianti e gli occhi si erano riempiti di lacrime.
L’aveva abbracciata, l’aveva sentita cadere per terra di nuovo, incapace di reggersi in piedi: si era spaventato come mai in vita sua.
Ma aveva lasciato che si sfogasse, senza capire perché ne avesse un così disperato bisogno; non le aveva chiesto nulla, aveva aspettato che fosse lei ad aprirsi.
Se c’era una cosa che aveva imparato, era che metterle fretta non serviva a nulla.
Poi, d’un tratto, il pianto era finito così come era iniziato.
Si era liberata del suo abbraccio, barcollando leggermente, e l’aveva guardato dritto negli occhi.
Non era mai stata tanto bella come in quel momento.
Con addosso solo una sottoveste rovinata dal tempo, i capelli ingarbugliati, il volto coperto da una maschera di trucco sciolto e gli occhi colmi di una tristezza e una disperazione che lo spaventavano, le spalle curve sotto il peso di qualcosa troppo grande per esser sopportato, lei lo aveva guardato e, con una voce assolutamente ferma, gli aveva posto un’unica domanda.
“Perché è morto, Izzy?”
Lui aveva deglutito. 
Chi era morto?
 Non le aveva detto niente, non aveva saputo cosa dirle e nemmeno adesso, mentre le accarezzava i capelli e vegliava sul suo sonno, sapeva cosa avrebbe potuto dirle. Aveva sbattuto le palpebre, mentre gli occhi le si offuscavano, coperti da una cortina di nuove lacrime.
“Perché mio fratello è morto...?” aveva bisbigliato, reclinando il capo all’indietro, “Perché, adesso che stava andando tutto bene?”
Si era sentito mancare.
L’aveva fatta sedere sul letto, dove era rimasta per un tempo sembratogli infinito, aspettando che si decidesse a proseguire.
Con una voce che non sembrava la sua, gli aveva raccontato di come avessero trovato il suo corpo in un vicolo, dietro casa sua.
Overdose. Eroina tagliata male.
“Stava cercando me, aveva bisogno di me e io non c’ero!” aveva esclamato, persa in un mare di pensieri che iniziava ad essere troppo burrascosi: si stava lasciando trascinare sotto la superficie, senza più aria nei polmoni. S
tava annegando
.
“Non è colpa tua,” era sbottato, scuotendolA, "non-è-colpa-tua!” aveva scandito bene le parole, sicuro che sarebbero rimaste ugualmente inascoltate ma con la certezza che dirle dirle equivale a lanciare un salvagente ad un naufrago, regalare una speranza a chi pensa di non averne più.
Come inebetita, Roxanne lo aveva guardato in silenzio.
“...non morire prima di me, Izzy.” aveva sussurrato, le mani strette in grembo “Non lasciarmi anche tu..”
Il chitarrista si era sentito stringere il cuore e l’aveva abbracciata, giurandole che non avrebbe mai fatto una cosa del genere: aveva continuato a ripetere la stessa identica promessa anche quando lei aveva ricominciato a piangere,  l’aveva fatto fino a quando non si era addormentata, stremata.
Qualcuno bussò timidamente alla porta, facendolo sobbalzare.
Guardò Roxanne: dormiva, pacifica.
Le baciò una guancia, scivolando giù dal letto e rimboccandole le coperte.
La vide stringere il cuscino a se e non seppe trattenersi dal sfiorarle il viso con un’ennesima carezza, prima di raggiungere la porta e socchiuderla.
Fuori, ad aspettarlo, c’erano Steven e Slash, entrambi con l’espressione più tirata e preoccupata che Izzy avesse mai visto sulle loro faccie in tanti anni.
“Sta dormendo” esordì a bassa voce, chiudendosi la porta alle spalle e posandovi la schiena sopra.
“Ma sta bene?” indagò Slash, mescolando le parole al fumo della sigaretta che stringeva tra le labbra.
“Insomma..” si strinse nelle spalle “Ha avuto momenti migliori. Sicuramente sta meglio che non un’ora fa.”
“Che cazzo è successo?” sbottò Steven, dopo un attimo di silenzio. La sua voce riecheggiò nel corridoio deserto, rimabalzando di parete in parete “Chi era al telefono?”
“Abbassa la voce.” sibilarono contemporaneamente i due chitarristi.
“Scusate..” borbottò il batterista.
“Non ti preoccupare, Stevie.” Izzy abbozzò un sorriso, posando una mano sulla spalla dell’amico “Era sua madre, comunque.” i suoi occhi verdi sfilarono inquieti tra i due, senza trovar pace.
“Sua madre?” Slash si agitò, tanto che Izzy si chiese se non avesse intuito qualcosa.
“Si. A quanto pare, suo fratello è morto.”
I due ragazzi davanti a lui ammutolirono, fissandolo in silenzio.
“E come?” chiese Steven cauto, con un filo di voce.
Era la domanda che il ragazzo riccioluto non aveva avuto il coraggio di fare, la risposta che l’altro non voleva dare.
Izzy abbassò lo sguardo, esattamente come quando aveva chiesto la stessa cosa a Roxanne e ne aveva udito la risposta, un soffio disperato che si era trasformato ben presto in un violento singhiozzare.
“Overdose.” sussurrò, senza riuscire ad alzare gli occhi sui due.
Forse era la sua immaginazione, ma sentì pulsare dolorosamente un punto indefinito sull’avambraccio, dove era solito infilare l’ago della siringa.
Si strinse il braccio e, quando finalmente riuscì a guardare nuovamete gli altri due ragazzi, vide che stavano facendo la stessa cosa.
Era la loro colpa, a bruciare come un marchio.
 

