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Autore: sleepingwithghosts    23/02/2013    4 recensioni
Avevo voglia di fumare. Non avevo voglia di alzarmi.
Sospirai, e chiudendo gli occhi sentii i passi delicati di mamma avvicinarsi, il suo bacio umido sulla fronte, le sue mani sulle mie costole, il peso del lenzuolo e di una coperta a schiacciarmi sul materasso, la porta chiudersi.
Ero sola, di nuovo, con la mia pelle sottile, una voglia di nicotina indescrivibile e tanto freddo, persino dentro il cervello svuotato dall’alcol. Attorno e dentro me freddo, solo tanto freddo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Epilogo.

 

Uscii dalla libreria e chiusi la porta a chiave. Mi accesi una sigaretta. Era una giornata cupa, di quelle in cui il cielo è bianco e gli occhiali da sole ti servirebbero anche se di sole non ce n’è nemmeno l’ombra. Strizzai gli occhi, infastidito. Magari avrebbe piovuto. Sinceramente lo speravo: non avevo mai adorato il caldo umido di Agosto. Non avevo voglia di tornare a casa, sapevo che Rachel aveva organizzato una festa a sorpresa per il mio compleanno. Non era mai stata brava a nascondere le cose, e infatti nel suo cassetto dell’intimo avevo trovato una lista, una delle tante che era solita comporre, e un punto mi era saltato all’occhio: festa Seth. Pensavo fosse un gesto carino da parte sua, voler festeggiare con tutti i nostri amici i miei trentacinque anni. E io che pensavo sarei morto sotto un ponte, appena superati i vent’anni, per via di tutta quella droga. Avevo un sospetto, che tanto sospetto non era, dato il tremolio alle mani che mi perseguitava, di essermi bruciato qualche cosa nel cervello. Ma infine vedi sempre tutto da un’altra prospettiva, quando hai vent’anni e non sai come salvarti. Decidi che se nessuno lo farà al posto tuo, tu ti lascerai andare, tu non farai assolutamente nulla. E invece lei mi aveva salvato.

