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Autore: QUILMES88    14/02/2013    0 recensioni
"Un giorno Franco fece una scoperta straordinaria. Scoprì un mondo nuovo. Quel mondo gli si apre solo quando chiude gli occhi e il suo corpo riposa, ovvero quando dorme e si trova in un sogno. Ciò che accade è di entrare nel sogno, di essere consapevole di stare sognando e improvvisamente di diventarne il regista.
Dopo essersi informato scoprì che quel raro fenomeno viene definito “sogno lucido” e che è molto diffuso.
Inizialmente, quando nelle ore di riposo notturno precipitava in quella dimensione, tutto era casuale, instabile e privo di un ordine; ora, invece, sembra che quel mondo abbia finalmente perso la sua dinamicità iniziale tanto da illuderlo, a volte, che esso appartenga a tutti gli effetti alla realtà, quando invece non è nient'altro che una proiezione, seppur sensazionale ed estremamente realistica della sua mente."
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta
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Come una rosa sotto un temporale, così è fragile quel ragazzo dal viso d'angelo e dagli occhi color noce. Fragile come il mondo, dopotutto; che dopo decenni di stupri tenta di insegnare ancora qualcosa; quel poco che gli hanno lasciato da vivere.

Al funerale di mia madre un pastore si sedette accanto a me e iniziò a fissarmi, con il gomito appoggiato sullo schienale della panca e con una specie di sorriso disegnato sulla bocca. Mi disse che la cosa più importante che io potessi fare fosse cercare di redimere la mia anima, a qualunque costo.

Il giorno in cui mia madre è morta Franco non c'era; forse era nel “Barro”, ma era sicuramente stata una scelta sua. L'ho perdonato, anche se non si è presentato nel momento più doloroso di tutta la mia vita e credo che in qualche modo lui l'abbia capito anche se è riuscito a dimostrarmelo soltanto con un pianto. Ecco perché ora siamo molto uniti.

E' molto più orgoglioso di quanto non voglia far credere ma di sicuro sono pronta a perdonargli qualunque errore, anche perché nessuno ha sofferto quanto lui, da sveglio.

 

 

21/02/2010

 

Mai come quel giorno ebbi voglia di camminare ed era facile farsi scivolare il lungo marciapiede sotto i piedi nuovi. Stretto nella mano, mi accompagnava un Cd di quel Paco de Lucia che avrei dovuto, secondo il vecchio, ascoltare da solo e in silenzio.

I marciapiedi finivano ed iniziavano in una successione di lunghi segmenti diritti e ognuno di essi era un isolato abitato da persone di ogni conosciuta provenienza. Molti visi, alcuni puliti, altri meno e tantissimi colori e tanta personalità in quelle persone così diverse e variegate. Gente spensierata, gente preoccupata. Gente eccentrica, gente sobria. Gente comune e nessuno come me, nessun disperso, tranne me.

Soltanto io ero uno straniero e come ogni straniero che si rispetti non avevo niente a che fare con quel posto e nonostante questo, il tranquillo vagare per la città non pareva poi così casuale. Come in tutte le grandi città, nessuno di quei volti aveva tempo di osservare un ragazzo camminare occupato a notare i dettagli degli edifici, le voci provenire da ogni direzione, le facce dietro i parabrezza delle macchine.

Il mio orologio continuava a sparare orari impossibili ma io avevo bisogno di sapere, per qualche strano motivo, che ore fossero.

Nel marciapiede di fronte un gruppo di quattro ragazze camminava anch'esso nella stessa direzione in un volgare alternarsi di tacchi bassi e gambe magre, quasi scheletriche. Una di esse indossava una corta gonna nera che teneva strette le gambe come un giro di nastro adesivo tiene attaccate due lunghe candele bianche. Ridevano, parlavano fra loro, si specchiavano nelle vetrine, mi guardavano e sussurravano chissà quali oscenità o chissà quali innocenti dolcezze.

Ragazze carine, capelli castani, biondi, neri, lisci, mossi, corti e lunghi, come piacciono a me e poi un profumo teso e molto poco delicato, quasi volgare. Sebbene le guardassi da quella distanza era facile intuire che nelle loro movenze stentavano a nascondersi la verginità e l'innocenza. Una di loro allungò il collo verso me ed urlò:

- Come ti chiami?

- Tu come ti chiami? - le gridai.

