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Autore: Aleena    18/02/2013    3 recensioni
Shasta, un drow dalle grandi ambizioni, intesse una relazione proibita con Kania che lo porterà davanti al giudizio della sua Dea. La sua condanna all'eterno dolore, però, si trasforma nell'occasione di potere e di libertà che per tutta la vita aveva, inconsapevolmente, atteso.
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1a Classificata al contest "Imprisonment: because there isn't only happiness in our life" indetto da Visbs e Tallu_chan sul forum di EFP.
Genere: Angst, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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V – FANTASMI

 
 
  Quando l’avevano sbattuto nella stretta cella troppo affollata, il Fantasma delirava.
«L’ho vista. Mi ha parlato.» diceva, scuotendo la testa e muovendo le palpebre, concitato. «Non era abbastanza, non… non mi voleva…» ripeteva poi. Aveva la febbre alta, la pelle calda scossa da spasmi muscolari, i denti che si serravano come tagliole. Solo una volta, quando Elta gli aveva chiesto con un sospiro basso chi avesse visto, lui aveva risposto «la Madre». Allora Elta aveva chinato il capo, come se sapesse, come se fosse la cosa più normale del mondo. Molti dei prigionieri appena presi invocavano le madri alle quali erano stati strappati, soprattutto i più giovani… e il Fantasma non sembrava avere più di diciassette anni. Così Elta aveva continuato a sanarlo, somministrandogli un po’ di quelle erbe che curava per i Padroni Scuri, fino a che la febbre non si era calmata. Quindi avevano aspettato, sperando che fosse abbastanza forte da salvarsi; e poi, dopo dodici giri della Loro clessidra bianca – Elta aveva vissuto abbastanza nel sottosuolo per capire che quell’arnese diabolico che li costringevano a girare serviva a scandire il ritmo dei giorni – il Fantasma si era svegliato e li aveva guardati con quegli occhi rossi e carichi di terrore.
«Chi sei?» gli aveva chiesto Elta, gentilmente. «Capisci la mia lingua?»
Il Fantasma aveva atteso un istante prima di annuire, come se dovesse verificare che si, in effetti poteva capire. E nel farlo si era portato una mano al viso ed era impallidito.
«Senti dolore?» aveva chiesto Elta, e il ragazzo aveva scosso il capo. «Come ti chiami?»
«Io… non lo so. Non… non ce l’ho. Credo. No… nulla.» aveva balbettato il Fantasma, gli occhi che si muovevano fra la mano pallida e il volto della vecchia umana che lo guardava, apprensiva.
«Capisco. Molti bambini nati qui non ce l’hanno, o non lo ricordano. Sei nato qui, figlio mio?»
«No. Io… » e allungò un dito, indicando il soffitto. «Mia… mia madre era una mezzelfa e mio padre… una violenza, dopo un saccheggio. Sono… ibrido, di tre razze. Io…»
«Calmati, e riposa. Andrà tutto bene.» disse Elta, passandogli una mano fra i serici capelli bianchi e poi sul viso chiaro. Non le piaceva quella sfumatura grigia della sua pelle, ma poteva non essere solo la malattia… era un bastardo, dopotutto, e glielo si leggeva in faccia. Distendendosi al suolo, poco prima che il sonno e la spossatezza le spegnessero ogni pensiero, Elta pregò per quel ragazzo e per loro che quel colore malsano fosse solo la sua natura, e non il Morbo.
 
