Capitolo
Primo
Dal
giornale di bordo della Beatriz Trueba, Diciannove di ottobre dell’Anno di
Grazia 1774.
Trentaseiesimo giorno di navigazione, vento regolare alle vele, niente da annotare. Imbarcati a Bissau centocinquanta negri, di cui novantotto maschi e cinquantadue femmine, in età compresa tra i dodici e i ventisei anni. Nel corso del viaggio, sono andati perduti trentadue capi. I restanti appaiono, a Dio piacendo, vitali e in buona salute.
Il Comandante
Santiago Belisario.
Erano vent’anni e passa che il comandante
Belisario guardava il mare e si domandava come fosse possibile che l’armatore
avesse battezzato col nome di sua figlia quella puzzolente nave negriera. Lui
l’aveva vista sì e no un paio di volte, Beatriz Trueba, quella vera, una
massaia col sedere largo e una verruca proprio sotto il naso, ma ricca
abbastanza da essersi potuta permettere, all’età giusta, il marito che tutte le ragazze sognano. C’era da
guadagnarci, con quei traffici, se si aveva lo stomaco abbastanza forte da
riuscire a sopportare la puzza e tutto il resto, e lui aveva guadagnato quel
tanto che bastava per garantire alla sua famiglia un futuro senza problemi.
Qualche anno ancora e avrebbe smesso, pensava guardando l’acqua scura dell’oceano
dall’alto del cassero di poppa: brulicava di pescicani. I pescicani
seguono la scia delle navi negriere
perché gli piace la carne viva e qualcosa da mettere sotto i denti ci scappa
sempre. Pensò. Ogni viaggio, venti, venticinque suicidi, quando andava bene. Ma
Dio non ha pietà di chi s’ammazza con le sue stesse mani.
Il cielo era sereno, il mare calmo. Una
settimana ancora e avrebbero toccato terra, il bestiame umano che avevano
trasportato dall’Africa sarebbe stato venduto, l’equipaggio si sarebbe fiondato
in massa nei bordelli dell’Avana, le stive della Beatriz Trueba
sarebbero state ripulite, riempite di zucchero, indaco e tabacco, e via, verso
la Spagna. Quaranta giorni e passa di mare, poi Caridad e i ragazzi lo
avrebbero abbracciato piangendo, l’equipaggio si sarebbe fiondato in massa nei
bordelli di Cadice, le stive della Beatriz Trueba sarebbero state svuotate,
ripulite, riempite di perline, specchietti e stoffaccia... Erano passati
vent’anni, dal primo viaggio, e non era cambiato quasi niente.
I marinai avevano spinto dalla stiva sopra il ponte un primo gruppo di schiavi, per prendere aria e sgranchirsi le gambe il minimo consentito dalle catene: una decina di donne e un paio di ragazzini dagli occhi liquidi e le gambe scheletrite. Era importante che non avessero un aspetto emaciato e malaticcio, quando avrebbero toccato terra: nessuno compra mercanzia avariata. Qualcosa l’avevano perduta, come al solito. Dissenteria, scorbuto. E suicidi. Ma era da mettere in preventivo e, altre volte, era andata molto peggio.
Le donne camminavano a testa bassa,
infagottate nei loro sacchi, le catene che tintinnavano misurando i passi.
Tutte molto giovani. Qualcuna gravida. Un paio di grugni da scimmia, ma la
maggior parte belle. Gli avevano raccomandato, come al solito, di lasciarle in
Africa, quelle con le tette pendule, le guance segnate dalle cicatrici rituali
e i genitali tagliati e cuciti per non sentire piacere*. Prima erano merce di
scarto, le femmine, ma dacché i latifondisti s’erano messi ad allevare negri,
meglio un “criollo” nato e cresciuto a Cuba
piuttosto che un selvaggio importato dall’Africa a cui bisognava
insegnare tutto, stavano diventando ricercate. Perfino dalle madame dei
bordelli, visto che ormai i clienti preferivano le negre alle bianche. Dio ci
salvi dal vizio della lussuria, pensò il comandante, scrollando in mare la
cenere della sua pipa, prima di voltarsi per un’ennesima occhiata distratta
alle donne che, sorvegliate da alcuni marinai, passeggiavano in tondo come bestie
nella gabbia.
