Buonasera a chiunque! :D
Ecocci qua con un capitolo-svolta.
Curiosi? E allora non avete che da leggere!
Sempre un mega grazie e tante caramelle a RITA_RBS, a cui dedichiamo il capitolo:3
Sei un tesoro di essera!
Buona lettura!
Durrie e Donnie
Anelli di cipolla
Capitolo 5: Vampate poco mestruali.
Aprii gli
occhi e mi tirai su di scatto, respirando come se fossi appena riemersa da
un’apnea lunga una vita.
Gemette appena e si aggiustò tra le coperte, e per un attimo temetti di averla svegliata.
Contai fino a dieci rimanendo perfettamente immobile, ma non si mosse più.
Non ricordavo.
Cosa ci faceva mia sorella qui, non doveva essere ancora via per
l’università?
E in ogni caso, che diamine ci faceva nel mio letto alle –buttai uno sguardo
all’orologio sul comò– 2:34 di notte?
Poi, ricordai.
La memoria mi colpì come uno schiaffo in pieno visto, togliendomi il respiro
appena ritrovato. Mi morsi l’interno morbido della guancia, soffocando il
singulto che sentivo nascere dentro il petto con un grido senza voce. Mi alzai,
non avrei tollerato di stare ferma un secondo di più, andai alla finestra e la
spalancai, uscendo sulla terrazza vestita solo con un pigiamino di flanella
nella gelida notte di dicembre.
Come se allontanandomi da lei sarei riuscita ad
allontanarmi dal ciò che era successo poche ore prima.
Il vento fece gonfiare
rabbiose le tende, che proiettarono ombre spettrali nella luce fioca.
Cosa avevo
fatto? Come avevo potuto reagire così?
Eppure ero
stata io, io e solo io a piantare quel
coltello con violenza nel tavolo con quelle mani (che stavo guardando con orrore).
Io, e non una mia controfigura. Perché
cascavo sempre in quelle situazioni di merda?
Sentii le
lacrime salirmi agli occhi. Immediatamente mi piantai le unghie nel palmo
della mano per non piangere –tecnica collaudata negli anni– e il famigliare
bruciore lieve nelle palme mi distrasse dal dolore più profondo che mi
squassava dentro.
Rabbrividii
per il freddo violento, ma fui grata al vento perché mi stava aiutando a
calmarmi e a raffreddare il mio corpo sudato.
Dai, in
fondo non è che abbia fatto chissà cosa. Ho solo piantato un coltello nel
tavolo dopo che mio fratello mi ha praticamente detto che mi odia e che
rovino la vita a tutti. C’è di peggio no?
Sospirai.
Strinsi
ancora più forte le dita, affondandole forte e un improvviso rumore mi
distrasse dai miei pensieri ingarbugliati.
Plik.
Mi ero
tagliata con le unghie, e una gocciolina solitaria era sgocciolata sulle
piastrelle di cotto.
«Merda», dissi a denti stretti,
aggiungendo altre imprecazioni sottovoce. La falce di luna contornata da un
cielo buio e senza stelle non mi consentiva di valutare bene l’entità del
danno, cosi coprii la mano con l’altra cercando di non sporcare in giro e
corsi in bagno per medicarmi.
Alla luce
dalla lampadina elettrica la situazione si rivelò meno preoccupante di quanto
pensassi, giusto degli innocui e piccoli segnetti rossi a forma di mezzaluna
che sanguinavano appena, anche se bruciavano terribilmente come quegli tagli odiosi
che ti fai con la carta.
Stringendo
i denti, seppellii i segni della mia frustrazione sotto un abbondante giro di
garza.
Chiudendo
l’anta dello sportello dei medicinali il vetro sulla parte
esterna mi restituì un’immagine aliena, quella di una
ragazza che sembrava una
vecchia.
Sgonfia, pallida e a macchie rosse, gli occhi sfuggenti, vuoti
e cisposi, il labbro viola e gonfio, la pelle tesa sulle ossa che premevano per
sbucare fuori.