  La vecchia umana era rimasta al suo fianco per tutto il tempo della convalescenza, o almeno così gli dissero i prigionieri. Tra loro, quella femmina era l’unica che non facesse domande: aveva preso per buona la sua menzogna e tanto le bastava, assieme alla certezza che non fosse portatore di alcun contagio. Forse per la cura ossessiva con cui lo seguiva, forse per le domande incessanti che lo confondevano, magari per il contatto con tutti quei corpi ammassati o chissà, solamente perché non era abituato all’ozio forzato, il Fantasma fu quasi contento di essere trascinato fuori dalle prigioni e attraverso gli stretti, scuri corridoi. Sapeva cosa l’attendeva, ma questo non lo spaventava più dei cambiamenti che poteva notare sul suo stesso corpo: stentava a convivere col pallore mortale della sua pelle – né scura, come i suoi simili, né rosea come le razze di superficie, ma di un grigiore soffuso e malsano – e rimpiangeva l’infravisione, di cui i suoi occhi aveva conservato in minima parte il potere. Riusciva a vedere chiaramente solamente in presenza di una luce, per fioca che sia: le tenebre profonde lasciavano spazio solo a un’ombra sfocata di ciò che aveva attorno, nella quale il Fantasma non era in grado di distinguere dettagli, men che meno pericoli in agguato. Era vulnerabile, e questo lo spaventava.
Per contro, le luci troppo forti l’accecavano ancora, ferendo gli occhi sensibili e perfino la pelle, benché la sua resistenza fosse aumentata. Un essere a metà fra due mondi, che non può appartenere a nessuno di loro. Inutile, debole! pensava, stringendosi addosso la coperta ruvida. Il freddo e il dolore erano due sensazioni che s’erano acuite: aveva perso gran parte della resistenza tipica della sua razza e ne soffriva.
Aveva dovuto persino abbandonare il suo nome: il ricordo legato a quell’appellativo strideva con ciò che era. Così aveva lasciato che gli altri lo chiamassero come preferivano; e il mondo, nella sua infinita ironia, gli aveva affibbiato il nomignolo di “Fantasma”, per il colore della sua pelle. Lo trovava beffardo in una maniera decisamente amara.
Cos’altro avrò smarrito? Continuava a domandarsi mentre, assieme agli altri schiavi, attraversava un’arcata di roccia fiancheggiata da grate di ferro corroso. Rimuginava ancora sulla sua condizione quando qualcuno l’afferrò per il colletto della camicia da lavoro, lacera e sudata.
«Dove te ne vai, amico mio? Non c’è bisogno di te, di la. Le Matrone non vogliono vedere un albino nella loro città. Immagini cosa potrebbe pensare il popolino?» gli sussurrò una voce che conosceva, il suo fiato caldo sul collo.
«Che la Dea è scontenta e che li odia. Che siamo tutti maledetti. O mi sbaglio?»
«O che sei la loro vergogna. In ogni caso, amico mio, non ti vogliono. Le porte della città sono chiuse, per te.» uno strattone, la stoffa della maglietta che si lacerava un poco in prossimità delle cuciture malfatte. Il Fantasma si voltò, piantando gli occhi dritti in quelli dello jaluk che l’aveva fermato.
«Amico? Risparmiami la tua ironia, Dresden.» sputò il Fantasma, il volto contratto in una smorfia d’odio che sembrò divertire immensamente l’altro maschio.
«Osi sfidarmi? Dopo tutto quello che sei diventato? Cos’è, con il nero della pelle hai perso anche il senno?» domandò Dresden, ironico. Con uno sguardo ammiccò verso la spada che portava assicurata al fianco, sull’elsa della quale riposava la mancina. Poi sorrise, caricando il volto di tutto il disprezzo e la soddisfazione che poteva. Ha vinto ma non gli basta, valutò il Fantasma, osservando il suo volto e la striscia di metallo sulle sue spalle; allora sollevò le labbra, mostrando i denti bianchissimi.
«Vedo che vendermi ti ha fruttato bene. Buon pro ti faccia, Cacciatore: spero che alla prossima luna nuova una tribù di orchi decida che sei troppo bello per non assaggiarti.»
