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Autore: Il_Club_Delle_Felci    19/02/2013    1 recensioni
Lei è la classica pecora nera, lei è la non voluta.
Lei è una potenza gelida e distruttiva, lei è la non amata.
Lei è sarcasmo allo stato puro, lei è solo una ragazza.
Lei ha un nome, si chiama Eve.
Ma questa lei ha anche dei sentimenti.
E, sorprendentemente, saranno degli anelli di cipolla a costringerla a rivelarli.
Muovendosi in una città fuori dal tempo, riuscirà Eve a scoprire il suo destino trovando finalmente il suo passato?
FF scritta a 4 mani :3
Ci troverete anche l'ammhore e parecchio sarcasmo.
Durrie e Donnie
(questa storia è stata pubblicata su altri siti con account diversi, quindi NON DENUNCIATECI PER PLAGIO, siamo sempre noi due!)
OGNI 100 VISUALIZZAZIONI VI PERVERRA' UN SIMPATICO VIDEO IN CUI DAREMO SFOGO ALLA NOSTRA DEFICIENZA BALLANDO PER IL VOSTRO DILETTO.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Anelli di cipolla 5

Buonasera a chiunque! :D
Ecocci qua con un capitolo-svolta.
Curiosi? E allora non avete che da leggere!
Sempre un mega grazie e tante caramelle a RITA_RBS, a cui dedichiamo il capitolo:3
Sei un tesoro di essera!

Buona lettura!

Durrie e Donnie

Anelli di cipolla

Capitolo 5: Vampate poco mestruali.