 
Tears laid for them
Tears of love, tears of fear
Bury my dreams dig up my sorrows
Oh Lord, why
The angels fall first?

Nightwish, Angels fall first. 

 

 
Roxanne si svegliò con la sgradevole sensazione che qualcosa fosse irrimediabilmente fuori posto, ma rimase distesa sul letto, stringendo al petto un cuscino intriso del profumo di Izzy e fissando la finestra, nascosta dalle lunghe tende color neve, appena appena mosse dal vento che saliva dal mare, ridotto ad un costante e basso ruggito in lontanaza: era in bilico su un mistero, in quella terra di nessuno dove ci si ritrova al risveglio quando sogno e realtà si confondono fino a mescolarsi in un unico grande colore, e stava per scioglierne il velo e vederlo per quel che era.
Sbatté le palpebre, cacciando indietro ogni ricordo e ogni pensiero, astraendosi fino a dimenticare ogni cosa, compreso il suo nome: non sapeva cosa, non sapeva perché, ma sentiva che scostare quel velo avrebbe mostrato qualcosa di orribile che non voleva ancora affrontare.
Si rannicchiò in posizione fetale, sotto le coperte, come quando da bambina non voleva vedere la luce del sole e rassegnarsi all’idea che una nuova giornata fosse cominciata, lottando per riacchiappare gli strascichi di un sogno sbiadito.
Un’abitudine che si portava dietro da sempre, un rituale che l’accompagnava ogni mattina.
Teneva lontana la luce, rimandava il momento in cui avrebbe sentito Izzy alzarsi e andarsene, privandola del suo calore e della sua presenza.
Come si sentiva sola, quando la porta della sua stanza si chiudeva dolcemente.
Come si sentiva abbandonata, ogni volta che i passi del ragazzo si facevano sempre più flebili lungo il corridoio.
Eppure sapeva che se gli avesse parlato, se lo avesse salutato, sarebbe stato mille volte più doloroso il distacco.
Ma come era dolce, sentire  di tanto in tanto quei passi tornare indietro, sentire la porta aprirsi, sentire il peso di Izzy su di sé e le sue labbra calde sul viso.
Il profumo del caffè che invadeva la casa, lo sfrigolio delle frittelle in una padella consumata, il fumo della prima sigaretta, la luce dorata del mattino nella piccola cucina.
Sorrise tra sé e sé, nascondendo il viso contro il cuscino, persa in ricordi che la facevano stare bene al punto da non accorgersi della porta che si apriva, dello spiraglio di luce che cadeva sul pavimento e della figura che si sedeva accanto a lei.
“Amore..”
Izzy: riaprì gli occhi.
Gli sorrise, allungando le mani fino a prendergli il viso e avvicinarlo al suo, per dargli un bacio.
Lui sorrise a sua volta. 
Qualcosa, però. Qualcosa continuava a non quadrare. Gli occhi di Izzy, insolitamente tristi, la misero in allarme.
“Che c’è?” chiese, mettendosi a sedere.
“Nulla.” il ragazzo le sorrise, allungandosi accanto a lei “Mi mancava la tua voce.”
“Ehi...” Roxanne incurvò le labbra verso l’alto, attirandolo a sé, “non mi rubare le battute.” mormorò, nascondendo il viso nell’incavo della sua spalla.
Automaticamente, una mano di Izzy salì ai suoi capelli, dove affondò in un mare di onde scure e calde.
“E come fai a ricordare una cosa che mi hai detto una vita fa?” indagò il chitarrista, sorpreso.
Enigmatica, lei sorrise.
“Io ricordo tutto quello che ti riguarda, Izzy Stradlin.” rispose con un soffio, abbracciandolo stretto.