No, non tutte. La solita, difficile
immaginarlo, non faceva mai quello che facevano tutte le altre. Altera ed
indolente, se ne stava con le spalle appoggiate alla battagliola e guardava le
compagne come se lei non avesse nulla a che vedere con quel branco di
disgraziate e conoscesse il destino che l’attendeva a Cuba: non i campi di
canna, ma il letto di un principe di sangue reale. Povera illusa. Non doveva
avere più di quattordici, quindici anni; evidentemente non erano solo le ragazze
bianche, a fare grandi sogni campati in aria. Una bella figliola, alta e
slanciata come un albero di pioppo, coi capelli divisi in treccine che le
ruscellavano giù per le spalle e caviglie sottili come i garretti di una cerva
imprigionati da catene incrostate di sangue vecchio. Un pezzo di pregio, gli
avevano detto a Bissau, una fullah della Mauritania con abbondanti
infusioni di sangue arabo e tuareg , e che era finita nelle mani giuste prima
che qualche megera della sua tribù le facesse quello che i fullah fanno
a tutte quante le adolescenti quand’hanno l’età giusta per prendere marito. Il
fatto che fosse tutta intera, unitamente alla sua strepitosa bellezza, all’asta
avrebbe fatto spuntare un prezzo da capogiro, Belisario ne era più che sicuro.
Aveva occhi neri come la notte, un ovale perfetto e lineamenti di una bellezza
squisita: il lotto più pregiato del carico, al mercato dell’Avana si sarebbero
svenati per contendersela, non era necessario essere degli intenditori per
rendersene conto. E non era necessario essere dei chiaroveggenti per immaginare
che, con tutta probabilità, un simile splendore non sarebbe finito a tagliare la canna o a rimestare verdure
dentro un pentolone. Che come quella gliene fossero capitate poche, era verità
sacrosanta. Aveva un segno, proprio in mezzo alla fronte, un segno bluastro che
lui, lì per lì, aveva preso per un neo o per un piccolo livido. Invece si
trattava d’un tatuaggio. Molte donne delle tribù tuareg e fullah avevano
tatuaggi sulla fronte, sul mento, sul dorso del naso e sulle rime delle
palpebre. Segni magici, gli avevano detto. Anche quello, con tutta probabilità:
sole e luna. L’Eclissi. Ed Eclipse la chiamavano i marinai della nave, anche se
il suo nome era Ayesha.
Accoccolata sul ponte, guardava in alto,
riparandosi gli occhi con la mano sottile. Le catene che le stringevano i polsi
brillavano al sole come oro vecchio. Aveva zigomi alti, naso delicato, una
grande bocca schiusa sui grossi denti bianchi e sani. I canini erano
particolarmente pronunciati, quasi animaleschi: c’era qualcosa che attraeva e
inquietava, una malia quasi demoniaca, nella bellezza perfetta di quella
giovane donna. Belisario distolse lo sguardo.
- Dentro!
E le donne furono spinte nelle stive da
marinai armati con fruste di pelle d’ippopotamo. Eclipse s’era alzata con
quella sua solita grazia indolente saettando il suo sguardo d’antracite
sull’uomo che la spingeva verso la botola cercando di toccarla. Manolo, l’aiuto
calafato, maledetto porco, uno che, in mancanza di meglio, sarebbe stato
disposto perfino a saltare addosso alla femmina di un cavallo. Il comandante
aveva promesso di scorticare la schiena a nerbate a chi si fosse permesso di
toccare le donne ma fortunatamente non aveva cento occhi né il dono d’essere
contemporaneamente in due posti diversi. Eppoi era bella, quell’Eclipse dal
lungo collo e dalla faccia orgogliosa, più alta di lui e nera quanto l’inferno.