Aprii gli occhi e mi tirai su di scatto, respirando come se fossi appena riemersa da un’apnea lunga una vita.
Tosca dormiva beatamente nel mio letto, l’innocenza fatta persona, appoggiata su un fianco. Aveva un braccio piegato sotto la testa mentre l’altro rimaneva steso, e fino a poco prima mi stava abbracciando.
Gemette appena e si aggiustò tra le coperte, e per un attimo temetti di averla svegliata. Contai fino a dieci rimanendo perfettamente immobile, ma non si mosse più.
Non ricordavo.
Cosa ci faceva mia sorella qui, non doveva essere ancora via per l’università?
E in ogni caso, che diamine ci faceva nel mio letto alle –buttai uno sguardo all’orologio sul comò– 2:34 di notte?
Poi, ricordai.
La memoria mi colpì come uno schiaffo in pieno visto, togliendomi il respiro appena ritrovato. Mi morsi l’interno morbido della guancia, soffocando il singulto che sentivo nascere dentro il petto con un grido senza voce. Mi alzai, non avrei tollerato di stare ferma un secondo di più, andai alla finestra e la spalancai, uscendo sulla terrazza vestita solo con un pigiamino di flanella nella gelida notte di dicembre.
Come se allontanandomi da lei sarei riuscita ad allontanarmi dal ciò che era successo poche ore prima.
Il vento fece gonfiare rabbiose le tende, che proiettarono ombre spettrali nella luce fioca.
Cosa avevo fatto? Come avevo potuto reagire così?
Eppure ero stata io, io e solo io a piantare quel coltello con violenza nel tavolo
con quelle mani (che stavo guardando con orrore).
Io, e non una mia controfigura. Perché cascavo sempre in quelle situazioni di merda?
Sentii le lacrime salirmi agli occhi. Immediatamente mi piantai le unghie nel palmo della mano per non piangere –tecnica collaudata negli anni– e il famigliare bruciore lieve nelle palme mi distrasse dal dolore più profondo che mi squassava dentro.
Rabbrividii per il freddo violento, ma fui grata al vento perché mi stava aiutando a calmarmi e a raffreddare il mio corpo sudato.
Dai, in fondo non è che abbia fatto chissà cosa. Ho solo piantato un coltello nel tavolo dopo che mio fratello mi ha praticamente detto che mi odia e che rovino la vita a tutti. C’è di peggio no?
Sospirai.
Strinsi ancora più forte le dita, affondandole forte e un improvviso rumore
mi distrasse dai miei pensieri ingarbugliati.
Plik.
Mi ero tagliata con le unghie, e una gocciolina solitaria era sgocciolata sulle piastrelle di cotto.
«Merda», dissi a denti stretti, aggiungendo altre imprecazioni sottovoce. La falce di luna contornata da un cielo buio e senza stelle non mi consentiva di valutare bene l’entità del danno, cosi coprii la mano con l’altra cercando di non sporcare in giro e corsi in bagno per medicarmi.
Alla luce dalla lampadina elettrica la situazione si rivelò meno preoccupante di quanto pensassi, giusto degli innocui e piccoli segnetti rossi a forma di mezzaluna che sanguinavano appena, anche se bruciavano terribilmente come quegli tagli odiosi che ti fai con la carta.
Stringendo i denti, seppellii i segni della mia frustrazione sotto un abbondante giro di garza.
Chiudendo l’anta dello sportello dei medicinali il vetro sulla parte esterna mi restituì un’immagine aliena, quella di una ragazza che sembrava una vecchia.
Sgonfia, pallida e a macchie rosse, gli occhi sfuggenti, vuoti e cisposi, il labbro viola e gonfio, la pelle tesa sulle ossa che premevano per sbucare fuori.
Non ce la feci a controllarmi nello specchio più grande, pochi centimetri più a destra.
Cercai di togliermi quell’immagine dal viso lavandomelo e asciugandomelo fino a quando la pelle non iniziò a tirare, ma non controllai il risultato.
Non ne ebbi il coraggio, ancora una volta.
Gli specchi tendono a mettermi leggermente a disagio.
Almeno l’acqua era fresca e mi aiutò a raffreddarmi, perché stavo letteralmente bollendo, molto probabilmente a causa di un po’ di febbre dovuta allo stress.
Non sapendo proprio che fare ritornai in camera, mi tolsi la maglia del pigiama ormai fradicia di sudore, mi sedetti sul bordo del letto (rimanendo in reggiseno e pantaloni) e mi concentrai sul volto serafico di Tosh che riposava accanto a me.
Era così bella anche così, anche con la bavetta al lato della bocca, anche se i suoi capelli erano spettinati e buttati completamente a caso sul cuscino.
E, per renderle giustizia, sarebbe stato meglio dire erano i capei d’oro a l’aura sparsi,
come scrisse il buon vecchio Petrarca.
Effettivamente non sarebbe stato difficile immaginarla come una donzella medievale degna delle lodi di un grande poeta, o addirittura di una schiera di principi e nobili, che lei avrebbe fatto tutti felici con la sola forza della sua presenza senza però mai concedersi a nessuno, quasi che avesse temuto di spezzare il cuore a tutti gli altri.
Lei era così. Così buona, così...perfetta.
«Sarebbe tutto più facile se io fossi come te, sai? Ti sei presa i geni migliori in famiglia.», mormorai.
Giuro che per un attimo la vidi sorridere, quasi che mi avesse sentito.
Era così buona che era venuta a consolare la sua sorellina che aveva solo fatto un’altra delle sue solite cazzate.
Non so nemmeno io perché mi comporto così, lo faccio e basta, senza riflettere. Sono stupida ed impulsiva, ecco tutto, anche se so che non sono giustificabile.
Sospirai.
Madonna, ma che caldo non faceva? Mi passai il dorso della mano sulla fronte, che stava grondando di sudore.
Ascoltai le sensazioni che il mio corpo mi trasmetteva. La mia temperatura era sicuramente altissima, avevo un caldo della miseria nonostante il gelo che entrava dalla finestra che avevo lasciato socchiusa, per cui decisi di controllare a quanto ammontava la mia temperatura. Tornai ancora una volta in bagno a vedere se recuperavo un termometro tra le cianfrusaglie che avevo nella cesta accanto al lavabo. Trovai solo uno di quei vecchi modelli con la colonnina che devi tenere sotto l’ascella per qualche minuto, quindi mi appollaiai sul lavandino e scrutai il buio per far passare il tempo.
Mi sfilai l’aggeggio da sotto il braccio e avvicinai il viso per vedere dove era la tacca.
52°C.
«Ma che cazz…»
Non era umanamente possibile, sarei dovuta essere già morta.
«Avrà sbagliato il termometro…beh, è vecchio, probabilmente è tarato male…»
Se non fossi stata così concentrata dal vapore caldo che vedevo levarsi dalle mie dita sudaticce e dalla tacca di mercurio che lentamente scendeva raffreddata dall’ambiente (ma che comunque indicava ancora 47°C) forse l’avrei vista arrivare.
Forse mi sarei spostata, avrei reagito, l’avrei parato, avrei urlato, avrei fatto qualsiasi cosa, invece di rimanere semplicemente paralizzata.
Forse avrei evitato che mia sorella, un ghigno demoniaco stampato in viso, mi pugnalasse a tradimento con quello stesso regalo che mi aveva fatto qualche anno prima.
Fissai l’elsa del pugnale che mi spuntava dal petto, tra le costole, ancora stretta dalla mano diafana di Tosca.
Non sapevo cosa pensare.
Non riuscivo a pensare.
Mi afflosciai.
Il termometro cadde, spaccandosi in mille pezzi, il mercurio prese a scorrermi intorno ai piedi, subito Tosca mollò la presa dall’impugnatura al volo e mi tirò su per le spalle, abbracciandomi.
Si avvicinò al mio orecchio destro, leccandolo e mordendolo in una maniera oscena, mettendo in mostra una chiostra di denti sottili e appuntiti, gialli, e una lingua guizzante e biforcuta, da serpente.
Le sue parole mi arrivarono flebili, nella nebbia rossastra che mi stava calando nel cervello.
«Questo te lo meriti per avermi rubato ciò che era mio di diritto, puttana!»
Strappò la lama via dal mio petto, tirandosi dietro un pezzo di me.
Urlai come non avevo mai urlato in vita mia.