Non le rispose, assaporando la deliziosa sensazione di quel piccolo corpo premuto contro il suo, avvertendone il calore farsi strada oltre i suoi vestiti e confluire dritto al suo cuore.
“Stai meglio?” le domandò dopo qualche attimo, continuando ad accarezzarle i capelli.
Roxanne non disse nulla, ma smise di respirare.
Simile a doccia ghiacciata, tutto ciò che era accaduto nelle ultime ore le piombò addosso, paralizzandola completamente.
Una serie di immagini, di istantanee della serata, le sfrecciò davanti agli occhi, mescolandosi a vecchi ricordi un po’ più sbiaditi.
Il sorriso di Duff, l’abito di Erin, una risata di Izzy, la fetta di torta in un piattino di ceramica bianca, un nastro bianco contro il cielo azzurro, il rumore della doccia, sua madre in cucina e suo fratello coperto di farina dalla testa ai piedi, Slash e il suo cilindro, la pista da ballo gremita, un vicolo soleggiato di Los Angeles e la sua vecchia bicicletta rossa appoggiata ad un muro, il Jack Daniel’s, la telefonata.
Quando riprese a respirare, si sentì più vecchia di vent’anni.
“..non lo so.” ammise alla fine, rotolando sulla schiena e fissando il soffitto della stanza.
Aveva l’impressione che fosse il braccio di Izzy, allungato sulla sua pancia, a tratterla lì.
“Posso fare qualcosa?”
“No, a meno che tu non possa farmi tornare indietro nel tempo.” un sorriso amaro le incurvò le labbra, mentre voltava il capo verso il ragazzo.
Era tranquillo, gli occhi di quell’indecifrabile verde scuro traboccavano amore e nient’altro.
“Ma sei un tesoro a chiedermelo,” aggiunse, prima di tornare a guardare il soffitto.
Nessuno dei due aggiunse altro, mentre la notte si consumava sopra una delle tante città che non dormono mai, sbiadendo ad est, là dove il sole avrebbe fatto capolino tra i grattacieli e i casermoni popolari, dimenticati dal mondo: sembrava non esserci nulla da dire.
Stava quasi albeggiando, quando Roxanne sentì le parole risalirle la gola spontaneamente, le avvertì stuzzicare le corde vocali e reclamare il loro spazio nel mondo.
Per quanto male potesse farle, sapeva di doverle lasciare andare, di non essere in grado di soffocarle né tantomeno di poterle sopportare a lungo.
E se c’era qualcuno con cui poterle condividere, questo qualcuno era accanto a lei e la guardava come se fosse la cosa più preziosa e bella di questo mondo, nonostante fosse ridotta a uno straccio.
“Sai, quando eravamo piccoli, io e Matty eravamo inseparabili.” iniziò a raccontare, sentendo gli occhi pizzicare nel pronunciare il nomignolo del fratello “Pur non sopportandoci, eravamo sempre appiccicati. O meglio, io ero appiccicata a lui.”
“Era più grande di te?” Izzy la tirò vicino a se, intuendo quanto le costasse parlare. 
Non aveva mai amato nessuno così come amava lei in quel preciso momento.
“Matthew? Aveva tra anni più di me.” chiuse gli occhi, intrecciando le dita con quelle del ragazzo.
“Quando ero alle elementari, mi cacciavo sempre nei guai e lui doveva correre in mio soccorso, ogni maledetta volta. Ero un caso umano, sai? Ovunque andassi, rompevo qualcosa o combinavo disastri.”
“Faccio fatica ad immaginarti con addosso vestitini rosa di pizzo, in effetti.” commentò Izzy, strappandole una breve risata.
