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Autore: lalla    11/08/2004    3 recensioni
Si tratta di un vero e proprio romanzo, da me scritto qualche anno fa. Dopo averlo riveduto e ritoccato, ho deciso di pubblicarlo. A puntate, naturalmente. Le tematiche? L'immortalità e la storia, tribolata, affascinante e misconosciuta, degli afro americani.
introduzione (può contemporaneamente cancellare in autonomia questo messaggio)
Genere: Avventura, Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pioveva ininterrottamente da due giorni e il muro sudava umidità, pensava la vecchia Lou guardando la macchia allargarsi verda

Pioveva ininterrottamente da due giorni e il muro sudava umidità, pensava la vecchia Lou guardando la macchia allargarsi verdastra e minacciosa sul soffitto della sua catapecchia. Ci fosse stato ancora Jack  avrebbe sistemato tutto quanto, ma ormai dovevano essere passati più di vent’anni, dacchè era schiattato. Il cuore matto. O il lavoro dei campi. O tutte le porcherie che  tracannava, perché no. Diventava cattivo, Jack, quando beveva. La picchiava, se la prendeva con lei quando l’arrosto veniva troppo cotto e le patate troppo crude, e le rinfacciava cose da pazzi, di essere una donna da niente, di non essere stata neppure capace a far figli. Forse la vita sarebbe stata diversa, con un paio di marmocchi da crescere. Meno cattiva e meno vuota. Lui non avrebbe sentito il bisogno di attaccarsi alla maledetta bottiglia, lei avrebbe avuto qualcuno che si prendesse cura dei suoi acciacchi e della sua vecchiaia, ma era andata com’era andata, qualcosa s’era rotta dentro il cuore di Jack, la notte che Melody non riusciva a sgravarsi del vitellino e pioveva che Dio la mandava, tale e quale come quella sera.

      Vent’anni. Vent’anni che stava lì da sola, in quella bicocca che nessuno era più in grado di riparare e che, prima o poi, le  sarebbe crollata sulla testa. Erano venuti, gli assistenti sociali, dannati rompiballe. E  se n’erano andati, quando lei gli aveva puntato contro il fucile carico.

   Non è possibile  vivere così, alle soglie del Duemila, in una baracca senza luce, senza telefono, senza niente, senza neppure l’acqua che bisognava spaccarsi le braccia a pompare su dal pozzo, un secchio alla volta. Se n’erano andati ed erano tornati, gli assistenti sociali, per  cercare di portarla via e di rinchiuderla in qualcuno di quegli orribili cimiteri per vivi dove non manca nulla e si vegeta aspettando di crepare, così come si aspetta il proprio turno per pisciare  davanti al cesso della stazione. Non è possibile vivere così...Per quanto ancora? Beveva, anche lei, peggio d’una spugna. E aveva la faccia che sembrava una di quelle mele gialle e vizze, ma settantacinque anni non erano niente, per la  razzaccia dei Culvert, che avevano il cuore a prova di bomba. Sua madre era morta a oltre novant’anni, suo padre quasi a cento. I Culvert non avevano il cuore dei Brown, di suo marito, spompato come un vecchio diesel. E avevano la testa di legno e un coraggio da leoni. In quanto a lei, non sarebbero stati quelli del servizio sociale a sloggiarla da casa sua per rinchiuderla in un maledetto ospizio. Li avrebbe fatti scappare a gambe levate, se si fossero presentati un’altra volta, prima di aprire bocca per sciorinarle la solita solfa “non può starsene tutta sola in un posto come questo, all’età che ha”.Gente di città. Pappemolle. L’ululato di un coyote, il lamento di un gufo li avrebbero fatti pisciare sotto dalla paura. Gente di città che con le mani non è più buona a far niente e che tra un po’ avrebbe inventato perfino la macchina per pulirsi il culo. Maledetta marmaglia, come quelli che stavano in paese, ormai lei ci andava solamente per ritirarsi la pensione, e allora se le guardava ben bene, le  sue coetanee con le facce lisce, le permanenti fresche e le dentiere nuove di zecca, svergognate, tutte profumate di talco e d’acqua di colonia. I bambini, piccole carogne, la segnavano a dito e qualche giovinastro, passandole accanto, faceva l’atto di    turarsi il naso. Il Signore non avrebbe avuto pietà delle loro anime.