- Delcine. Y tu?

- Franco - la ragazza sorrise mostrando i sui bianchi denti e ancor di più il suo magro collo stirarsi felice verso me.

Una delle ragazze, quella con i capelli biondi e raccolti in una lunga coda si lanciò verso Delcine e afferrandole il braccio mi si rivolse contro sorridendo e gridando:

- Dove vai Guapo? -

- “Guapo”? - pensai; che diavolo significa?

- Mi chiamo Franco.

Tutte e quattro le ragazze scoppiarono in una risata che pareva uno starnazzare di oche e anatre.

I marciapiedi iniziarono a distanziarsi sempre più l'uno dall'altro a causa di una grande rotatoria nel cui centro si elevava un enorme volto umano fatto di ferro, probabilmente una scultura d'arte moderna, un obbrobrio ai miei occhi. Le ragazze si fermarono all'angolo della strada. Parlavano fra loro, si consultavano e qualcuna di esse talvolta mi guardava e io ricambiavo con uno sguardo. Ero eccitato e sopraffatto dall'emozione più potente che esista.

Non avevo intenzione di lasciare la strada per seguirle in quanto avrei corso il rischio di perdere l'orientamento e addio “El Cruze” ma di certo non avrei mai pensato che sarebbe stato così facile distrarsi e lasciare il percorso che avevo intrapreso. Due delle ragazze mi guardavano; una con timidezza, l'altra con una ben più evidente disinvoltura. Le altre due, invece, sembravano intente a parlarsi e a decidere in che direzione andare. Di certo io non ero il tipo da fare il primo passo e probabilmente le ragazze intuirono questa mia, se così si può definire, debolezza.

Da qualche parte un tizio con una gran bella voce stava cantando una gran bella canzone. Cantava “Shake a hand”, una melodia gospel meravigliosa.

Nel frattempo mi voltai e guardando indietro notai un bellissimo parco estendersi a vista d'occhio, costellato di grandi alberi e piccole, basse colline verdi e oltre ad esse grandi prati e chioschi, fontanelle d'acqua, giardini colorati e tante persone camminare fra quegli alberi, distese nell'erba, fare jogging o giocare con l'acqua. Pensai alla bellezza di quel posto, alla fortuna che quelle persone avevano a viverci e ai piacevoli momenti che chiunque avrebbe potuto vivere.

Poi la brezza mescolò i miei capelli e per un momento mi sentì solo e debole come se fossi appena nato.

I tacchi delle ragazze si allontanarono per andare chissà dove, per raggiungere chissà cosa. Due di loro si girarono e una mi gridò:

- Addio Guapo!

L'altra rimase girata a guardarmi per un po' mentre si allontanava e notai un tatuaggio di forma circolare nel suo polpaccio destro. Di certo non le avrei mai più riviste anche se morivo dalla voglia di seguirle.

Mi sentì ancora più solo, come quando nello scendere da un treno non trovi nessuno ad abbracciarti.

Lì di fronte un grande volto di ferro arrugginito mi guardava e nella sua inespressività sembrava invece captare la mia fragilità. Quei grandi occhi di ferro sembravano quasi volermi mangiare, assaggiare la mia carne tiepida e comprendere anche se solo per un istante, il significato della nostra esistenza e del nostro dolore. E mentre il tizio misterioso continuava a cantare il suo “Shake a hand” io avevo deciso di lasciarmi alle spalle quegli otto tacchi di lussuria e proseguire diritto verso quel posto che il vecchio amico delle tartarughe aveva nominato “El Cruze”.

E poi, ripensandoci bene, perché sarei dovuto andare proprio lì? Di certo la città era piena zeppa di locali e pub dove fermarsi a mangiare qualcosa di caldo o bere una birra. Eppure, sembrava che quel posto avesse qualcosa di importante da rivelare.

Nel mio lento camminare scoprivo sempre più una città aperta, grande e ordinata, che si estendeva a vista d'occhio e che si nascondeva nelle grandi strade palmate che la attraversavano in lungo e in largo e che finivano per poi ricominciare in grandi rotatorie o in incroci brulicanti di macchine, pedoni e biciclette.

Poco più tardi, però, successe qualcosa che cambiò completamente il mio percorso e che mi lasciò totalmente sconvolto.

