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Autore: Sueisfine    06/09/2007    2 recensioni
Questa storia è nata per caso, spinta soprattutto dalla mia grandissima ed insaziabile passione per il gruppo musicale The Cure. Mi sono permessa di prendere spunto dalla storia del gruppo, accumulata attraverso interviste, libri, biografie autorizzate etc., negli anni che vanno dal 1981 in poi, per narrare un po' gli avvenimenti dal punto di vista di Robert Smith, leader del gruppo, e Simon Gallup, bassista.
Diverse situazioni sono frutto della mia ( bacata ) immaginazione, però ho cercato e cerco, nei limiti, di dare una certa contestualizzazione al tutto.
DISCLAIMER : Con questo mio racconto, ovviamente scritto e pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo né diffamare né fornire una rappresentazione veritiera dei fatti accaduti, ma semplicemente rivedere il tutto secondo una mia particolare ( condivisibile o meno ) prospettiva.
Buona lettura ;_;
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter Four

~ Other Voices

Guardavo fuori dalla finestra. Il cielo si stava tristemente addensando di nubi grigiastre.
Avrebbe piovuto ? Chi lo sa, probabilmente sì.
Il mio sguardo andava altalenando dalla finestra al foglio, dal foglio alla finestra, come impazzito. Una giornataccia, si preannunciava proprio una giornataccia.
Non ero riuscito a chiudere occhio neanche quella notte. Ero rimasto in studio, e Mary aveva chiamato verso le sette di sera per sapere come stessi, e soprattutto il motivo per il quale durante la giornata non l’avessi contattata. Reagii un po’ freddamente, non ero dell’umore.
Al ricordo di quella nottata, in cui non avevo fatto altro che rimanere immobile a fissare il soffitto, come aspettando un segno divino da qualche parte in quel soffitto che di bianco ormai aveva ben poco, mi alzai ed andai a prendermi una bottiglia d’acqua nel frigobar. Avevo proprio bisogno di un analgesico.
Frugai ovunque, ma non ne trovai. Però di scendere a fare acquisti non mi andava affatto.
Finì che mi tenni il mal di testa.
Lol aveva lasciato sopra il tavolo una rivista.
‘Potenzialmente rilassante’, pensai.
La presi ed iniziai a sfogliarla. Pagine, pagine, pagine. Chi diavolo era questa gente ? Aveva un senso ciò che stavo facendo ?
Fui colto da un’improvvisa frenesia. Presi a sfogliare sempre più velocemente. Che ci faceva qui questa gente così insulsa e per me insignificante ? Perché stava invadendo il mio campo visivo con questa prorompenza ? Perché perdevo tempo con questi visi tirati e i loro ipocriti sorrisi al vetriolo ?
Provai un senso di straniamento. Assurdo. I miei pensieri evaporavano come acqua sul fuoco. Volti sconosciuti, non mi soffermavo a leggere né didascalie né articoli. Famiglie felici, bambini fittizi, foto di pompose cerimonie mascherate da eventi mondani, abiti bianchi, abiti sportivi, un ragazzo di colore che pubblicizzava una marca di calzini, modelle, modelle, modelle, modelli, ancora modelle, luci, case lussuose, discoteche.
Scagliai la rivista contro il muro, furioso. La rabbia ed il nervosismo avevano ormai preso il sopravvento. Inevitabile. E prevedibile.
Tutto questo non contava. Il vuoto che provavo dentro si era fatto più incolmabile che mai.
Ma cosa contava ? In quel momento, cosa veramente contava ? Perché tutto sembrava sfuggirmi, di continuo ? Sentivo la mia presa sulla vita allentarsi di giorno in giorno, ormai non avevo più la forza per aggrapparmi alle mani tese verso di me. Brava gente che faceva di tutto per non lasciarmi sprofondare.
Tutto ciò che toccavo, finiva per pungermi.
Perché ?
Mi venne voglia di piangere, e non so cosa fu a trattenermi. Sanguinava, tutto quanto sanguinava. Non riuscivo a farlo smettere, il mio cuore.
Questa ira nascosta lo stava consumando. Stavo ferendo me stesso. E le persone che con tanto affetto si prodigavano per me.
Dovevo fare qualcosa.
Mi guardai intorno. Decisi di uscire, avevo bisogno di scrollarmi di dosso questo pesante odore di chiuso che avevo acquisito nei giorni passati all’interno dell’edificio. Presi il cappotto dall’appendiabiti, lo infilai. Un dolce tepore mi riportò alla normalità.
Come rinvigorito, aprii la porta, scesi le scale ed uscii in strada.
La pelle irradiata da quel poco di sole che ancora riusciva a fare capolino dietro le nuvole mi permetteva di lasciarmi alle spalle, per un solo, bellissimo istante, un modo di essere che stavo disperatamente cercando di evitare.