Avevo visto Evie l’ultima volta qualche anno prima, quando ancora non avevo conosciuto Rachel, mia moglie, in un supermercato. Non l’avevo riconosciuta subito, era cambiata molto, con gli anni. I capelli, lunghi fino alla base della schiena, li aveva tinti di nero (il giorno del suo diciottesimo compleanno, in camera sua, un muffin comprato al bar all’angolo sulle lenzuola, con solo la biancheria addosso, le canticchiavo all’orecchio ‘tanti auguri a te’ soffiandole fra i capelli rosso stinto che le arrivavano alle spalle), il corpo, fasciato da un abito da lavoro blu scuro, era maturato, e sebbene fosse ancora magro, aveva l’aspetto sano (il giorno del suo diciottesimo compleanno, in camera sua, un muffin comprato al bar all’angolo sulle lenzuola, con solo la biancheria addosso, le accarezzavo la pancia con le dita, sentendo la pelle cambiare aspetto, diventare come la buccia del limone, e capivo, lo capivo dalla sua pelle, che mi amava). Le gambe, quelle le erano rimaste uguali: lunghe e smilze, del genere che si avvicina alla perfezione (il giorno del suo diciottesimo compleanno, in camera sua, un muffin comprato al bar all’angolo sulle lenzuola, con solo la biancheria addosso, posavo gli occhi sulle sue cosce sfregiate, e mi ripetevo che non era colpa mia, che non era colpa mia, che davvero, non era colpa mia). Da dove mi trovavo potevo osservarle anche il volto: i lineamenti duri e seri, le labbra piene e le ciglia lunghe. La trovai cambiata, ma riconoscevo in lei tutto di quella ragazzina che avevo amato fino a farmi male, letteralmente. Mi ero avvicinato a lei, indeciso se chiamarla, oppure rimanere ad ammirarla, seppure più da vicino, ma lei aveva alzato lo sguardo e mi aveva trovato lì, con una felpa grigia pendente sulle spalle e le scarpe sportive ai piedi. Mi aveva sorriso, e accostatasi a me, mi aveva lasciato sulla guancia un bacio, senza alzarsi sulle punte, come faceva un tempo, a causa delle scarpe con i tacchi che indossava. Aveva detto «ciao», io gli avevo risposto lo stesso. Era diventata un avvocato, mi disse, ed era per quello, che la vedevo vestita in quel modo, perché a lei piacevano ancora le calze e le maglie lunghe come una volta, mi spiegò. Le dissi che lavoravo nella libreria del centro, quella in cui andavamo sempre insieme, e dopo aver sorriso, disse che di tempo per leggere ne aveva davvero poco, ormai. Affermai che era una cosa triste, e lei annuì, per poi guardarsi i piedi. Le chiesi se era sposata – portava una fedina al dito e io non me ne intendevo molto né di matrimoni, né di anelli – ma lei scosse la testa e disse che stava davvero bene, ora. Domandò di mio fratello, come stava e se era riuscito poi a metterla incinta, quella ragazza che amava tanto. Scoppiai a ridere: mio fratello l’aveva abbandonata dopo il terzo figlio. Disse che era proprio da lui, e rise con me. Volli chiederle dei suoi genitori, e lei si fece scura in volto, rispondendo poi che non li aveva più visti, da quando se n’era andata di casa, insieme a me. Mi vennero in mente subito i mesi passati dentro quel piccolo appartamento malsano, e sebbene avessi dovuto ricordare le litigate, che in quel periodo erano all’ordine del giorno, l’immagine che mi apparse fu quella di noi, seduti sul divano, a mangiare cereali perché senza un soldo, la sua testa posata sulla mia, una canzone degli anni sessanta che usciva dalle casse dello stereo nell’angolo. Prima di andarmene da quel supermercato l’avevo abbracciata, sussurrandole all’orecchio la parole che probabilmente le avevo detto più spesso «grazie». Dovevo ringraziarla per aver passato con me il periodo più brutto della mia, e per avermi fatto uscire da esso amandomi come nessuno aveva mai fatto. A guardarla bene, a guardare quell’Evie che non assomigliava alla mia Evie, mi dissi che l’amavo ancora, l’avevo sempre amata (anche quando mi aveva puntato la pistola alla tempia, quando eravamo fatti, stra-fatti, in quel periodo buio che aveva seguito un altro periodo buio, e mi aveva supplicato di andarmene, per poi cercarmi due giorni dopo,  chiedendomi di scomparire con lei dentro un letto) e probabilmente l’avrei sempre amata. Anche in quel momento mi ripetei che era riuscita a salvarmi, era riuscita a salvarsi, era riuscita a salvarci entrambi.

Ora, che di anni ne avevo trentacinque, non mi drogavo più e amavo un’altra donna che mi stava aspettando a casa, avrei tanto voluto vedere Evie. Magari davanti una tazza di caffè, per chiederle come le stava andando il lavoro e magari regalarle un libro, magari ripensare a quella volta in cui ci eravamo lasciati perché finalmente eravamo cresciuti, e anche se non stavamo ancora bene, sapevamo che saremmo andati avanti, che ce l’avremmo fatta. Avrei tanto voluto vedere Evie.

E la vidi. Vidi i suoi capelli neri, i suoi occhi verdi, le sue labbra carnose dischiuse, ad accennare uno strano sorriso, i suoi zigomi alti. La sigaretta mi scivolò fra le dita, i piedi cominciarono a muoversi da soli. Fissavo la sua foto, e mi dicevo che non era possibile. Mi dicevo che non stavo davvero guardando la sua epigrafe, che non stavo davvero leggendo che era morta. Un signore, fermatosi affianco a me, un vassoio in mano, mi chiese se la conoscevo. Annuii, incapace di parlare. Disse che era morta in un incidente d’auto, che non era stata colpa sua ma del conducente che viaggiava nella direzione opposta, ubriaco fradicio. Disse che ogni mattina entrava nel suo bar, con il sorriso, incespicando sui suoi passi perché, come diceva sempre lei, odiava quelle maledette scarpe con i tacchi.

