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Autore: Novecento    08/09/2007    4 recensioni
Rapida immersione in un personaggio di cui conosciamo a stento il nome. Angst.
Genere: Triste, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, James Wilson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cinque meno dieci
Parole: 879
Disclaimer: Julie, James, e la totalità di House M.D. non mi appartengono. Forse sono miei George e la particolare visuale.
A/N: Mille grazie alla mia preziosa β, Brassica.


Cinque meno dieci

Ti svegli leggermente sudata e guardi l’ora. Non vedi le familiari cifre rosse della sveglia e cerchi a tastoni il tuo orologio da polso – moderno, elegante – sul comodino leggermente troppo alto alla tua sinistra. Una rapida accensione dell’abat-jour ti consente di scoprire che sono le cinque meno dieci e il tuo primo pensiero è che, merda, in primo luogo non dovevi addormentarti, non lì. Il secondo è spegnere la luce, il terzo che il corpo accanto al tuo non russa, ma respira lievemente, in un alternarsi di inspirazione ed espirazione che sarebbero più adatti a qualcuno con dieci chili in meno e la metà dei suoi anni. Cerchi di ricostruirne allora, al buio, la fisionomia: la piega delle labbra, il taglio degli occhi, il loro colore; e ti chiedi cosa abbia a che fare lui, George Moritz, socio fondatore della Futura Inc., con il tradimento di tuo marito. Ti sfiorano la speranza che lui significhi veramente qualcosa e l’intuizione di svegliarlo per riscoprirlo insieme, il motivo per cui sei lì. Ma è un attimo, e già non puoi più rimanere su quel letto.
Ti alzi e ti avvicini alla porta-finestra, affascinata dalla trama della luce che penetra dalle serrande. Guardi fuori, sebbene tu non possa vedere nulla, e pensi a James. Là, da qualche parte, ma con ottima probabilità all’ospedale, a 40 minuti di strada da questa stanza d’albergo, c’è tuo marito. Starà dormendo, compilando cartelle – le ultime di ieri, le prime di oggi -, confortando pazienti? Quale espressione staranno assumendo ora i suoi lineamenti? E ti accorgi che del suo viso ricordi brevi istantanee felici, non più recenti di due anni fa, poi occhiaie e labbra piatte e sottili e un’ombra sul volto proiettata dall’interno.
Quasi ridi ripensando alle prime notti delle prime notti da sola, alla pena e al disprezzo che provavi per te stessa, alla certezza che era germinata in te che lui ti tradisse, allo sconforto nel non trovare in te un motivo che potesse spiegare la tua sventura.
Scoprire che l’amante, l’avversario, il nemico che aveva strappato tuo marito alla tua legittima sovranità era l’ospedale, ti aveva rincuorato per poco. Avevi deciso di combattere questo esercito invasore, di riprendere possesso di quell’anima e quel corpo che avevi eletto tuoi. Eri stata più disponibile, più aperta, più attenta. Ti eri interessata ai casi, ai pazienti. Avevi ascoltato, avevi suscitato confidenze e sfoghi. Gli avevi tenuto la testa sulle tue ginocchia e avevi cercato di lenire le preoccupazioni passando dolce la tua mano tra i suoi capelli. Avevi dato, dato, dato.
E lui aveva scelto ancora quell’amante crudele che non faceva che chiedere e chiedere, pretendere e ottenere, quei malati grigi a cui sempre più lui andava assomigliando, quei bambini dai crani lucidi, sgorbi dal sorriso sbilenco che occupavano nel suo cuore il posto di quel figlio che tu mai avresti potuto dargli.
Un bambino. Un bambino avrebbe forse risolto tutto, ti avrebbe riconsegnato il tuo bel marito e la gioia. Dopo molteplici tentativi non andati a buon fine, gli esami vi avevano annunciato che non avreste mai potuto dare alla luce un figlio vostro. Colpa tua. E lui ti aveva abbracciata, le lacrime agli occhi, e aveva detto che non era un problema, magari avreste potuto riflettere sull’opportunità di un’adozione. E aveva sorriso in quel modo che ti faceva capire che la nave stava colando a picco ma lui sarebbe morto con te. E i tuoi muscoli si erano tesi come in un ultimo disperato tentativo di saltare fuori da quella nave perché no, tu non volevi morire lì.
Si sta facendo giorno, e più luce filtra nella stanza. George non c’entra proprio nulla, anche se forse s’illude del contrario. Non pensi che durerà a lungo, e non sei disposta ad attendere il suo risveglio. Ti dirigi in bagno e ti fai una doccia fredda in cui cerchi di non pensare a nulla, e quando le lacrime ti scorrono sul volto appartengono a qualcun altro, perché tu sei fredda, razionale, ambiziosa, posata, e non provi niente, più niente per quel patetico marito, per il tuo ventre vuoto e per l’imperturbabile respiro della stanza accanto. Non ti importa nulla di tutto ciò, tu hai una vita agiata e un lavoro molto ben retribuito e soddisfacente, e persone da invitare a cena, e viaggi da fare quando non ne potrai più di questa odiosa, monotona città.
Ti asciughi e ti vesti, raccogli con metodo le tue cose nella borsa ed esci dalla stanza, poi dall’ascensore, dall’albergo, e quando entri nel tuo studio noti che non ti sei voltata indietro una volta.
Magari non vedrai più George. Magari stasera James tornerà a casa presto e ti abbraccerà. Magari potrai abbandonare il tuo progetto, il tuo proposito di indurire il cuore fino a non sentire più dolore.
Ma tu sai che se anche George non chiamasse più, presto ci sarà qualcuno a sostituirlo, e anche stasera, inevitabilmente, qualcuno avrà bisogno di tuo marito, e lui non tornerà a casa.
E conosci le ragioni di James, per avergliele sentite ripetere centinaia di volte, e ti senti egoista nel pensare questo, ma non riesci proprio ad immaginare, ora, come qualcuno possa avere bisogno di lui più di te.


A/N 2: Che ve ne pare? Verosimile? Assurda? Non me ne abbiate a male per come ho trattato James (che adoro!) e i pazienti e la città di Princeton; tutto sommato sentivo la necessità di una narrazione quasi “verista”, che prendesse come assiomi le percezioni e convinzioni di Julie. E anche la seconda persona narrante è stata un esperimento. Ditemi qualcosa (anche “crepa!” va bene).
  
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