«Un tempo eri più mordace. Andiamo. Sei stato assegnato allo sgombero dei tunnel per l’underdark. Rilassati, spalare merda di Lucertola1 e roccia franata non durerà molto: le bestie di laggiù sono affamate e ogni tanto sconfinano. Divertente prospettiva, vero?» disse Dresden e puntò la lama di uno stiletto contro la schiena dell’albino, difesa solamente dal pesante tessuto grezzo. Lo jaluk fece pressione, costringendo l’albino a incamminarsi verso un tunnel oscuro e deserto, che percorsero in silenzio. Fu quando la voce di Dresden ruppe il silenzio con un «Gira a sinistra.» che il Fantasma sputò fuori il ricordo che aveva cominciato a riaffiorare all’apparire dello jaluk.
«L’ho vista.» disse con un sussurro l’albino.
«Chi?» domandò Dresden con disinteresse, sottolineando la domanda con una pressione del metallo lungo la spina dorsale.
«La tua Dea. Quella che mi ha tolto tutto.»
«Cosa vorresti dire? Non puoi rinnegarla, è una bestemmia…» s’infervorò Dresden. Stavolta la lama lacerò un tratto di tessuto, l’ennesimo, assieme alla pelle. Sangue denso, nero e corrosivo cominciò a scorrere lentamente dalla ferita.
«Lei ha rinnegato me. Non mi vuole, ma si sbaglia. Tutti vi sbagliate…» l’albino sorrideva. Le parole risvegliavano il ricordo della sua trasformazione, qualcosa accaduto durante l’invocazione e che la febbre aveva cancellato. Finora.
«Che ego!» commentò Dresden, ma stavolta era cauto. «A sinistra e poi avanti, senza rallentare. E dimmi… in cosa credi adesso?»
«Nel fatto che non vi ama. Non più. E ve lo dimostrerà: siete troppo prosperi e le donate troppo poco sangue. E lei ha sempre fame di lotta, di guerra, di dolore… oh, si, sempre fame di sangue. E io lo so, io l’ho vista.»
«Tu non puoi… solo le femmine…» cominciò Dresden, la rabbia che gli incurvava le labbra. Cosa poteva saperne uno jaluk maledetto dalla vergogna più grande?
«Troppo avidi, troppo… prendiamo il potere e le diamo gli schiavi che non servono, i servi che non vogliamo, i nostri avanzi. E Lei… lei sta per nascere. E il nostro mondo non sarà più lo stesso, dopo… no, non più lo stesso se nessuno la uccide, se nessuno la ferma, se nessuno Le da quello che desidera. Perché Lo trova divertente. Ci punirà, umiliandoci.» concluse il Fantasma, trionfante. Sapeva e, per la Dea!, quanto era dolce quella consapevolezza.
«Pazzo! Sta zitto o attirerai la sventura su di me. Guardia! Guardia!» la voce di Dresden si alzò alle ultime parole, raggiungendo un tono stridulo a metà fra il disprezzo e la paura. Che mi succede? Si domandò lo jaluk, sentendo sulla schiena un brivido di cui solo molti anni dopo avrebbe compreso la natura. Un suono di passi lontani e concitati annunciarono l’arrivo di uno jaluk dall’aria annoiata, che squadrò carceriere e prigioniero per lunghi istanti prima allungare la mano verso il polso dell’albino, reprimendo a stento un sussulto di disgusto. «Legagli polsi e caviglie, e sorveglialo. È una serpe e ti si rivolerà contro appena potrà. Guardalo bene: se scappa, sarai tu stesso a rispondere alla mia Matrona.» concluse Dresden, quindi si voltò. Voleva lasciare quel posto il prima possibile, e non solo perché l’odore di merda e funghi tossici era rivoltate: la magia che gli scorreva nel sangue aveva letto qualcosa nelle frasi dell’albino. Una premonizione, un avvertimento.
Appena fu fuori portata d’orecchio, Dresden cominciò a correre. Voleva dimenticare, scrollarsi di dosso quella sensazione di catastrofe e abbandonarla a morire nelle tenebre.
Così fece. Quando le calde ombre di Che´el Phish l’avvolsero, lo jaluk non ricordava già più il gelo e la paura.

 


1 Nel sottosuolo, i Drow si muovono a dorso di lucertole gigantesche. 

  
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