E la vidi, vidi di nuovo l’Evie fragile, quella che si sognava le urla di sua madre durante la notte e poi mi stringeva forte, impaurita. Vidi i lividi sul suo corpo quando, in quel giorno che si era presentata davanti casa, mi disse che quella volta non era stata colpa sua. Vidi il sorriso sul suo volto, nei giorni del suo, di compleanno, quando scartava i pacchetti e sapeva di già che le avrei regalato dei libri. Vidi l’Evie diplomata con il massimo dei voti, che mi diceva che ora si sarebbe meritata un premio. Vidi le sue lacrime, le sue calze bucate, i capelli rossi, i capelli neri, la sua mano fra la mia, le sue spalle, le costole che le bucavano la pelle, lei dentro una vasca, l’acqua gelata che la faceva tremare, una pistola puntata male, una pasticca sulla lingua, lei che si guardava la pancia allo specchio perché c’era una vita che le nasceva dentro, le sue lacrime quando aveva scoperto che quel bambino non c’era più. Vidi Evie, la ragazza che avevo amato, la donna che avrei amato per sempre.

Mi scese una lacrima, e allungata una mano, accarezzai la sua foto con le dita, lentamente, con leggerezza, come se fosse ancora fragile, come se fosse ancora quella che avevo conosciuto su quella terrazza. Ma sapevo benissimo che era diventata una donna forte. E sorrisi. Sorrisi perché era proprio vero che la vita era una puttana.

Lasciai suonare a vuoto il telefono, mentre camminavo verso casa. Presi le chiavi dal mazzo, e aprii la porta. C’era ancora il suo profumo impregnato nelle pareti, nella stoffa del divano in cui mangiavamo i cereali, nell’aria di quel posto che non ero mai riuscito ad abbandonare, quel posto che avevo acquistato quando ci eravamo lasciati. Ci eravamo lasciati perché ci eravamo salvati. Eppure ci amavamo ancora. Lo avevo visto negli occhi dell’Evie del supermercato, che mi amava ancora. E allora lo feci: mi avvicinai al mobiletto dell’entrata, estrassi la pistola e me la puntai alla tempia. Ci eravamo sempre salvati a vicenda, io e lei. Sparai.

 

 

 

 

 

 

Tempo di ringraziamenti.

Ringrazio Alice (Noneoftheabove_) che, da quel che ho capito, ha amato questa storia davvero tanto: graziegraziegrazie, è bello scrivere se persone come te sono disposte a leggere.
Ringrazio Michela e Stefano, che mi sostengono sempre quando me ne esco fuori con “ho iniziato una nuova storia”. Sono sicura alzino gli occhi al cielo ogni volta, ma va bene così.
Ringrazio tutte le persone che hanno letto, recensito, quelle che hanno messo la storia tra le seguite o le preferite: siete delle personcine meravigliose e finirete in paradiso.
Infine ringrazio Evie e Seth, che mi hanno fatto piangere come una cretina nella stesura di questo ultimo capitolo. Non prendetemi per pazza, lo so che li ho fatti morire io, ma io me li ero sempre immaginati così, un po’ alla Romeo e Giulietta, “a pair of star-cross’d lovers”, diceva Shakespeare. Io me lo ero sempre immaginati così: destinati a farsi del male, a salvarsi a vicenda, a morire per il loro amore. E adesso di preciso non so quanti di voi mi odino per questo finale a sorpresa, ma era così che doveva andare. Quindi li ringrazio, i protagonisti della mia storia, perché sono stati due miei amici, che ho visto crescere in mezzo a tanto dolore. Proprio per questo motivo sono sicura che prima o poi scriverò di nuovo di loro, magari narrando qualche fatto non scritto in questi capitoli, o non lo so, approfondendone qualche altro, quindi non dimenticatevi di loro.
Ora me ne vado, voi come sempre fatemi sapere che cosa ne pensate. *Deborah fa ciao ciao con la manina*

  
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