Non ce la feci a controllarmi nello specchio più grande, pochi
centimetri più a destra.
Cercai di togliermi
quell’immagine dal viso lavandomelo e asciugandomelo fino a
quando la pelle non iniziò a tirare, ma non controllai il
risultato.
Non ne ebbi il coraggio,
ancora una volta.
Gli specchi
tendono a mettermi leggermente a disagio.
Almeno
l’acqua era fresca e mi aiutò a raffreddarmi, perché stavo letteralmente
bollendo, molto probabilmente a causa di un po’ di febbre dovuta allo stress.
Non sapendo
proprio che fare ritornai in camera, mi tolsi la maglia del pigiama ormai
fradicia di sudore, mi sedetti sul bordo del letto (rimanendo in reggiseno e
pantaloni) e mi concentrai sul volto serafico di Tosh che riposava accanto a
me.
Era così
bella anche così, anche con la bavetta al lato della bocca, anche se i suoi capelli
erano spettinati e buttati completamente a caso sul cuscino.
E, per renderle
giustizia, sarebbe stato meglio dire erano i capei d’oro a l’aura sparsi, come scrisse il buon vecchio Petrarca.
Effettivamente
non sarebbe stato difficile immaginarla come una donzella medievale degna delle
lodi di un grande poeta, o addirittura di una schiera di principi e nobili, che lei avrebbe fatto tutti felici con la sola forza
della sua presenza senza però mai concedersi a nessuno, quasi che avesse
temuto di spezzare il cuore a tutti gli altri.
Lei era così. Così buona, così...perfetta.
«Sarebbe
tutto più facile se io fossi come te, sai? Ti sei presa i geni migliori in
famiglia.», mormorai.
Giuro che
per un attimo la vidi sorridere, quasi che mi avesse sentito.
Era così
buona che era venuta a consolare la sua sorellina che aveva solo fatto un’altra
delle sue solite cazzate.
Non so nemmeno io perché mi comporto così, lo faccio
e basta, senza riflettere. Sono stupida ed impulsiva, ecco tutto, anche se so che non sono giustificabile.
Sospirai.
Madonna, ma che caldo non faceva? Mi passai il dorso della mano sulla
fronte, che stava grondando di sudore.
Ascoltai
le sensazioni che il mio corpo mi trasmetteva. La mia temperatura era
sicuramente altissima, avevo un caldo della miseria nonostante il gelo che
entrava dalla finestra che avevo lasciato socchiusa, per cui decisi di
controllare a quanto ammontava la mia temperatura. Tornai ancora una volta in bagno a vedere se recuperavo un
termometro tra le cianfrusaglie che avevo nella cesta accanto al lavabo.
Trovai solo uno di quei vecchi modelli con la colonnina che devi tenere sotto
l’ascella per qualche minuto, quindi mi appollaiai sul lavandino e scrutai
il buio per far passare il tempo.
Mi sfilai l’aggeggio da sotto il braccio e avvicinai il viso per vedere dove
era la tacca.
52°C.
«Ma che cazz…»
Non era umanamente possibile, sarei dovuta essere già morta.
«Avrà
sbagliato il termometro…beh, è vecchio, probabilmente è tarato male…»
Se non fossi stata così concentrata dal vapore caldo che vedevo levarsi dalle
mie dita sudaticce e dalla tacca di mercurio che lentamente scendeva
raffreddata dall’ambiente (ma che comunque indicava ancora 47°C) forse l’avrei
vista arrivare.
Forse mi sarei spostata, avrei reagito, l’avrei parato, avrei urlato, avrei
fatto qualsiasi cosa, invece di rimanere semplicemente paralizzata.
Forse avrei evitato che mia sorella, un ghigno demoniaco stampato in viso, mi
pugnalasse a tradimento con quello stesso regalo che mi aveva fatto qualche
anno prima.
Fissai l’elsa del pugnale che mi spuntava dal petto, tra le costole, ancora
stretta dalla mano diafana di Tosca.