“Matty era il mio angelo custode,” riprese pacata, immergendosi nelle acque insidiose dei ricordi senza seguire una meta precisa, “e piaceva a tutti, aveva un cuore d’oro. Era l’orgoglio di mia madre, avresti dovuto vedere come le brillavano gli occhi quando era accanto a lei! Il primo della classe, amico di tutti. Ai miei occhi, poi, era bellissimo: aveva una marea di riccioli biondi e gli occhi blu, non mi somigliava per niente.” fece una smorfia “Avrei pagato per essere come lui, per sentirmi fare i complimenti che lui riceveva. Spesso mi vergognavo dei miei capelli e del mio viso, del mio aspetto ordinario che non aveva nulla a che spartire con la sua bellezza.” rise, senza troppa convinzione.
Un nodo le stringeva la gola, ma non riusciva a fermarsi.
“Nessuno di noi ha mai capito perché abbia iniziato a drogarsi. Sembrava andasse tutto bene, sembrava non ci fossero problemi! Era una persona con la testa sulle spalle, tra me e lui era lui quello respondabile: non fumava nemmeno! Era a lui che presentavo i miei ragazzi, non a mio padre. Mi fidavo ciecamente del suo giudizio, molto più che non di quello dei miei genitori. Non eravamo esattamente quella che si può definire una famiglia felice, i miei si ammazzavano di lavoro per avere qualcosa da mettere sotto i denti e proprio perché eravamo sempre soli, io e Matthew ci siamo presi cura l’uno dell’altra. O meglio, lui si prendeva cura di me, io non ero capace di fare altro che combinare disastri su disastri.. Ma comunque. Ha iniziato rubacchiando pasticche dall’armadietto dei medicinali, per quello che ne so, poi le pastiglie si sono trasformate in una sniffata di coca al sabato sera e alla fine, come succede quasi a tutti, è diventato eroinomane. Ho sempre voluto creduto che fosse tutto a posto, fino a quando un giorno non l’ho trovato in camera mia, a frugare tra le mie cose: ‘Hai qualche spicciolo, Rox?’ mi disse ‘Sono un po’ a secco, ma te li restituisco, giuro!’. Fu orribile, non sai quanto. Mi fece paura tale che quando provò a toccarmi urlai. Non era mio fratello, quel fantasma con gli occhi infossati, non era il Matty che mi tirava sempre fuori dai guai.” si morse le labbra, stringendo la mano di Izzy, che l’ascoltava in silenzio secondo le regole di un ballo che avrebbe preferito non esser costretto ad imparare.
Roxanne inspirò a fondo, dominando il tremore della voce.
“In ogni caso, fu solo quando lo arrestarono la prima volta che le cose precipitarono: sapere che l’angelo di casa era diventato uno dei tanti spacciatori della città, fu una cosa troppo grossa per essere ignorata. I miei iniziarono a litigare, mio padre perse il lavoro e l’avvocato prosciugò tutti i nostri soldi. Quello che era un brutto sogno si trasformò nel peggiore degli incubi. Ogni scusa era buona, pur di non restare tra quelle quattro mura: fu in quel periodo che capitai all’Underpass e Alec mi accolse sotto la sua ala protettrice, diventando una sorta di secondo padre per me.  Fu lui a costringermi a finire il liceo. All’epoca ero convinta che studiare non mi servisse a niente, che il mio destino era quello di lavorare e basta, per mantenere mia madre. Il college era un miraggio, poco via che un’utopia, non mi facevo illusioni a riguardo. Laurearmi.. e dove avrei trovato i soldi per mantenermi? No, fosse stato per me avrei mollato baracca e burattini, buttandomi nel lavoro. Amai subito l’Underpass, ma Alec fu perentorio: non mi avrebbe assunta a meno che non avessi continuato a studiare. Mi diplomai, non so nemmeno come, e solo allora cominciai a lavorare seriarmente al locale, andai a vivere sola. La mia vita cominciò ad avere un senso degno di questo nome. Certo, non era la favola a lieto fine su cui fantasticavo prima di addormentarmi quando avevo cinque anni, ma era quanto di meglio potessi sperare di ottenere.” s’interruppe, voltandosi a guardarlo “Poi sei arrivato tu, Mr. Stradlin. E il resto è storia nota.” abbozzò un sorriso, senza riuscire a frenare una lacrima che rotolò solitaria lungo una sua guancia.