Mentre ero intento a camminare e a pensare, per quanto mi fosse possibile, a tutto ciò che mi stava accadendo, un rumore assordante attirò la mia attenzione. Esso proveniva dalle mie spalle ma nel voltarmi e nel capire cosa fosse quel terrificante boato, tutto ciò che i miei occhi potevano catturare in quell'istante si era spostato vorticosamente provocandomi un forte senso di nausea e vertigini.

Sembrava che la città intera si fosse inclinata e fosse scivolata velocemente verso la mia destra; questo forte movimento e le vertigini da esso causato mi fece girare ancora e poi ancora una volta finché non caddi per terra e fu allora che finalmente tutto si fermò.

Lo scenario era cambiato. Mare. Ma che diavolo era successo? Ora ero spaventato. Riuscivo a ricordare perfettamente che alcuni istanti prima mi trovavo in piena città e che ora, invece, ero sdraiato sulla sabbia a pancia in giù. Avevo sabbia dentro le orecchie, in bocca e attaccata al viso, dietro ogni piega e in mezzo ai capelli. Guardai subito il mio orologio e anch'esso era insabbiato ed errante. Mi alzai in piedi molto velocemente. Una sbornia? No. Era successo qualcosa di strano; forse qualcuno mi aveva aggredito e poi gettato su una spiaggia. Però non ricordavo di essere stato aggredito; non ricordavo dolore ma solo quel senso di nausea e vertigini che mi aveva invaso un secondo prima di girare su me stesso.

Alcune persone camminavano indisturbate nel lungo e ampio viale pedonale che affiancava la spiaggia e le sue palme ordinate in interminabili file. Avvistai un signore con un capello beige e, correndo, lo avvicinai con aria, immagino, completamente sconvolta.

- Mi scusi signore – lo fermai piazzandomi al suo fianco – Dove ci troviamo?

Il signore barbuto con il cappello beige interruppe il suo lentissimo camminare e mi guardò con aria indifferente, quasi scocciato, ma non intimorito o incuriosito da quel brusco incontro.

- “Palmarrosa”.

- “Palma” cosa? Cosa significa? Per favore mi aiuti, devo capire dove mi trovo!

Indicandomi un cartello al lato della strada il barbuto signore guardandomi nuovamente con aria scocciata mi scandì la parola.

- P-a-l-m-a-r-r-o-s-a

- E' la spiaggia? Si chiama così?

- Si chiama così, sì. Palmarrosa. - Il signore tolse il suo bel cappello beige e infilò l'altra mano in mezzo alla povera grigia chioma di capelli spingendoli indietro e dando al suo viso un aspetto molto più ordinato. Indossò il capello e indicando il mare disse:

- Il mare – poi indicò la sabbia – la spiaggia – e infine indicando le due lunghissime file di palme terminò con aria stanca – le palme. Palmarrosa.

- Non è possibile. Poco fa mi trovavo in centro; stavo camminando lungo il marciapiede ed ora invece mi trovo qui senza neanche essermene accorto. Qualcuno deve avermi aggredito.

- Aggredito? E' impossibile, nessuno è mai stato aggredito qui.

Il barbuto signore mi guardava da dietro i suoi occhiali marroni e dopo avermi fissato un po' disse:

- Forse si è solo girato.

- Girato? Dove? Voglio dire, cosa intende per “girato”.

- Vede, girare la testa, qui, senza sapere cosa questo comporti, soprattutto le prime volte, può talvolta essere turbante.

Non capivo un accidente di quello che mi stava dicendo, tuttavia, il fatto che la mia esperienza non lo turbasse in alcun modo, per utilizzare un suo termine, mi dava ad intendere che probabilmente quanto mi era accaduto non era poi così insolito da quelle parti.

- Vede, io mi sono girato, quando mi trovavo in strada e improvvisamente mi sono ritrovato per terra ed ora mi ritrovo qui, a parlare con lei. Lei capisce quello che le sto dicendo? Cioè, qui la gente si gira e si ritrova dall'altra parte della città?!

Il signore si tolse nuovamente il cappello per pettinare la sua acconciatura che in verità, era rimasta anch'essa immutata e impassibile e avvicinandosi a me disse:

- Io capisco quello che lei mi dice. Ciò che non capisco è perché lei se lo stia domandando.