Non sapevo cosa pensare.
Non riuscivo a pensare.
Mi afflosciai.
Il termometro cadde, spaccandosi in mille pezzi, il mercurio prese a scorrermi
intorno ai piedi, subito Tosca mollò la presa dall’impugnatura al volo e mi
tirò su per le spalle, abbracciandomi.
Si avvicinò al mio orecchio destro, leccandolo e mordendolo in una maniera
oscena, mettendo in mostra una chiostra di denti sottili e appuntiti, gialli, e
una lingua guizzante e biforcuta, da serpente.
Le sue
parole mi arrivarono flebili, nella nebbia rossastra che mi stava calando nel
cervello.
«Questo te lo meriti per avermi rubato ciò che era mio di diritto, puttana!»
Strappò la
lama via dal mio petto, tirandosi dietro un pezzo di me.
Urlai come non avevo mai urlato in vita mia.
Mi
svegliai, urlando come una dannata.
Le mie mani corsero al costato.
Nessun buco, niente sangue. Alzai la maglia, la pelle era integra e ben tesa sulle ossa e pulsava al ritmo
del mio cuore impazzito.
Controllai la camera, nessuna traccia di sangue, nemmeno la garza sulla mano.
Era stato solo un fottuto incubo.
Mi girai, ma vidi che ero sola nel letto: si vedeva ancora l’impronta di mia
sorella, dove aveva dormito, e pensai che probabilmente si era svegliata e
vedendomi ancora addormentata aveva deciso di tornarsene in camera sua.
Guardai l’orologio. Le 2:34 di notte.
Cazzo.
E se fosse stato un altro sogno?
Pizzicarmi sarebbe stato inutile, nel sogno precedente mi ero fatta male in
abbondanza, ma non mi ero svegliata che quando…quando Tosca mi aveva pugnalato
a morte.
Rabbrividii.
Corsi sul balcone, presa da un’idea. Guardai il cielo. La luna risplendeva al
suo posto, piena e benigna, circondata da un cielo sfumato e punteggiato di
stelle. Non so perché, ma ciò mi convinse che dovevo essere davvero sveglia,
perché rispetto al mio incubo, dove il cielo mi era parso strano, orribile e
innaturale, qui mi sembrava perfettamente normale. E poi, facendo due conti, mi
ricordai che quel giorno la luna doveva essere necessariamente piena. Mi fidai
a chiamare questa nuova situazione realtà, anche perché non avevo altre
alternative.
Realizzai di avere un freddo cane, col pigiamino di flanella e a piedi nudi sul
balcone, frugando ogni dubbio. Di certo “qui” non superavo il 37°C.
Mi ributtai sotto le coperte, per scaldarmi un po’, ma lo stomaco, con un
brontolio, mi ricordò che non avevo finito di cenare.
Zampettai fino all’armadio in punta di piedi, tirai fuori un vecchio pullover e
scesi in cucina, dove mi concedetti uno spuntino veloce a base di pane e salame
(sì, alle quasi 3 di notte), e finii per decidere di sbattermi sul divano a
guardare televisione scadente, visto che di rischiare un altro incubo non se ne
parlava proprio. Col volume al minimo, non avrei disturbato nessuno. Mi
appallottolai dentro una coperta lasciata malamente sul sofà da chissà chi e recuperai il telecomando.
Il pensiero delle altre persone che vivevano in quella casa mi fece venire un
groppo in gola.
Il problema era che, in ogni caso, quelle cose che mi aveva detto Gualtiero
le pensavo anche io, al di là della cattiveria esagerata che ci aveva
messo nel dirle.
Mi autocolpevolizzai, ripromettendomi di chiedere scusa al più
presto. Di rimediare in qualche modo, insomma.
Un rumore
improvviso, come di una porta chiusa, fece scattare i miei nervi già
iperstressati, distogliendomi dai miei ragionamenti.
Spensi il televisore al volo e mi accucciai in un angolo, dietro la legna del
camino, ringraziando di aver già sistemato ogni resto della mia merenda. Avevo
il bisogno di passare non vista anche da un eventuale altro visitatore notturno
del frigorifero come me, non ero pronta per parlare.