Mi svegliai, urlando come una dannata.
Le mie mani corsero al costato.
Nessun buco, niente sangue. Alzai la maglia, la pelle era integra e ben tesa sulle ossa e pulsava al ritmo del mio cuore impazzito.
Controllai la camera, nessuna traccia di sangue, nemmeno la garza sulla mano.
Era stato solo un fottuto incubo.
Mi girai, ma vidi che ero sola nel letto: si vedeva ancora l’impronta di mia sorella, dove aveva dormito, e pensai che probabilmente si era svegliata e vedendomi ancora addormentata aveva deciso di tornarsene in camera sua.
Guardai l’orologio. Le 2:34 di notte.
Cazzo.
E se fosse stato un altro sogno?
Pizzicarmi sarebbe stato inutile, nel sogno precedente mi ero fatta male in abbondanza, ma non mi ero svegliata che quando…quando Tosca mi aveva pugnalato a morte.
Rabbrividii.
Corsi sul balcone, presa da un’idea. Guardai il cielo. La luna risplendeva al suo posto, piena e benigna, circondata da un cielo sfumato e punteggiato di stelle. Non so perché, ma ciò mi convinse che dovevo essere davvero sveglia, perché rispetto al mio incubo, dove il cielo mi era parso strano, orribile e innaturale, qui mi sembrava perfettamente normale. E poi, facendo due conti, mi ricordai che quel giorno la luna doveva essere necessariamente piena. Mi fidai a chiamare questa nuova situazione realtà, anche perché non avevo altre alternative.
Realizzai di avere un freddo cane, col pigiamino di flanella e a piedi nudi sul balcone, frugando ogni dubbio. Di certo “qui” non superavo il 37°C.
Mi ributtai sotto le coperte, per scaldarmi un po’, ma lo stomaco, con un brontolio, mi ricordò che non avevo finito di cenare.
Zampettai fino all’armadio in punta di piedi, tirai fuori un vecchio pullover e scesi in cucina, dove mi concedetti uno spuntino veloce a base di pane e salame (sì, alle quasi 3 di notte), e finii per decidere di sbattermi sul divano a guardare televisione scadente, visto che di rischiare un altro incubo non se ne parlava proprio. Col volume al minimo, non avrei disturbato nessuno. Mi appallottolai dentro una coperta lasciata malamente sul sofà da chissà chi e recuperai il telecomando.
Il pensiero delle altre persone che vivevano in quella casa mi fece venire un groppo in gola.
Il problema era che, in ogni caso, quelle cose che mi aveva detto Gualtiero le pensavo anche io, al di là della cattiveria esagerata che ci aveva messo nel dirle.
Mi autocolpevolizzai, ripromettendomi di chiedere scusa al più presto. Di rimediare in qualche modo, insomma.
Un rumore improvviso, come di una porta chiusa, fece scattare i miei nervi già iperstressati, distogliendomi dai miei ragionamenti.
Spensi il televisore al volo e mi accucciai in un angolo, dietro la legna del camino, ringraziando di aver già sistemato ogni resto della mia merenda. Avevo il bisogno di passare non vista anche da un eventuale altro visitatore notturno del frigorifero come me, non ero pronta per parlare.
Sentii un inaspettato rumore di scarpe, invece delle ciabatte o dei piedi nudi che mi aspettavo. Per un istante temetti fossero entrati i ladri, e invece vidi Tosca e Gualtiero, vestiti con abiti pesanti, guanti sciarpa e cappello, passare. Osservando meglio notai mio padre che stava tenendo loro aperta la porta sul retro del salotto, e che faceva segno con l’indice davanti alla bocca di non fare rumore.
Gualty però rientrò subito.
«Prendo qualcosa per un fuoco, non voglio congelarmi le chiappe»
Gualtiero si avvicinò alla catasta di legna e prese una bracciata di ciocchi dalla cima.
Mi feci piccola piccola e desiderai fortemente di essere invisibile, approfittando al massimo della mia bassa statura per stringermi più che potevo nello spazietto buio e angusto tra il mucchio di legna da ardere, impilata su un’elegante base di peltro, e il muro.
Sbuffando per il peso della legna, Gualtiero si allontanò, chiudendo la porta con il piede. Sentii la serratura girare due volte, ma rimasi nascosta finché i miei familiari non divennero delle figure indistinte che si dirigevano verso nord. Allora saltai in piedi, e mi precipitai su dalle scale per riuscire a seguirli dalle finestre dell’ultimo piano. Erano ormai al margine degli alberi, ad accompagnarli c’erano due bagliori che si vedevano appena appena, evidentemente erano i cellulari usati come torce per non inciampare in eventuali ostacoli. Stavano entrando nel bosco e, a meno che non avessero avuto intenzione di guadare il fiumiciattolo, c’era solo un posto dove sarebbero potuti andare.
E c’era solo un posto dove io li avrei seguiti.
Ritornai in camera emi infilai direttamente nella tuta da sci che era blu scuro per spiccare sulla neve, e quindi ottima per nascondersi al buio. Mi misi un paio di stivali bassi, un cappello di lana, e mi calai dal balcone sfruttando la scala di corda che avevo attaccato dentro al parapetto in seconda media, per riuscire a scappare in giardino nonostante il confino forzato che mi era stato imposto dopo che avevo accidentalmente fatto male un mio compagno di classe.
Accidentalmente il mio pugno era finito sulla sua faccia, ecco tutto.
Recuperai il vantaggio che avevo dato loro correndo silenziosamente nell’erba curata, imprecando ogni volta che un pezzo di ghiaccio mi scrocchiava sotto i piedi.