    - Non è più una ragazzina, Mrs. Culvert...

    Non è più una ragazzina, è una vecchia rimbambita e, prima o poi, qualche figlio di puttana le tirerà il collo per portarsi via la sua pensione. La nasconde nel materasso, vero? O sotto quella mattonella che si muove come gli ultimi denti che le dondolano in bocca? Sia ragionevole, nonna! Questa bicocca dove vive, oltre a mancare del necessario, le rovinerà addosso, un giorno o l’altro.

Certi erano arroganti, altri gentili ed educati, e allora mandarli a quel paese diventava difficile. Come l’ultima, una nera sulla trentina, una bella donna elegante e truccata. Chissà da dove veniva. Da quelle parti, neri se n’erano sempre visti pochi. A Jack davano sui nervi, glieli nominavi e giù bestemmie. Rubavano, a sentir lui. E guardavano le ragazze bianche con certi occhi che se lui avesse avuto una figlia e qualche negro fottuto si fosse azzardato a guardarla in quel modo... Lei lo lasciava dire perché, di come la pensasse, in realtà poco gliene importava.

Ma quella o un’altra, la sostanza dell’affare non cambiava di una virgola, quelli del servizio sociale  sarebbero tornati ancora e le avrebbero tentate tutte per cercare di convincerla. Ad Adelphi c’era una bella casa, avrebbe avuto compagnia, assistenza, avrebbe goduto di tutte le comodità, mangiato regolarmente, c’era la lavanderia, c’era la parrucchiera, c’era il medico, non avrebbe rischiato di morire d’un colpo apoplettico sola come un cane, o perché le era rovinato il soffitto sulla testa o ammazzata da qualche balordo che voleva i soldi della sua pensione. Ognuno nasce col destino già segnato, tanto, e che il suo si chiamasse crollo del soffitto, colpo apoplettico o balordo imbottito di droga non gliene importava più di tanto, a settantacinque anni è giusto e normale che l’istinto di conservazione vada a farsi fottere.

Fuori, tuonava e diluviava come fosse scoppiata l’Apocalisse, ma lei non era di quelle stupide oche di città che topi e tuoni fan pisciare sotto dalla paura. Un tetto sopra la testa, benché pericolante, ce l’aveva, pensò tracannando una lunga sorsata di bourbon cattivo direttamente dalla bottiglia. Ammazzava i pensieri, aveva ragione la buonanima di Jack. E ne aveva ammazzati già parecchi se, dopo due giorni che gliel’avevano mandato dall’emporio, ne aveva già fatto fuori tre quarti abbondanti. Il garzone era un altro ancora, ricordò, tanto per cambiare non gli duravano, al vecchio Clemmons. Niente di strano che rubassero, tutti i garzoni degli spacci lo fanno, e quel Jim, o come diavolo si chiamava, non le era mai piaciuto, coi suoi capelli tinti d’arancione dritti sulla testa, il giubbotto di cuoio spelacchiato, i calzoni con gli strappi sulle ginocchia, i denti davanti cariati e l’anello al naso come un manzo Brahama. Almeno il nuovo era un bel ragazzo dall’aria ammodo, un nero, sì, ma pulito e rassicurante, con i jeans stirati e la maglietta fresca di bucato, con quel ridicolo orecchino  al lobo anche lui, ma piccolo a momenti neppure si vedeva.

Si affacciò alla finestra. Era quasi buio, ma il cielo era rischiarato dal bagliore dei lampi e dalla luna piena che faceva, di tanto in tanto, capolino tra le nuvole. Le piaceva guardare il temporale, le era sempre piaciuto.

    Jimmy non sarebbe tornato. Meglio così, sicuramente era della razza di cui le dicevano gli assistenti sociali per metterle paura.    

Avrebbe piovuto per tutta la notte, pensava guardando il temporale, la capra e le galline avrebbero fatto casino impedendole di dormire e, la mattina dopo, si sarebbe alzata dal letto col mal di testa e tutte le ossa rotte. Ad Adelphi, in quella bella casa, avrebbe avuto notti tranquille e lenzuola pulite. Avrebbe avuto compagnia e assistenza. Andassero al diavolo tutti quanti.