Perché non approfittarne? Certamente non avrebbe neppure reagito, impedita nei
movimenti dalle catene, istupidita dalla detenzione nella stiva,
dall’immobilità forzata, dal dolore dell’anima che ne uccideva tanti. Cercò di
toccarla attraverso il sacco che la copriva. Se la sarebbe sbattuta alla prima
occasione, per una così valeva la pena di rischiare cinquanta nerbate. Aveva
grandi occhi orlati di nero, e certe ciglia che, quando le abbassava,
proiettano l’ombra di due mezzelune, sugli zigomi rilevati. La voce era rauca e bassa, più vecchia dei suoi
pochi anni. Borbottò una parola strana in una lingua sconosciuta e aggrottò le
sopracciglia ben disegnate, prima di scoprire i denti. Erano acuti, come quelli
delle pantere che si potevano ammirare nei serragli ambulanti, e se quella
dannata negra si fosse trasformata in una belva proprio sotto i suoi occhi,
Manolo non avrebbe provato alcuna meraviglia.
- Puttana...
Le bestiacce rabbiose mordono. Le dannate cagne negre anche, pensava il marinaio, stringendosi con la mano la spalla, nel punto in cui i denti della donna erano penetrati. Faceva male. Ed era pericoloso, è facile che i morsi s’infettino. C’era un medico a bordo, un buono a niente spesso ubriaco. E se Belisario avesse saputo com’erano andate le cose, lo avrebbe fatto battere: nessuno dell’equipaggio poteva permettersi di guastare la mercanzia. Meglio cucirsi la bocca.
* Si allude alle terribili pratiche
dell’infibulazione e dell’escissione, ancor oggi molto diffuse nell’Africa sub
sahariana (N.d.A.).
Capitolo secondo
- Febbre
contagiosa?
-No, comandante.
-Sia ringraziato il Cielo.
Già, faceva bene a tenerselo buono buono, il Cielo, perché se un
marinaio sopra una nave s’ammala di febbre contagiosa e appesta tutti quanti i
suoi compagni possono essere guai seri, può essere una tragedia. Manolo non aveva addosso niente di
contagioso, anche se da due giorni scottava come il fuoco e delirava come un
pazzo.
-Mi...ha...morso...
-E chi ti avrebbe morso?-gli aveva domandato il dottor Gutierrez
mentre gli strappava di dosso la
casacca sbrindellata. Se il Cielo avesse potuto renderlo per un attimo soltanto
sordo agli urli di quel poveraccio gli avrebbe serbato eterna riconoscenza.
-Una delle...
-Una delle negre, dì?
-...Sss...ssì...
Quella
febbre gli risparmiava le frustate, per il momento, pensava il comandante
Belisario, le braccia conserte, le gambe divaricate, il volto duro. Ma non
appena fosse guarito... Ai marinai era stato proibito di toccare la mercanzia e
chi disubbidiva andava punito. Ammesso che guarisse. L’impronta dei denti era
nitida, sopra il muscolo della spalla, e circondata da un alone nero che sembrava crescere di
minuto in minuto. Gran brutto segno.
-Quale
delle negre, Manolo?
-Quella...col...
Aveva
urlato da spaccarsi i polmoni, quando la ferita gli era stata irrorata con
l’alcol e poi cauterizzata. Quindi era caduto in un letargo semincosciente,
senza tuttavia smettere di mugolare il suo dolore, come un animale pazzo.
Eclipse, il lotto più pregiato del carico. Lo avrebbe punito, quando la febbre
se ne fosse andata, pensava il comandante Belisario.
-Guarirà?
Il dottor
Gutierrez l’aveva fissato coi suoi occhi sporgenti e arrossati da rospo, aveva
scosso la testa.
-Ne
dubito. I morsi possono essere molto pericolosi.
-Quell’Eclipse...Non sarà affetta dal mal di rabbia, dottore?
-No. Starebbe
molto male anche lei, se così fosse. Lui ha cercato di toccarla. E lei s’è
difesa, suppongo.
Già.
Manolo era uno che ci tentava con tutte quante. Fosse riuscito a mettersela
sotto, le avrebbe attaccato lo scolo, magari pure il mal francese e tutte
quante le pestilenze che s’era preso dalle puttane. Ma, nelle condizioni in cui
si trovava, difficilmente avrebbe potuto appestare un’altra donna.
-E
lei...La punirete, comandante?
Belisario lo guardò, scosse la testa e si allontanò. Sarebbe salito sopraccoperta, a respirare una boccata d’aria pura. Manolo. Stava morendo. E quanto puzzava, per tutti i diavoli, era come se andasse putrefacendosi ancora vivo.