Arrivai al cerchio di pietre in un paio di minuti, ma rimasi nascosta tra gli alberi, approfittando di un provvidenziale ramo basso per issarmi ad un paio di metri d’altezza per poter osservare meglio.
Per osservare meglio Gualtiero che dava prova delle sue non-abilità da boyscout, fallendo una dozzina di volte prima di riuscire  ad incendiare con uno Zippo un ramo di pino trovato per terra, che a sua volta usò per dar fuoco a quei ciocchi che aveva preso in salotto poco prima. Cavolo, ce ne vuole di coraggio per cercare di usare un ramo verde ed umido per accendere un falò!
Nonostante la sua evidente imbranataggine creò in quattro e quattr’otto un bel fuocherello a pochi passi da una delle pietre più grandi, 
sopra cui poi si sedette soffiandosi sulle dita.
Nessuno parlava, nessuno voleva iniziare.
Fu Tosca, la timida Tosca, a prendere per prima la parola, con le tenere guance arrossate dal freddo nonostante il cappellino di lana calato fin sopra gli occhi e la sciarpona tirata su fino al naso.
«Papà, Gualty…non possiamo continuare a nasconderglielo all’infinito. Evelina deve sapere, e deve sapere tutto, o non potrei mai perdonarmi la sua morte»

  
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