Sentii un inaspettato rumore
di scarpe, invece delle ciabatte
o dei piedi nudi che mi aspettavo. Per un istante temetti fossero
entrati i
ladri, e invece vidi Tosca e Gualtiero, vestiti con abiti pesanti,
guanti
sciarpa e cappello, passare. Osservando meglio notai mio padre che
stava tenendo loro aperta la porta sul retro del salotto, e che faceva
segno con l’indice davanti alla bocca di non fare rumore.
Gualty però rientrò subito.
«Prendo qualcosa per un fuoco, non voglio
congelarmi le chiappe»
Gualtiero
si avvicinò alla catasta di legna e prese una bracciata di ciocchi dalla cima.
Mi feci piccola piccola e desiderai fortemente di essere invisibile,
approfittando al massimo della mia bassa statura per stringermi più che potevo
nello spazietto buio e angusto tra il mucchio di legna da ardere, impilata su
un’elegante base di peltro, e il muro.
Sbuffando
per il peso della legna, Gualtiero si allontanò, chiudendo la
porta con il
piede. Sentii la serratura girare due volte, ma rimasi nascosta
finché i miei
familiari non divennero delle figure indistinte che si dirigevano verso
nord. Allora saltai in piedi, e mi precipitai su dalle scale per
riuscire a seguirli
dalle finestre dell’ultimo piano. Erano ormai al margine degli
alberi, ad
accompagnarli c’erano due bagliori che si vedevano appena appena,
evidentemente erano i cellulari usati come torce per non inciampare in
eventuali ostacoli.
Stavano entrando nel bosco e, a meno che non avessero avuto intenzione
di
guadare il fiumiciattolo, c’era solo un posto dove sarebbero
potuti andare.
E c’era solo un posto dove io li avrei seguiti.
Ritornai in
camera emi infilai direttamente nella tuta da sci che era blu
scuro per spiccare sulla neve, e quindi ottima per nascondersi al buio. Mi misi un paio
di stivali bassi, un cappello di lana, e mi calai dal balcone sfruttando la scala
di corda che avevo attaccato dentro al parapetto in seconda media, per riuscire
a scappare in giardino nonostante il confino forzato che mi era stato imposto
dopo che avevo accidentalmente fatto male un mio compagno di classe.
Accidentalmente il mio pugno era finito sulla sua faccia, ecco tutto.
Recuperai
il vantaggio che avevo dato loro correndo silenziosamente nell’erba curata, imprecando ogni volta che un pezzo di
ghiaccio mi scrocchiava sotto i piedi.
Arrivai al cerchio di pietre in un paio di minuti, ma rimasi nascosta tra gli
alberi, approfittando di un provvidenziale ramo basso per issarmi ad un paio di
metri d’altezza per poter osservare meglio.
Per osservare meglio Gualtiero che dava prova delle
sue non-abilità da boyscout, fallendo una dozzina di volte prima di
riuscire ad incendiare con uno Zippo un
ramo di pino trovato per terra, che a sua volta usò per dar fuoco a quei
ciocchi che aveva preso in salotto poco prima. Cavolo, ce ne vuole di coraggio
per cercare di usare un ramo verde ed umido per accendere un falò!
Nonostante
la sua evidente imbranataggine creò in quattro e quattr’otto un bel fuocherello
a pochi passi da una delle pietre più grandi, sopra
cui poi si sedette soffiandosi sulle dita.
Nessuno parlava, nessuno voleva iniziare.
Fu Tosca, la timida Tosca, a prendere per prima la parola, con le tenere guance
arrossate dal freddo nonostante il cappellino di lana calato fin sopra gli occhi
e la sciarpona tirata su fino al naso.
«Papà, Gualty…non possiamo continuare a nasconderglielo all’infinito. Evelina
deve sapere, e deve sapere tutto, o non potrei mai perdonarmi la sua morte»