Capitolo terzo.
Dal giornale di bordo della Beatriz Trueba,
Ventiquattro di Ottobre dell’Anno di Grazia 1774
Dopo quattro giorni di agonia,sei ore passata la mezzanotte, l’aiuto calafato Manolo Diaz è morto. Il Signore abbia misericordia dell’anima sua. Le cause del decesso sono da imputarsi a malattia fulminante ma non contagiosa.
Il Comandante Santiago Belisario
Non
c’erano preti, sopra la Beatriz Trueba, e dovette leggerlo lui, il
comandante, l’ufficio funebre per il povero Manolo Diaz. Recitò il De
Profundis mandato a memoria ai tempi della Prima Comunione, tracciò un
segno di croce sopra il sacco dentro il quale era cucito il cadavere di un uomo
di trentadue anni che aveva pagato cara
la sua voglia d’ammazzare la solitudine nel calore d’ un corpo di donna. Non lo
avesse mandato all’altro mondo quel morso, ci avrebbe pensato la sifilide,
Belisario ne era più che certo: non può esserci misericordia per i peccati
della carne, i peggiori, quelli che abbassano l’uomo a livello degli animali,
che lo schiacciano nel fango.
Le negre
camminavano lentamente sul ponte, i
passi misurati dalle catene. Erano belle, benché patite, belle nella loro
grazia selvaggia, negli sguardi inquieti che neppure i tremendi disagi della
traversata, neppure la fame, il sudiciume e il terrore dell’ignoto che le
aspettava dall’altra parte del mare per inghiottire le loro vite erano riusciti
a guastare. Ed Eclipse era la più bella di tutte quante, con quell’aria altera
da regina spodestata e la mano sottile a riparare gli occhi dall’offesa del
sole di mezzogiorno. Avrebbe meritato, per quel che aveva fatto, d’essere legata stretta al cadavere dell’uomo che
aveva ucciso, cucita con lui nel sacco e gettata in mare. Ma era il lotto più
pregiato del carico, una fullah mauritana col sangue dei guerrieri
tuareg e dei beduini del deserto dentro le vene, bella come le antiche regine
d’Egitto, e valeva denaro sonante. In fondo, Manolo Diaz se l’era cercata.
L’aria
era impregnata di voci concitate, odore di salsedine e tanfo di cadavere. Le
negre biascicavano quelle loro melopee dissonanti, monocordi e rauche in tutti
i dialetti del Golfo: hausa, yoruba, eboe, mandinka*. Allo schioccare
delle fruste tacquero, rincantucciandosi come cani in un angolo del ponte, le
spalle alla battagliola, gli occhi bianchi sbarrati nelle facce magre. Solo
Eclipse continuava a cantare impassibile il suo lamento. Aveva una voce rauca,
gutturale, una voce che sembrava molto più vecchia dei suoi anni. Una voce che,
a momenti, andava giù densa e dolce come miele, a momenti si fermava in gola come una manciata di sale. I
lineamenti del suo viso erano delicati come quelli di una bambola, e gli occhi
cattivi: occhi puntuti di capra selvatica, occhi taglienti come lame di
coltello. Grazie a Dio, Cuba era ormai alle viste, si diceva il comandante da sé solo.
-Fatela tacere,
maledizione!
La frusta
del guardiano la colpì sulle caviglie, riuscendo a strapparle un lamento di
dolore. Intanto, i resti di quello che era stato Manolo Diaz finivano in mare
con un tonfo sordo.
-Requiescat
in pace...Pacem tuam dona ei, Domine Jesu Christe...
Pace,
pace. Quale pace poteva esserci nell’aldilà per un peccatore morto impenitente?
I marinai, quasi tutti, vivevano come se non dovessero mai morire, come se la
loro vita fatta di viaggi interminabili, gallette stantie, alloggiamenti
angusti e solitudine da ammazzare nei bordelli fosse eterna. Ma la morte non
smetteva mai di pedinarli, perseverante come le torme di squali che seguivano
la scia delle navi, lungo le rotte oceaniche. Le pance dei pescicani erano la
tomba degli uomini del mare.