“...sei incredibile, lo sai?” Izzy la guardò negli occhi, senza paura di sprofondare in quel mare color cioccolata, agitato dalle tempeste del dolore.
“Non dire così, semplicemente mi arrangio.” arricciò il naso con una smorfia “Certe volte non c’è altro da fare.”
“No, non intendevo questo.” si rizzò a sedere, abbracciandosi le ginocchia “Io ho iniziato a bere e a farmi di erba per molto meno, Roxanne, non sono mai stato capace di arrangiarmi da solo.”
“Ognuno affronta i propri problemi come può, Izzy, non credere che i tuoi fossero meno gravi dei miei.” si inginocchiò sul letto, andando dietro al ragazzo e posando il viso tra le sue scapole.
“Resta il fatto che avrei dovuto smettere. Che dovrei smettere, perché non c’è motivo di continuare adesso che le cose vanno così bene.”
“Ci abbiamo già provato, ne abbiamo già parlato.” la voce della ragazza era sfumata di stanchezza “Lo sai come la penso, no? Non posso obbligarti smettere, si tratta di te e di quello che vuoi. Posso solo starti accanto, non obbligarti. È tutto questione di volontà, quando sarai pronto lo saprai.”
Izzy tacque. Si abbandonò contro la ragazza, che gli circondò il collo con la braccia, baciandogli i capelli.
“Sai di buono, Izzy” mormorò sottovoce “Sei buono. Io so che sei buono e che un giorno tutto questo non sarà altro che un vecchio ricordo, so che niente è per sempre e che il domani nasconde sorprese che possono fare paura. Ma quello che sei adesso, in questo preciso momento, in questa stanza, io lo ricorderò per sempre come uno dei momenti più dolci di tutta la mia vita.”
“Io preferisco pensare che il domani invece nasconde cose che potrebbero diventare ricordi molto più belli di questo.” si voltò, posando le mani su suoi fianchi.
“Non era questo che intendevo..” protestò lei, mentre lui si sporgeva in avanti.
“..lo so.” la schernì, prima di chiuderle la bocca con un bacio “Lo so che non era questo che intendevi.”
“E’ solo che.. Izzy, io so di non essere la ragazza perfetta per il tuo genere di vita, non posso andarmene da L.A. troppo spesso e seguirti in giro per il mondo. Certe volte ho paura che tu ti stufi di tutto questo, delle attese, delle telefonate...”
“Hai paura che ti lasci per questo?” il chitarrista posò le mani sulle sue braccia.
“Un po’.” ammise la ragazza, dopo qualche attimo di silenzio.
La risata di Izzy la colse di sorpresa, facendola sobbalzare e, quando il ragazzo si voltò e le prese il viso tra le mani, senza smettere di ridere, aveva ancora gli occhi sgranati.
“Certo che sei veramente assurda, amore mio.” le disse, sfiorandole la fronte con la labbra, scendendo al naso e fermandosi sulle sue labbra.
“Semmai sono io che devo aver paura che tu incontri qualcuno migliore di me che ti faccia capire quello che realmente meriti!”
Roxanne sorrise, accantonando lo smarrimento, e si lasciò cadere sulla schiena, tirando giù Izzy con se.
“Ognuno merita ciò che sceglie.” sussurrò, semplicemente, con un mezzo sorriso.
 