*

In strada era bello passeggiare, mi piaceva. Si era anche attenuato il mal di testa, non lo sentivo quasi più. Non erano molte le persone in giro a quell’ora, anche perché, come mi accorsi dopo, erano da poco passate le otto. La mia cognizione del tempo scarseggiava al momento. E, a dirla tutta, non era neanche una delle mie priorità.
Vidi due bambini attraversare la strada, probabilmente in cammino verso la scuola, dato che si portavano appresso due cartelle così stracolme di libri da non riuscire neanche a star chiuse.
La bambina era deliziosa. Due lunghe trecce nere le rimbalzavano sulle spalle. Credo avesse le lentiggini.
Rideva e scherzava rivolta al suo amichetto, spensierata, la risata cristallina e a tratti contagiosa. Avrei voluto riempirla di baci.
Dal suo sorriso trapelava quella gioia tipicamente infantile. Una fiamma che non vorrebbe affievolirsi mai, ma che, con l’età, viene incontro a questo mondo grigio. Ed è costretta a tacere, a sottostare a queste irremovibili regole, per poi spegnersi lentamente.
Il ragazzino che accompagnava quella deliziosa creatura guardava quasi fisso a terra. Sembrava la controparte maschile dell’altra, in quanto ad aspetto. Capelli scuri e lentiggini.
Ma il suo volto lasciava intravedere solamente le ceneri di una fiamma assopita da tempo.
Ogni tanto si voltava verso la sua compagna, caracollante sotto il peso dei libri, e le rivolgeva un sorriso vuoto, amaro.
Provai improvvisamente una tristezza infinita ed indescrivibile. Mi fermai di scatto.
I due bambini, dopo aver attraversato, stavano venendomi incontro. Al loro passaggio, rimasi come impietrito, non potevo muovermi.
Il maschietto, passando, mi squadrò con gli occhi acquosi, laconico.
Mi sentii soffocare. Si era improvvisamente spento tutto. Iniziai a ricordare, ed era quello che temevo. Le mie tempie pulsavano, avevo un bombardamento in testa. Me la presi tra le mani, impossibile farli smettere.

Le uniche cose a tenermi in vita erano le voci.
Le voci, calde e familiari. A volte più distanti, tanto da sembrare solo soffici rumori, altre volte più vicine. Voci maschili, femminili, di persone che amavo, di persone che non conoscevo. Mi chiamavano, mi facevano tornare al mondo. Rinascevo ogni volta.
Mary, Lol, Steven, mia madre, mio padre, Simon, e chissà quanti altri. Un vortice di suoni delicati che mi vibrava in testa ogniqualvolta sfioravo il crollo.
Non ora. Ora stavano urlando. Urlavano tutti insieme, all’unisono.
Mi appoggiai alla prima parete disponibile, la testa ancora tra le mani.
Piano mi accasciai al suolo, quasi in lacrime. L’ultima cosa che riuscii a vedere nitidamente era lo sguardo allarmato di un anziano che mi veniva incontro.
E la pioggia. Vidi anche la pioggia, che iniziava a cadere. Piccoli pugnali trasparenti che non aspettavano altro che trafiggermi.
Poi tutto diventò confuso, e scoprii che mi mancava. Moltissimo.
  
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