Affacciato dal cassero di poppa, il comandante Belisario guardò l’acqua
rinchiudersi per sempre sui poveri resti di Manolo Diaz, aiuto calafato e
peccatore impenitente, i pescicani sfiorare il sacco coi loro musi appuntiti,
per poi ritrarsi senza toccarlo, disgustati dal fetore di quella carne morta e
fuggire, rapidi e guizzanti come fiamme, in cerca di prede migliori. Avrebbe
avuto il mare come tomba, piccoli pesci avrebbero nuotato dentro la gabbia
scarnita delle sue costole, ciuffi di attinie colorate sarebbero spuntati dalle cavità delle sue orbite. Era orfano e
non aveva moglie, nessuno lo avrebbe pianto.
*Tribù della regione guineana, quella più battuta
dai trafficanti bianchi di schiavi destinati ai mercati delle Americhe (N.d.A.)
Capitolo quarto
Bella era
bella, e don Gregorio era uno che di donne se ne intendeva.Costava parecchio,
ma spendere denaro per portarsi a casa qualcosa che desiderava non è di certo
un problema, per un uomo ricco, e lui lo era. L’avrebbe spuntata anche all’asta
pubblica, ma il mercante non poteva fare al suo miglior cliente un torto del
genere. La transazione era avvenuta in privato e don Gregorio, sborsata la
somma pattuita, si era portato a casa l’oggetto dei suoi desideri,
un’adolescente nera come la notte e bella da spezzare il cuore, con una piccola
luna tatuata sulla fronte e strani occhi color della pece, in fondo ai quali
balenavano riflessi dorati come scaglie di pesci di fiume.
Era
fatto così, lui, gli era impossibile resistere al fascino di una bella donna,
anche se padre Antonio, il suo confessore, gli diceva che era peccato. E’
difficile, per un uomo vero, soffocare il richiamo del sangue che bolle. E poi una negra è una negra, come una puttana
è una puttana: non si pecca d’adulterio, con femmine simili, o, se peccato si
commette, non è di quelli che mandano all’inferno, un peccatuccio veniale,
tutt’al più, come quello di un bambino davanti a un vassoio di dolci. No, la
sua anima e la sua volontà non erano in pericolo, era uomo, ma era anche
perfettamente in grado di controllarsi, aveva quarant’anni passati ed era
perfettamente padrone di sé, non un ragazzino inesperto.
Dimentico dei suoi pensieri, la guardò camminare al suo fianco, il sole che le batteva sugli occhi neri,
dorati e lontani. C’era qualcosa di strano, inquietante , in quella bella
adolescente dagli zigomi alti e dalle labbra piene: l’ammiccare degli occhi, il
balenio dei denti bianchi e forti, dai canini pronunciati. O la luna tatuata in
mezzo alla fronte. Da ragazzo, ricordò, aveva posseduto un ciondolo d’argento
con quel segno inciso sopra. Erano i
tempi di Filippo d’Asburgo quando un suo antenato, capo dei famigli
dell’Inquisizione a Siviglia, l’aveva raccattato in mezzo alle braci ancora calde del rogo che aveva appena
finito d’incenerire la carcassa di una
vecchia strega. Lui l’aveva portato al collo, ben nascosto sotto la camicia,
combattuto, come tutti gli spagnoli, tra la superstizione secondo cui gli oggetti
raccattati da un rogo avrebbero il potere di tenere lontana la malasorte, e la
fede religiosa, che gli imponeva di liberarsene. E non se n’era liberato in
ossequio alla Chiesa, bensì per farne pegno alla sua amante, Chantal la francese, quando il vecchio don Vicente le
aveva elargito parecchio denaro perché sparisse, portandosi dietro il bastardo
di suo figlio che teneva ancora dietro la pancia, ed era sparita, se n’era
andata a Nuova Orleans e li aveva sposato un vecchio citrullo ricco quanto un
nababbo, che aveva dato il suo nome al bambino e a lei la vita che aveva sempre
sognato. Inutile maledirla e maledirsi, era destino.