I saw you the other day
I just wanted to sit and talk a while.

Sophia, Lat night I had a dream.

 

 
LOS ANGELES, giugno 1988
Un vento teso e fresco spazzava il prato verde smeraldo, costellato di lapidi bianche e grigie.
Qualche tomba era completamente avvolta dalle foglie lucide e scure di un’edera, qualcun’altra era nascosta dai colori sgargianti dei fiori portati da chissà chi e chissà quando, in un tripudio gioioso in netto contrasto con il religioso silenzio che abbracciava il cimitero.
Izzy affondò il volto nella sciarpa scura che portava attorno al collo, lasciando lo sguardo spaziare sul quel piccolo prato, nascosto da una minuscola chiesetta nella periferia della città, una parte della metropoli dimenticata dai grattacieli e dai casermoni.
Roxanne, piccola e minuta nel vestito nero, se ne stava ben dritta accanto alla madre, una donnina minuscola dagli occhi azzurri e lunghi capelli biondi, nascosti da una discreta retina nera.
Entrambe continuava a stringere mani ed elargire abbracci, accompagnando i gesti con brevi frasi appena mormorate e sorrisi tirati, che riempivano di lacrime gli occhi di Izzy.
“Sigaretta?”
Si voltò di scatto, nel sentire la voce: alle sue spalle: Christopher gli offriva una Malboro, con un sorriso gentile.
Lo riconobbe subito, solo guardando i suoi incredibili occhi acquamarina.
“Grazie.” ne sfilò una dal pacchetto, facendosela accendere dal ragazzo che gli si affiancò.
“Sono incredibili.” commentò questi, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni scuri, sdruciti.
“Non hanno scelta.” replicò Izzy, inspirando una generosa boccata di fumo.
“Oh, c’è sempre una seconda scelta.” sorrise il biondo cantante dei Kinslayer “Avrebbero potuto disperarsi e riufiutarsi di andare avanti. Oppure avrebbero potuto non fare nulla, e questa è già una terza scelta.”
“Roxanne non avrebbe mai fatto qualcosa del genere, non è da lei.” il chitarrista soffiò fuori il fumo solo quando sentì i polmoni bruciare per la mancanza di ossigeno “E non credo che sua madre sia poi tanto diversa.”
“Sbagli.” Christopher si sedette nell’erba, allungando le gambe davanti a se. Izzy lo imitò, inclinando il capo di lato, incuriosito “Mi sorprende che sua madre sua qui.”
“Che vuoi dire?” domandò, tornando a guardare le due donne, una accanto all’altra, che continuavano quel rituale scambio di abbracci e parole.
“Elizabeth non è mai stata una donna di carattere, ha sempre preferito fuggire dai problemi e dai dolori, piuttosto che affrontarli.” inspirò a fondo l’aria fresca d’inizio estate, i capelli biondi agitati dalle mani invisibili del vento “Probabilmente Roxanne ha dovuto fare i salti mortali per buttarla giù dal letto, questa mattina.”
Izzy abbassò lo sguardo, seguendo l’ondeggiare di una piccola margherita bianca.
“Questo non lo sapevo.”
“Oh, credimi, Roxanne non ama parlare della sua famiglia, non credere che non te l’abbia detto perché non si fida di te.” rise il biondino, posandogli una mano sulla schiena, con fare consolante “Se io ti dico questo è perché la conosco da una vita e so che aria tirava in casa sua, tutto qui.”
“Già.” il chitarrista inspirò a fondo, senza prendersela “Quando sua madre ha chiamato, è stato dura scucirle di bocca quello che era successo. È molto riservata, per quanto riguarda la sua vita privata.”
“Eri con lei?” gli occhi color acquamatina seguirono Roxanne sul prato, mentre si voltava brevemente verso la lapide del fratello.
Izzy annuì, imitandolo.
Moriva dalla voglia di correre da lei e abbracciarla forte, ma al tempo stesso aveva paura di un confronto: era stata lapidaria, molto più che chiara, quando aveva detto che non voleva nessuno al funerale, che preferiva andarci sola.
Ma non aveva il cuore di obbedirle, qualcosa gl diceva che non era una buona idea lasciarla sola.
“Ci saranno state sette persone minimo vicino a lei, quando ha chiamato.” disse, soffiando fuori una nuvola di fumo che il vento disperse immediatamente “Eravamo al matrimonio di Duff.”
“Nessuno in casa sua è mai stato un mago in quanto a tempismo.” la voce di Christopher suonò amara, per nulla ingentilita dal timbro naturalmente morbido.
“Le vuoi molto bene, vero?”
“E’ la sorella che non ho mai avuto.” sorrise pigramente al sole, alzando il volto al cielo “Le devo molto.”
“Mi ha raccontato che vi ha scovati lei.” commentò il chitarrista, rubando un ultimo tiro alla Malboro prima di spegnerla e lanciarla lontano.
“Ah-ah.” Christopher annuì “E’ stata la prima a credere in noi. Ha un fiuto da paura, per quanto riguarda la musica: tutto quello che a lei piace sfonda nel giro di qualche mese al massimo. Noi siamo l’eccezione che conferma la regola.” rise, per nulla impensierito.
“Per essere bravi siete bravi.” osservò Izzy “Non capisco cosa vi manchi.”
“Fondamentalmente niente. A noi va bene così, ci piace suonare per il gusto di farlo e non perché un contratto ci obbliga.”
Il chitarrista annuì, chiudendo gli occhi.
Condivideva in pieno il pensiero di Christopher, lui per primo odiava esibirsi solo perché un pezzo di carta lo stabiliva.
“Così è!” sospiro il biondino, passandosi una mano tra i capelli “Piuttosto, direi che siamo un tantino nella merda, Stradlin.”
“Perché?” Izzy riaprì gli occhi, perplesso.
“Roxanne aveva vietato anche a te di venire oggi, vero?”
“Si, ma non...oh cazzo!”
Roxanne li aveva visti.
E stava marciando su di loro con un’epressione che non prometteva nulla di buono.
“L’hai detto.” sospirò il cantante.
 