Lo guardai e con un'insolita maleducazione mi allontanai senza nemmeno salutarlo. Mi sedetti su una panca lì vicino e il vecchio mi si avvicinò fermandosi in piedi al mio fianco. Osservava tranquillo la linea dell'orizzonte celeste che cantava il rumore delle onde alle mie spalle.

- Sa perché adoro venire qui? - lo guardai con aria stanca, quasi offeso, al notare che ora, invece, aveva deciso di parlare spontaneamente e di riferirmi, forse, qualcosa che mi sarebbe servito. Poi, appoggiai i gomiti sulle ginocchia e la testa nelle mani.

- Mi lasci indovinare, le piacciono le spiagge?

- Questo è l'unico posto in cui trovo piacevole il vento in faccia. - Alzai lo sguardo per capire cosa volesse dirmi ma lo trovai assorto nei pensieri e il suo sguardo perso nell'orizzonte. Poi continuò:

- Questa è una bella terra, sa? Per quanto la vita possa essere difficile e possa tradire le nostre aspettative il vento che viene dal mare riesce a lavare ogni sconforto.

- Lei è uno scrittore, un poeta? Non sarà mica un prete?!

- Il signore mi guardò e rispose:

- No, sono solo uno che scriveva libri.

- Appunto, uno scrittore.

- Molto tempo fa conoscevo un tale che si chiamava Joaquìn, suonava l'armonica. Aveva inciso dei dischi e suonava in giro per i locali insieme ai gruppi che si esibivano. Qui lo conoscevano tutti. Con il tempo, oltre a perdere la memoria, perse anche tutti i denti e quando non riuscì più a suonare l'armonica decise di dedicarsi alla pittura su tela.

Quando lo conobbi aveva già realizzato molti disegni e quando un giorno mi invitò a casa sua, vedendo l'armonica sopra una mensola piena di fotografie, gli chiesi se fosse musicista. Lui mi rispose che non era un musicista ma soltanto uno che aveva suonato l'armonica per molto tempo.

- E qual è la differenza?

Il signore fece un lungo sospiro e staccando finalmente gli occhi dal mare si sedette al mio fianco.

- Vede, spero che lei abbia modo di imparare, vista la tua tenera età, che il passato non deve in alcun modo influire su ciò che di più importante una persona possa avere.

- E sarebbe?

- Beh, il diritto di sentirsi vivi, anche a due giorni dalla morte.

Guardai i miei piedi. Li vidi stanchi. Due foglie secche rotolavano davanti a noi, una dietro l'altra dirette verso est.

- E quindi ora lei cosa fa?

- In che senso mi scusi.

- Nella vita … in generale.

- Diciamo che mi piace osservare i dipinti su tela.

- Ah! A me non piacciono i dipinti.

- Cosa non le piace?

- I dipinti, i disegni su tela.

- No dico, cosa non le piace dei dipinti?

- Li trovo un po' … noiosi, cioè non mi piace stare a guardarli capisce? Mi annoia guardarli, tutto qua.

- Quindi lei ha già osservato dei dipinti. Quando il mare è protagonista; quelli sono i miei preferiti. Che ne pensa di quello alle nostre spalle? - lo guardai, mi aspettavo un sorriso, uno scherzo; era forse una frase insensata? Mi voltai silenzioso e furtivo, quasi volendomi nascondere dal suo sguardo e lentamente la mia vista, più in là della sabbia e della spiaggia scoprì un dipinto, un vero dipinto, un capolavoro di folle bellezza.

Un cielo immenso di mille e più colori, un cielo di getti, di schizzi, di pennellate confuse, nervose, infantili ma gentili e sfumature violente agli estremi della pazzia e poi lingue di colori che si impastavano l'una dentro l'altra come in un'orgia di spiriti impazziti e murati in un cielo senza uscita. Sotto il cielo, un infinito specchio d'acqua scura e nera come il petrolio rifletteva le lingue rosso vermiglio che provenivano minacciose dall'irraggiungibile linea dell'orizzonte, come se laggiù, un muro lunghissimo di fuoco stesse divorando una prateria africana. Il mare era frastagliato. Milioni e milioni di frenetiche piccole crepe, come la vecchia corteccia di un vecchio albero stanco.

Il Dio sole sulla sinistra. Il sole più incazzato, stanco e pesante che i miei occhi avessero mai visto, scendeva sotto il mondo, dietro il confine tra il mare e il cielo, come una tracina che s' infossa sotto la sabbia.