Chissà
com’era, suo figlio. Un adolescente d’una quindicina d’anni, la stessa età
della schiava che aveva appena comprato. L’unica cosa che era riuscito a sapere
per vie traverse era che Chantal gli aveva dato un figlio maschio e gli aveva
messo nome Grigoire, come lui. Isabel invece, la donna che suo padre gli aveva
imposto, unica erede della piantagione confinante, bianca e grassa come una
gallina e stupida come la luna, non riusciva a dargli figli: in tutti gli anni
del loro matrimonio, aveva abortito cinque o sei volte. Se non gli avesse dato
un figlio, e non le rimaneva più molto tempo, i De Almeida sarebbero scomparsi
dalla faccia della terra e i loro beni
se li sarebbero accaparrati quegli antipatici cugini Reyes coi quali, tra
l’altro, non era mai corso buon sangue.
-Hermosita...
Hermosita.
Mia bellissima. Aveva un viso da bambola, un ovale perfetto incorniciato da
un’acconciatura di treccine che le arrivavano alle spalle. Le carezzò le
guance, guardò dentro i suoi occhi e li vide accendersi; percepì il lungo
brivido che le era passato sotto la pelle. C’era rancore, dentro il suo
sguardo, e sgomento impotente, anche se il tocco dell’uomo bianco e ben vestito era gentile, molto diverso da
quello brutale del puzzolente marinaio sopra la nave.
-Con me
sarai felice, Hermosita.
Che
significato, che valore potevano avere
quelle parole dette in una lingua che non capiva? Eppure suonavano dolci e
gentili alle sue orecchie, abituate da troppo tempo allo sciabordio
dell’oceano, ai lamenti dei prigionieri e alle urla dei marinai, come motteggi
senza senso per calmare un cucciolo inquieto appena sottratto alla madre. Ma lo
sguardo dell’uomo era falso e il suo odore ostile e sgradevole come quello del
cacciatore per la preda.
-Ti darò
gioia.
Le aveva afferrato il mento tra le dita, costringendola ad alzare gli occhi, ma senza brutalità. Ne aveva esaminato attentamente la bellezza dei lineamenti, per concludere che era perfetta. Il mercante l’aveva rassicurato circa il fatto che non fosse stata sottoposta alla mutilazione dei genitali, come capitava alla quasi totalità delle sue congeneri.
Capitolo quinto
-Ti capisco, ragazza, credimi.Quello che ti
sta capitando...
...l’ho provato anch’io, tanti anni fa.
Consolante, pensava Eclipse. Ma le parole non possono asciugare le lacrime.
Si
chiamava Mama Conchita, le aveva detto, e parlava la sua lingua alla
perfezione. La si sarebbe detta vecchia come il mondo, con quei capelli bianchi
e radi, vaporosi come fiocchi di bambagia, quella pelle livida incisa da rughe
profonde come crepe, quelle dita contorte che, strano a dirsi, non tremavano
accarezzandole le guance vellutate, asciugandole via le lacrime dagli occhi.
-Succede così a tutti. Si piange, ci si
dispera. Poi ci si rassegna.
Alla solitudine, alla miseria, alla paura?
All’idea di non essere più padroni di se stessi e del proprio destino?
-Piangi, piangi, ti passerà. Le donne
belle come te non piangono mai a lungo.
La
strinse, cullandola tra le sue braccia scarnite. I suoi stracci puzzavano degli
umori stantii della vecchiaia, ma quell’abbraccio ammazzava la solitudine,
attenuava il dolore.
-Com’è che conosci la mia lingua, Mama
Conchita?
La
vecchia sorrise, e lo sguardo annegò nel mare delle rughe profonde come
crepe.Non parlò, ma era come se parlasse:è semplice, ragazza mia. Sono come te,
una fullah della Mauritania. Da giovane ero bella, anche se il tempo se
la mangia, la bellezza, come una crosta di pane vecchio, e quello che rimane
sono rughe, e capelli bianchi, e denti che dondolano, e gambe che non ti
reggono. Il tempo ti farà come me, se il destino ti concederà di vivere quanto
sono vissuta io. Sai,ne ho conosciuta tanta, di gente: eboe, mandinka,
hausa,angola, koromantee, peuls, ashanti della Costa d’ Oro, fullah mauritani
dalle narici strette e dagli occhi dorati che sembra guardino aldilà di ciò che
vedono, proprio come te. E ciascuno di loro aveva una storia da raccontare.