Il grosso cane nero si muoveva circospetto, confondendosi con le ombre della notte che stava scendendo sulla campagna deserta. Camminava basso sulla pancia sferzandosi i fianchi con la lunga coda, ma come fanno i gatti, non i cani. Un bell’animale, ben nutrito. Sembrava un labrador, lucido e nero, ma con  piedi stranamente grossi, per un cane e piccole orecchie mobili e dritte sulla testa anziché pendenti come quelle di tutti quanti i labrador, ma forse, pensava Lou, era solo uno scherzo del buio, dell’alcol e dei suoi occhi che non funzionavano più bene come una volta. Quei bastardi di città non avevano mai smesso con l’abitudine dannata di scaricare in campagna i loro cani che crescevano troppo, mangiavano come lupi e non venivano accettati negli alberghi delle vacanze. E loro si arrangiavano come potevano, pensò la vecchia caricando il fucile. Quella bestiaccia poteva attaccare le galline, poteva sgozzare la capra. Anzi, grosso com’era, avrebbe potuto abbattere un bue. Eppoi c’era la rabbia, nei boschi lì attorno.

    - Adesso t’aggiusto io, cagnaccio...

   Socchiuse la finestra, puntò il fucile contro la sagoma scura che si distingueva appena, illuminata a sprazzi dalla luce dei lampi e dalla luna che di tanto in tanto faceva capolino tra il nero delle nuvole.

    Non doveva mancarlo. Jack  le aveva insegnato a tirare, tanto tempo prima, quando ancora ci vedeva bene e le mani     non le tremavano. In campagna serve, anche ai bambini, anche alle donne, se non altro per tenere a bada coyote e cani randagi. Perché quello, com’era vero Iddio, lo era, un grosso fetente bastardo affamato, ci avrebbe scommesso l’osso del collo.

    Una folata di vento penetrò, gelida, attraverso la finestra socchiusa, portandosi appresso uno scroscio d’acqua, mentre un fulmine squarciò il nero del cielo. Dove si era nascosta, la fottuta luna? Si chiamava eclissi, o qualcosa del genere, quello che succedeva quando la luna andava a nascondersi, c’era scritto su tutti i dannati libri di scuola dei bambini, ed era proprio lì sopra che doveva averla letta, quella parola, un sacco di  tempo prima. Sparò. Con un balzo, l’animale corse a rifugiarsi in mezzo a un boschetto di querce, gnaulando come un dannato, come mai aveva sentito fare da qualsivoglia animale di questa terra e non dell’inferno avesse mai visto e conosciuto.

      - Signore Iddio Misericordioso... 

      Le avevano insegnato che è peccato, nominare invano il nome di Dio. Ma a chi avrebbe potuto chiedere aiuto, domandare una risposta? Ad Adelphi sarebbe stata al sicuro anche da quello, pensò lasciandosi cadere sulla vecchia poltrona, il fucile stretto tra le mani come un talismano contro la malasorte. C’era puzza, dentro casa sua. Odore di fango e d’erba marcia. Odore vecchio di sporcizia d’umido e di muffa, odore di vestiti sporchi, di pelle mal lavata e d’abbandono. Odori a cui aveva fatto il naso. Ma quello che il vento aveva cacciato nella stanza era diverso: un tanfo acre e selvatico, che le riportò alla memoria ricordi vecchi di anni. Ne aveva al massimo diciassette, allora, e faceva all’amore con Jack di nascosto dai suoi. Quel giorno, erano scesi in città a vedere il circo e vicino alla gabbia dei leoni c’era quella stessa identica puzza, la ricordava come fosse stato il  giorno prima. Ma se avesse parlato l’avrebbero presa per matta, probabilmente avrebbero trovato la scusa buona per rinchiuderla. Nel suo destino, non c’era un colpo apoplettico o il crollo del soffitto e neppure un balordo imbottito di droga e disposto a tutto. C’era dell’altro.    Ma, a settantacinque anni, è giusto e normale che l’istinto di conservazione vada a farsi fottere.

 

 

 

 

   
 
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