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Autore: Sueisfine    06/09/2007    3 recensioni
Questa storia è nata per caso, spinta soprattutto dalla mia grandissima ed insaziabile passione per il gruppo musicale The Cure. Mi sono permessa di prendere spunto dalla storia del gruppo, accumulata attraverso interviste, libri, biografie autorizzate etc., negli anni che vanno dal 1981 in poi, per narrare un po' gli avvenimenti dal punto di vista di Robert Smith, leader del gruppo, e Simon Gallup, bassista.
Diverse situazioni sono frutto della mia ( bacata ) immaginazione, però ho cercato e cerco, nei limiti, di dare una certa contestualizzazione al tutto.
DISCLAIMER : Con questo mio racconto, ovviamente scritto e pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo né diffamare né fornire una rappresentazione veritiera dei fatti accaduti, ma semplicemente rivedere il tutto secondo una mia particolare ( condivisibile o meno ) prospettiva.
Buona lettura ;_;
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter Five

~ In Your House

«Smith, per favore».
Ero decisamente trafelato. Appena sceso dall’autobus mi fiondai dentro l’ospedale, un palazzone grigiastro su più piani.
«Smith, ha detto ?».
«Sì, Smith. Robert Smith».
Questo posto aveva qualcosa di inquietante, ma non saprei spiegare precisamente cosa.
La puzza di disinfettante mi aveva ormai anestetizzato le narici, non ci facevo più caso.
«Stanza 306».
L’infermiera all’accettazione era grassoccia, i capelli grigi appiccicati al viso e i denti un po’ macchiati, dal caffè o forse dalle troppe sigarette.
Una ragazza incinta stava passando in carrozzella, guidata da un giovane infermiere.
C’erano molte persone quel giorno in ospedale, constatai.
«Mi scusi, sta ascoltando ? Stanza 306».
Evidentemente sembravo un po’ fuori dal mondo. E, beh, era così.
Avevo ricevuto una chiamata da Lol, una ventina di minuti prima. “Presto Sim, Robert ha avuto un incidente”, fu l’unica cosa che riuscì a balbettare. Mi feci dare l’indirizzo dell’ospedale e in meno di dieci minuti ero già sul primo autobus.
Non sapevo di che natura fosse questo ‘incidente’, ma in quegli istanti di viaggio non ero riuscito a pensare a nulla.
Fu nella sala d’attesa che riflettei sulla parola ‘incidente’. Era un po’ generica, Lol, come definizione. Un incidente d’auto ? Un incidente domestico ? Come poteva essere accaduto ? Quando ? E soprattutto, perché ? Dannazione, avrei potuto chiedere spiegazioni ed evitarmi tutta quest’ansia.
Speravo ovviamente che non fosse nulla di grave. Mioddio. La paura, eccola tornare, la sentivo di nuovo.
Avevo una paralizzante paura che niente sarebbe più stato come prima. Ero pronto a pentirmi di tutti gli errori commessi. L’avrei giurato su ciò che avevo di più caro. Se solo fosse andato tutto bene anche questa volta, avrei promesso…
L’arrivo di Lol, Steven e Mary mi salvò da questa miriade di insane elucubrazioni mentali che finivano sempre per portarmi ad un vicolo cieco.
Mi alzai di scatto e la prima cosa che mi uscì di bocca fu un misero e concitato «Allora ?».
«Allora cosa ? Siamo arrivati solo adesso», fece Lol, «Dacci almeno un momento». Avevano tutti e tre i visi accaldati, per l’ipotizzabile corsa fin lì, e i capelli bagnati. Fuori pioveva ancora molto.
Steven si guardò intorno, dandosi un’arruffata ai capelli biondissimi. Lol si tolse il piumino e lo appoggiò su una sedia lì nella sala d’aspetto. «Se almeno smettesse di piovere…» mugugnò, gettando un’occhiata fuori.
Un’ombra scura scese sul viso di Mary, che si sedette, in silenzio.
Beh ? Cosa aspettavano ad accennarmi qualcosa ?
«Allora ?!» ripetei, stremato, «Si può sapere che cavolo è successo ?».
«Pare che abbia avuto un collasso nervoso» partì all’attacco Steven, un po’ imbarazzato, «O, meglio, questo è quello che ci hanno detto al telefono… Sai, quando sei troppo stressato credo sia normale. Lui non dormiva e non mangiava decentemente da giorni, era praticamente inevitabile».
«Era evitabilissimo, invece» ribatté Mary con tono di voce ostile, e anche se le davo le spalle sentivo i suoi occhi perforarmi la schiena.
«Beh, hai visto qualche dottore nei dintorni, Sim ?».
Non era stata colpa mia Mary. E tu lo sai.
«Sim ?».
E non eri affatto l’unica a cui dispiacesse una situazione del genere.
«Simon ! Ma mi ascolti ? Dannazione». La voce di Lol mi fece tornare alla realtà.
«Ah, scusami…».
Sentimmo la porta della stanza di Robert aprirsi di scatto, e ci trovammo di fronte ad un medico, che presentò subito le sue credenziali, spiegandoci che il nostro amico aveva avuto un collasso nervoso. Un cedimento di nervi o cose simili, come ci aveva già accennato Steven. C’era bisogno di riposo e tranquillità assoluta, perché per ora non si trattava di una cosa seria, ma alla lunga poteva diventarlo.
Tranquillità assoluta. Insomma, era come se mi avesse implicitamente detto di starmene fuori dai piedi.
«Noi andiamo dentro, vieni Simon ?» mi chiese Steven.
Aveva bisogno di tranquillità assoluta. Avrei tanto voluto vedere come stesse, se non altro per calmarmi un po’.
Ma, per il suo bene, scossi la testa in direzione degli altri, limitandomi a biascicare un «Magari dopo».
Inutile dire come mi sentissi dannatamente in colpa. Anche se nell’incidente non ero direttamente coinvolto, logico che tutto riportasse al nostro precedente incontro, ed ai malumori che avevo causato in Robert. In quel momento avrei solo voluto dirgli che mi dispiaceva, mi dispiaceva immensamente. E stavolta il mio orgoglio poteva andarsene all’inferno.
Le disgrazie uniscono, è vero.
Ma perché le persone sono così stupide da dover aspettare che accada qualcosa di grave per sistemare le cose ? E se poi non fosse più stato possibile ? Se la suddetta disgrazia avesse portato a conseguenze irreparabili ?
Dio, meglio non pensarci. Sarebbe stato come vivere una non-vita, fino alla fine dei miei giorni.
D’un tratto sentii aprirsi di nuovo la porta. Sbucò la testa di Steven.
«Ehi Sim, Robert chiede di te». Sul suo viso si allargò un sorrisone, sembrava veramente felice per questa neanche tanto insolita richiesta. Steven era davvero una persona meravigliosa. Risposi al suo sorriso, ringraziandolo con lo sguardo, in silenzio.