-Sono
sempre stata svelta ad imparare, ragazza. E presto imparerai tante cose anche
tu. A parlare come loro. A dimenticare quello che eri. A rassegnarti a quello
che sei. E allora non soffrirai più.
Non
avrebbe sofferto più, esattamente come i bianchi: il demonio non sa cosa sia il
dolore. O forse no? Gli occhi del padrone non erano limpidi, ma come offuscati,
perfino quando la guardava e le sorrideva.
-Soffrono, ragazza mia.Più di noi, perché non hanno fatto l’abitudine al dolore, non hanno mai imparato a rassegnarsi e a sopportare. Credono di poter ottenere tutto quanto comprandolo, ma ci sono cose che neppure l’oro può comprare.La dignità. O l’amore. O la salute. O un figlio. Don Gregorio ha una moglie che non ha saputo dargli niente, né l’amore, né il piacere né un figlio. E soffre perché il suo sangue morirà con lui e il figlio che ha avuto da un’altra donna non sa di essere suo, quindi è come se non lo fosse. Le voleva bene, alla francese, don Gregorio. Ma il vecchio don Vicente diceva che era una poco di buono e l’ha mandata via, con un pugno d’oro e il figlio che si teneva dentro la pancia...Doña Isabel è sterile, capisci? Nemmeno la felicità si può comprare. E nessuno può sfuggire al suo destino.
Aveva
pronunciato le sue ultime parole con un soffio di voce, guardandola fisso: un
occhio era nero e febbricitante come quello d’un cane rabbioso, l’altro bianco
e cieco. Non era facile sostenere quello sguardo.
Eclipse
aveva alzato le spalle, scosso la testa. Le avevano insegnato che chi è vecchio
conosce della vita cose che un giovane non sa, ma quella Mama Conchita che ne
sapeva del suo orgoglio? Come tutti i fullah, era stata cresciuta nella
fede islamica: avrebbe accettato di mangiare carne di porco, di lavorare come
una bestia dalla mattina alla sera, di chinare la testa e ubbidire, qualsiasi
cosa le avessero chiesto, e non era difficile indovinare cosa si chiede di
solito a una schiava giovane e bella? Avrebbe accettato di lasciarsi
ingravidare dagli uomini che il padrone le sceglieva, di lasciarsi strappare i
figli dalle braccia e di rassegnarsi a non vederli mai più? Per quanto ne
sapeva, non è vero che il tempo cancella tutto il dolore, guarisce tutte le
ferite.
-Sarai
uno strumento del destino.-le diceva la vecchia, carezzandole sulla fronte il
segno della luna.
-Non sono
nemmeno una donna, Mama Conchita.
-Sei una
donna. Risparmiandoti il coltello, non ti hanno tolto niente, anzi.Agli uomini
bianchi non piacciono le donne tagliate. E il destino ti ha messa sulla strada
di don Gregorio De Almeida.
L’occhio
scuro e febbricitante scintillava come l’acqua di un pozzo illuminata dalla
luna. Che cosa c’entrava, lei, con don Gregorio, si domandava Eclipse. A meno
che la vecchia non cercasse vendetta: tutti sanno che i fullah sono
capaci di dedicare l’intera vita a vendicare col sangue le ingiustizie subite.
Mama Conchita doveva essere pazza, e le faceva paura. Ma non si oppose,quando
le strinse la mano tra gli artigli contorti dai reumi e dall’artrite. E nemmeno
quando, con l’unghia spessa e sudicia del pollice, le penetrò in profondità
nella carne, tra il polso e il palmo, facendole stringere i denti dal dolore.
-Sarai
uno strumento del destino.
Aveva una
voce forte e chiara, per i suoi anni, e conservava ancora tutti quanti i denti.
Ma non avrebbe camminato ancora a lungo sopra la terra. Se non basta una vita,
saranno i figli a vendicare il padre e
la madre, se non bastano due vite, i figli dei figli. Acquattata dietro i
cespugli, la pantera avrebbe aspettato la sua vittima all’abbeverata, con la
pazienza di chi sa di avere il tempo dalla sua,con l’ineluttabilità che è degli
strumenti del destino.Avrebbe ucciso e sbranato in silenzio. Si sarebbe saziata
di sangue, quando la luna piena si fosse nascosta dentro il buio e il silenzio della notte.