 
Don't ya think that you need somebody?
Don't ya think that you need someone?
Everybody needs somebody
You're not the only one
You're not the only one.

Guns N’ Roses, November Rain.

 

 
“Cosa-diavolo-ci-fate-voi-due-qui?” sbottò la ragazza, piazzandosi davanti a loro con le gambe larghe e le mani sui fianchi.
I due ragazzi si guardarono, stringendosi nelle spalle.
Titubante, Izzy le sfiorò il viso con una carezza.
Lei lo fulminò, ritraendosi impercettibilmente.
“Ero... eravamo preoccupati per te.”
“Puoi fare la dura quanto ti pare, ma non ce la dai a bere.” continuò Christopher, sorridendole affettuosamente.
Con un cenno del capo, indicò la madre della ragazza, da sola davanti alla lapide del figlio “Come sta?”
Il volto di Roxanne conservò un cipiglio irritato per qualche attimo ancora, prima di perdere ogni espressione.
Scrollò le spalle, tirando le labbra in una linea sottile.
“Un genitore non dovrebbe mai seppellire il figlio.” rispose semplicemente “E’ a pezzi. Mio padre non si è fatto vedere nemmeno per sbaglio e io non so più che pesci pigliare. Vorrei prenderla a schiaffi, ma mi rendo conto che non è la cosa più indicata da fare, al momento.”
“Ci parlo io.” decretò il ragazzo con gli occhi azzurri, sorridendo alla mora “Tu prendi un po’ di fiato, d’accordo? Hai l’aria stravolta. La riporto a casa e la tengo d’occhio per un po’.”
“Grazie Chris, sei un angelo.” abbracciò l’amico, prima di lasciarlo andare  e voltarsi verso Izzy, che raramente l’aveva vista così sbattuta.
Due borse violacee le cerchiavano gli occhi e sembrava dimagrita: nulla a che vedere con la ragazza che aveva lasciato qualche giorno prima, quella che sembrava una diva degli anni ’50 in uno splendido abito blu.
“Mi sei mancato,” sussurrò, abbracciandolo stretto, “mi sei mancato da morire, Izzy”
Il chitarrista sorrise, accarezzandole la schiena.
“Mai quanto tu a me.” ribatté, allontanandosi per guardarla negli occhi. 
Occhi stanchi, senza nemmeno la forza di piangere un altro po’.
“Se avessi saputo che ti saresti ridotta così, non ti avrei lasciata venire sola.” protestò, seguendola lungo il dolce pendio della collina.
“Lo so.” la vide abbozzare un sorriso “Per questo ti ho detto di non venire, cosa credi?”
“Ma ti avrei dato una mano!”
“Era una cosa che dovevo fare da sola, e lo sai. Mia madre... non è una persona facile, ti avrebbe reso la vita un inferno, molto più di quanto non sia riuscita a fare con me. Mancava poco che mi picchiasse, quando le ho detto che dovrebbe liberarsi delle cose di Matty.” sospirò, posando il capo sulla spalla di Izzy “Ringrazio il cielo sia tutto finito.”
“Dovevi chiamarmi, se le cose erano davvero così terribili! Sei un essere umano, non una macchina, anche tu hai bisogno di respirare ogni tanto. Non devi essere sempre perfetta, Roxanne, tantomeno con me. Potevi dirmelo.”
“Lo so, Izzy, lo so!” La ragazza sospirò “E’ che non è facile lasciarsi andare dopo che per anni non si ha mai abbassato la guardia. Per tutti sono sempre stata quella che non molla mai, quella che sorride sempre e sa sempre quale è la cosa giusta da fare. Ma la verità è che io non so sempre cosa fare, anche io vorrei ogni tanto lasciare che qualcuno decidesse per me.”
“Facciamo un patto, vuoi?” propose, dopo qualche attimo, Izzy “Tu la smetti con questa tua brutta abitudine di voler sempre fare tutto sola e io ti prometto che farò il possibile per rimanerti accanto ogni volta che vorrai e che ne avrai bisogno.”
“Sul serio?” la ragazza sembrava dubbiosa. Si fermò, tirando il braccio del chitarrista affinché facesse lo stesso.
“Sul serio.” le sorrise di rimando, pizzicandole scherzosamente il naso.
“Affare fatto, allora.” si sciolse in un sorriso, alzandosi in punta di piedi per dargli un breve bacio “C’è ultima cosa da fare, allora.”
“Cosa?” Izzy le passò un braccio oltre la vita, tirandola a sé.
Roxanne inspirò a fondo, mentre il vento giocava distrattamente con i suoi capelli.
Ai suoi piedi, una lapide bianca e liscia si ergeva davanti ad un rettangolo di terra fresca, dal profumo intenso.
Sul marmo, solo un nome e due date.
Matthew May
13 gennaio 1962 – 28 maggio 1988
 
