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Autore: Kia_Giu    14/02/2013    0 recensioni
-Joe, il mio amore-
-E Carlo?- le chiesi.
-Come?- chiese lei che non mi aveva sentito.
-E il nonno?- chiesi quindi io.
-Oh...lui non sapeva niente di Joe, ma non l'ho mai tradito- mi disse. Io annuii e cercai una scusa per andarmene ma non me ne veniva in mente nemmeno una.
-Joe, era il mio vero e unico amore, naturalmente volevo un bene dell'anima anche a Carlo, ma il mio cuore è sempre stato di Joe...Conosciuto ad Auschwitz.- mi disse. Io non potei far altro che provare tristezza per lei. Ne aveva passate davvero tante, però non sembrava triste. Anzi, sembrava proprio felice. Mia nonna aveva passato poco meno di un anno ad Auschwitz, però sapevo che quelli erano stati i mesi più brutti della sua vita, come poteva essere altrimenti?
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 “Era il 1944, la città era quasi vuota, la gente scappava, la maggior parte però veniva rapita dai nazisti. Io e la mia famiglia ci eravamo nascosti in una casa di alcuni nostri amici e stavamo sopravvivendo come potevamo per non morire o peggio, venir catturati dai nemici. E tutto perché? Eravamo ebrei.
Resistemmo a lungo, ma non abbastanza, un giorno i nazisti entrarono nella casa e mio fratello, ancora piccolino, aveva appena 5 anni, ci fece scoprire. I nazisti ci presero senza pietà e ci trascinarono via, lontano dai nostri amici, anche loro vennero catturati perché ci avevano aiutati. Non li ho mai ringraziati abbastanza, perché non ne ho neanche avuto l'occasione. Urlammo, ma loro non ci misero molto a caricarci su un treno e a portarci via. Venni separata da mio padre e mio fratello, e quella fu l'ultima volta che li vidi.
Mia madre mi tenne sempre vicina a sé, aveva paura di perdermi, e anche io avevo tanta paura di quel che mi sarebbe capitato da lì a poco dopo.
Ero terrorizzata, che distino avrei avuto?
Venni portata ad Auschwitz, il più famoso dei campi di concentramento. Non sapevo ancora che crudeltà avvenivano dentro, e non le immaginavo nemmeno nei miei peggiori sogni. Ogni volta che ci davano quel poco di cibo, mia madre dava a me il suo per farmi sopravvivere, diceva che io ero giovane, che dovevo sopravvivere. Diceva che lei ce l'avrebbe fatta, ma non fu così, morì dopo tre settimane senza cibo.
Di lì in poi dimenticai il mio nome, ormai ero soltanto 17539.”

La nonna alzò la manica del braccio facendomi vedere il numero inciso sopra. Era tremendo pensare a quello che era successo nei campi di concentramento, e ciò che lei stessa aveva dovuto passare. Cominciai a sentirmi in colpa per i pensieri fatti poco prima su di lei. Quando avevo pensato che era sorda, vecchia e noiosa. La nonna guardò il fuoco nel caminetto e poi andò avanti con la storia.

“I nazisti erano senza pietà, ci facevano lavorare duro ogni giorno, non ci davano da mangiare e nemmeno le cure mediche che ci servivano. Vedevo gente morire ogni giorno, di malattia, di fame, di sete, di fatica, di paura. Era peggio della morte, erano torture quelle che ci affliggevano. Bambine che piangevano, madri che le consolavano ogni sera, che le ripetevano il loro nome ogni sera, io invece me lo ero dimenticata il nome, mia madre era già morta, a me non era rimasto nessuno. E poi arrivò quel giorno, probabilmente il giorno più brutto e bello della mia vita. Eravamo in fila tutti quanti, in silenzio, e i nazisti passavano tra di noi, eravamo tantissimi e dovevano chiamarne una di noi perché facesse da cavia per degli esperimenti. Centinaia di persone c'erano, centinaia di numeri diversi, e chiamarono il 17539.”

Abbassai lo sguardo sul numero inciso sul suo braccio: 17539.

“Mi feci avanti tremante mentre altre donne sospiravano di sollievo, vidi tanti visi amici che mi guardavano, di ebree come me, finite al campo con me, che affrontavano le cose che affrontavo io. Non voglio raccontarti ciò che mi fecero, ti dico solo che ne uscii distrutta nel vero senso della parola, ma viva. Quasi viva. Ero debole, troppo, e faticavo solo a reggermi in piedi. E fu in quel momento che lo vidi. Non disse niente, mi porse semplicemente un pezzo di un qualche cibo e io lo mangiai senza pensarci due volte. Era duro, ma meglio di niente, e non mi facevo più problemi di quel genere.
-Ce la fai?- mi chiese, era italiano come me. Cercò di farmi un sorriso rassicurante. Io annuii senza avere la forza di parlare. Lui mi aiutò ad alzarmi.
-Devi muoverti, altrimenti ti picchieranno, vai a dormire- mi disse. Io annuii e lo ringraziai. Lui era bellissimo, no, non bello fisicamente, era pelle e ossa, senza capelli, ma aveva degli occhi azzurri pieni di vita. Ed era questo che mi colpì, di solito tutta la gente che vedevo aveva gli occhi spenti, vuoti, senza più speranza, lui invece di speranza ne aveva eccome.
-Non lasciarti andare. C'è sempre speranza- mi disse e io mi ricordai questa frase per tutti i giorni successivi. C'è sempre speranza, e aveva ragione, c'era sempre speranza. Quella notte andai a dormire e feci un sogno strano. Ero nei campi di concentramento ma con me c'era lui e mi stringeva la mano dicendomi di non arrendermi. Poi però arrivavano i nazisti che ci uccidevano entrambi. Mi svegliai piena di terrore, ma sperando di rincontrare l'uomo dagli occhi azzurri, forse era un ragazzo, non so. Ma non lo rincontrai. Lavorai tutto il giorno senza potermi fermare a causa dei soldati che ci controllavano sempre e non ci lasciavano neanche un attimo di pace.”

-Ma lo rincontrasti dopo, no?- le chiesi curiosa, quella storia mi stava prendendo, e la nonna era già indietro con la mente, nel più lontano 1945, che non era neanche tanto lontano.
-Certo- mi disse sorridendomi teneramente.
-Potresti andare a tagliarmi una fetta di torta?- mi chiese poi. Io annuii e mi alzai, tagliai due fette di torta, e poi le portai in salotto, una la diedi alla nonna e una me la tenni.
-Ma il tuo nome?- le chiesi poi
-Tu ti chiami veramente Laura?- le chiesi.
Lei annuì.
-L'hanno ritrovato dopo nei registri- mi spiegò.
-Quindi è il tuo vero nome, ma lì come ti chiamava la gente?- chiesi stupidamente.
-Non mi chiamava, non parlavamo molto tra di noi, ognuno era preso da sé stesso e dai propri cari-
-Ma non vi aiutavate a vicenda?- chiesi io. Lei scosse la testa.
-Quando devi sopravvivere, non ti importa più niente degli altri- mi spiegò con calma.
-Ma..ma che cattivi!- esclamai.
-Non è questione di cattiveria, ma di sopravvivenza- spiegò la nonna.
Annuii.
Poi andò avanti con la storia. 

  
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