Quei colori, quei riflessi, quei suoni di luce, quel dipinto. Una lacrima. Una lacrima veloce. Una goccia di debolezza, di rispetto, di devozione, di gratitudine. Una goccia che si perse, poi, sotto il mento, giù nel collo, lungo la trachea, oltre ed oltre e chissà dove. Una goccia-cristallo che visse una manciata di secondi, proprio come una farfalla vive una manciata di ore, ma che raccolse il disegno di un tramonto sublime, di un cielo ferito e di un mare sventrato dai colori, dalle lingue di luce e fuoco lanciate in fondo, al confine di quella vita inspiegabile, così spietata, così cieca.

- Vengo qui, quando voglio capire.

- Capire cosa?

- Capire se un colore esiste.

Rimasi colpito da quella sua frase e attendevo, curioso, un suo proseguo.

- Immagino che il Cd che ha in mano lo abbia trovato per caso – dalla tasca destra della sua giacca color marrone mogano tirò fuori un portasigari in cuoio marrone scuro e dalla tasca sinistra prese un fiammifero. Prelevò un sigaro e dopo averlo fissato fra i denti ne accese la testa ed iniziò ad aspirare. Una scia deliziosa entrò nel mio naso e per un istante chiusi gli occhi per assaporare quel momento. Adoravo l'odore dei sigari accesi.

- Oppure glielo ha regalato qualcuno?

- Cosa? - il signore allontanò il sigaro dalla bocca e voltandosi mi guardò attraverso le scure lenti di quegli occhiali.

- Non tutti vanno in giro con una raccolta di brani musicali di Paco de Lucia nelle mani. E' un oggetto delicato.

- Sì, me lo ha regalato un tale; un tale che ho incontrato per caso.

Il signore sorrise e guardando il cielo sussurrò qualcosa digrignando i denti.

- Mi tolga una curiosità – mi disse, poco prima di infilare il sigaro fra i denti – è sicuro di aver incontrato quel tale, in modo casuale?

- Sì. E' stato un caso. Stavo camminando lungo la strada quando ho sentito qualcosa rompersi dentro ad un negozio, qualcosa di vetro o di coccio forse. Sono entrato ed ho conosciuto questo vecchietto.-

Il barbuto fumatore di sigari scoppiò in una pacata risata appoggiandosi allo schienale della panca su cui eravamo seduti.

- Vecchia tigre! Ah! Ci è riuscito! - disse con euforia e divertimento. Io lo guardavo confuso e non sapendo come comportarmi gli domandai:

- Perché ride?

- Non sto ridendo ragazzo, sono felice.

- Beh, perché è felice allora?

- La prossima volta che rivedrà quel tale capirà. - Il non più antipatico barbuto ed elegante signore si alzò in piedi nel suo metro e ottanta e si allontanò dalla panca con passo lento e pesante. Io rimasi seduto a guardarlo allontanarsi; poi, con uno scatto repentino si voltò, come se avesse dimenticato di dirmi qualcosa.

- Allora, non è poi così male, no?

- Che cosa?

- Osservare un dipinto. - gli sorrisi.

- No, non lo è affatto.

Si mise il sigaro in bocca e si allontanò, immergendo la faccia in una nuova e profumata nuvola di fumo.

E mentre si allontanava gli gridai:

- Se poi sono tutti come questo …!

Si voltò e con un accenno di sorriso probabilmente mi disse addio, arrivederci o a presto, non lo so.

Si allontanava quella macchiolina color mogano, sempre più distante lungo la Palmarrosa, sicura e pensierosa, sicuramente una buona e di gran cuore macchiolina solitaria, probabilmente molto emotiva, sicuramente elegante, di gradevole presenza e fascino.

Senza neanche accorgermene rimasi di nuovo solo, con un tramonto alle spalle e un'intera città davanti, lo stesso Cd di Paco de Lucia nelle mani e un orologio che si divertiva ad inventare nuovi orari.

Abbandonerò questa Palmarrosa, pensai; ma sarebbe stata una buona idea? Chi poteva dirlo.

Sempre più lontano era “El Cruze”, sempre più un segreto, sempre più un nome, sempre più una sfida.

Il cercare di raggiungerlo; sempre più un modo per non ragionare su quelle esperienze, su quelle vicende, su quella realtà, ; mi correggo; su quel sogno.

  
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