“Matty, ti presento Izzy” iniziò a dire con un mezzo sorriso “È il mio ragazzo, una persona meravigliosa che amo da morire. È un po’ timido, ma vedrai, ti piacerà.”
 


PARLA IZZY:
La tua faccia, mentre parlavi alla tomba di tuo fratello.
È stampata nella mia mente e, per quanto abbia provato a dimenticarla, non ci sono mai riuscito.
Non piangevi e nemmeno sorridevi, ma i tuoi lineamenti erano pregni di una dolcezza sconvolgente.
Rimanemmo lì per ore, anche quando il sole appiccò un incendio al cielo e iniziò a cadere tra le colline, colorandole con i suoi raggi infuocati.
Parlavamo, ogni tanto, ma per lo più restavamo in silenzio ad ascoltare il fruscio del vento.
Era quasi buio, quando finalmente ti decidesti ad andartene: mi presi per mano e ci incamminammo verso la notte che avanzava.
Che io sappia, non sei mai più tornata in quel cimitero né hai mai più parlato di Matthew.
 Lo hai chiuso in un angolo del tuo cuore, dove il tempo e l’oblio non possono toccarne il ricordo e alterarlo in un qualche modo.
Non lo hai dimenticato, come ti accusò tua madre qualche anno dopo, mentre per l’ennesima volta ti rifiutavi di accompagnarla a cambiare i fiori davanti alla tomba.
Non potresti mai: tu non dimentichi nulla.
E’ tutto dentro di te, anche il più stupido dei ricordi tu lo conservi come se fosse fondamentale.
Tuo fratello prima, tua madre poi.
Potrei chiederti qualsiasi cosa e tu la ricorderesti.
Ma al tempo stesso, se qualcosa ti faceva soffrire non esitavi un attimo a dimenticarla.
Quello che mi chiedo io, adesso, è se hai dimenticato anche me.
O se sono diventato uno dei tanti nomi che non pronunci mai e custodisce gelosamente.
Se devo essere sincero, non so quale sia la migliore tra le due alternative.


   
 
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