Mi fece entrare, e lo vidi lì, disteso. Pallido, come al solito, ma sicuramente meno pallido della volta scorsa. ‘Ringraziamo le flebo’, mi dissi. I capelli scarmigliati che si allargavano a raggiera sul cuscino.
«Ehi, Simon». Lapidario. Faceva un po’ fatica a parlare. Aveva le labbra molto secche, e se le inumidì con la lingua. Le coperte intirizzite lo facevano sembrare quasi mummificato.
«Ehi». Non riuscivo ancora a guardarlo, quindi distolsi subito lo sguardo e mi misi ad ispezionare con minuzia le tendine alla finestra.
«Posso… Rimanere un po’ solo con Sim ?», chiese delicatamente agli altri.
Mary spense un po’ della luce che era rinata sul suo viso, e si incupì nuovamente. Sì, ora mi odiava, ne ero più che convinto.
«Certo…» rispose Lol, «Basta che non vi prendete a pugni come l’ultima volta. Intesi ?», specificò, guardandomi duramente.
«Sissignore signorsì !» esclamai, mettendomi in posizione.
«Idiota». Ed uscirono, in fila indiana. Quando la porta si chiuse, l’ansia che mi ero portato dietro mi si avvinghiò in gola. Non riuscivo a distogliere gli occhi dalla maniglia della porta, tanta era la paura di incontrare i suoi, di occhi. Erano due buchi neri. L’ultima volta mi avevano quasi risucchiato del tutto.
«Beh ? Non mi chiedi neanche come sto ?» disse in un risolino, cercando di issarsi a sedere.
Almeno aveva trovato un po’ di forza per ironizzare un po’ sull’accaduto.
O si trattava solamente dell’ennesimo colpo basso ?
Mi voltai verso di lui, dopo aver finalmente raccolto un po’ di coraggio.
«Come stai, allora ?». Banale, come al solito.
Ora guardava dritto davanti a sé.
Presi una sedia e mi accomodai accanto al letto.
«Adesso sto bene, sì. Ma prima non sono stato molto bene, Sim». Si voltò, andando ad incontrare nuovamente i miei occhi, «E neanche l’altra volta stavo bene».
«Me n’ero accorto». Cristo, possibile che non riesca mai a fare una figura quantomeno decente ?
«Sai, poco prima di accasciarmi al suolo sotto la pioggia, ho incontrato lo sguardo di un bambino, e in testa mi risuonava una sola ed unica canzone», affermò, secco.
Anche se non avevo la benché minima idea di cosa stesse parlando, mi venne spontaneo chiedergli quale.
«It ain’t easy», rispose, «di David Bowie».
Cercavo di richiamare alla memoria il testo della canzone, ma lui prese subito ad accennarmela, notando il mio stato semi-confusionale.
«It ain't easy to get to heaven when you're going down», canticchiò, «Massì Sim, dall’album di Ziggy, insomma ! Non ricordi le cose fondamentali della vita, come posso volerti bene. Dannazione !», e scoppiò a ridere, «Sei un caso perso».
A me non scappò più di tanto da ridere. Avevo l’amaro in bocca. Tutto questo non aveva senso di esistere.
«Mh. E come mai proprio quella canzone ? Cosa c’entra il bambino ? Ti eri appena fatto, per caso ?» chiesi stizzito. Stavo andando su tutte le furie. «Non sarebbe stata una novità, in fondo. So del tuo incidente, mi precipito qui perché stavo morendo di paura, e ti dirò che le ho pensate davvero tutte. Vengo qui, afflitto, disperato, ansioso, e cosa trovo ? Tu che ridi !». Ormai urlavo, sbraitavo, fuori da ogni controllo.
Il sorriso di Robert si spezzò, sotto i suoi occhi increduli.
«Tu che ridi ! Te ne stai lì, canticchi canzoni e ridi ! Te ne rendi conto ? Sei solo un egoista ! Io mi sono preoccupato da morire per te e tu mi ridi in faccia, cazzo !».
Gli occhi mi si inondarono di lacrime, avevo i nervi a pezzi. Me li coprii con le mani, non riuscivo a smettere. Tutto quello che avevo dentro si era incrinato grazie ad una sola sua risata.
Era questo il potere che esercitava su di me ?
Mentre piangevo ormai fuori di me, sentii una mano poggiarsi sui miei capelli, tastando prima il terreno, e poi iniziando a sfiorare lentamente. La mano di Robert. Procedeva con insicurezza.
Alzai il viso dai palmi bagnati delle mie mani, e lo guardai.
Stava piangendo anche lui.
  
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