Eclipse
si succhiò il polso ferito, alzò il suo sguardo nero e dorato ad incrociare
quello di Mama Conchita. Un filo del suo stesso sangue le colava sul mento e
altro sangue le macchiava la bella bocca e i denti bianchi.
Capitolo
sesto
Sulla Grande Canoa li aveva visti, i marinai, guardare gli uomini neri che danzavano sul ponte della nave mostrando loro i denti bianchi e affilati, li aveva visti schernirli e battere le mani perché erano convinti che ridessero. Aveva imparato che ai bianchi dà piacere infliggere sofferenza. E aveva imparato a non avere più paura di nulla, perché di vivere o morire non gliene importava più niente, tanto non faceva differenza. I vecchi le avevano detto dell’inferno, e forse era quello, l’oscurità puzzolente della stiva, le catene mangiate dalla ruggine, i topi, le piaghe suppurate, le pulci che mordevano dappertutto, i bruciori alle spalle, ai gomiti, ai fianchi, provocati dall’attrito contro le assi quando la Grande Canoa rollava e beccheggiava, sbattuta come un guscio d’uovo dalle onde dell’oceano. Sulla Grande Canoa aveva visto l’inferno e dall’inferno non si viene fuori. Si era domandata quali peccati Allah le chiedesse di scontare, ma le sue domande non avevano trovato risposta.
-Sei
bella.-le aveva detto Mama Conchita, e non era passato molto tempo da allora-Le
donne belle non piangono mai a lungo.
La mia
vita era fatta di certezze, Mama Conchita, e adesso non so più neppure chi
sono. Hanno cambiato il mio nome, vogliono che dimentichi quello che ero. Forse
sono uscita fuori dall’inferno per finire in un inferno peggiore. Anche altra
gente mi ha detto che sono bella: ma non vedo perché non dovrei piangere.
Erano
passati parecchi mesi, da allora. E Mama Conchita aveva avuto ragione,non
c’erano motivi per piangere. “Sarai uno strumento del destino”. Chissà che cosa
aveva voluto dirle. Che sarebbe diventata la madre del figlio del padrone?
Si
carezzò il ventre grosso e teso sotto i vestiti: un ciclo completo della luna e
avrebbe partorito il figlio di don Gregorio. Il primo, così come il padrone era
stato il suo primo uomo.
La
chiamava ancora hermosita. Bella. Adesso lo capiva. I bianchi sono
diavoli. Godono infliggendo sofferenze, ma don Gregorio non aveva riso delle
sue lacrime, e l’aveva consolata. E’ il
tributo che si paga la prima volta, dopo c’è solo felicità. Per lei c’era stata
indifferenza, anche se, prima che la vecchia megera del villaggio potesse
mutilarle le carni con il suo coltello, i bianchi l’avevano presa e portata
via. Di don Gregorio avrebbe ricordato, negli anni a venire, i capelli lisci,
folti e morbidi, qua e là spruzzati di bianco, doveva avere almeno
quarant’anni, e il corpo tarchiato e peloso, diverso dai corpi snelli e levigati
dei negri.
La
prendeva senza una parola, come se volesse sfogare dentro di lei i suoi assilli
e la sua noia. Non era mai stato particolarmente tenero, dopo la prima volta,
ma almeno l’aveva tolta dalle sudice senzalas*, per sistemarla in una casetta
isolata nel bel mezzo della proprietà, non la mandava a spaccarsi la schiena
nei campi o all’affumicatoio e gli piaceva che portasse abiti eleganti e
orecchini d’oro.
Don
Gregorio aveva una moglie, una signora
bianca e grassa, con certi capelli che
parevano limatura di ferro e la pelle semolosa. Era incinta anche lei, avrebbe
terminato i giorni del parto di lì a un paio di mesi e lui non stava nella
pelle dalla felicità: gli avrebbe dato il sospirato erede, finalmente, dopo
tanti aborti: il bambino bianco che avrebbe avuto tutto, una volta cresciuto.
Che cosa avrebbe avuto il bambino nero, non era dato di saperlo; l’unica
certezza, pensava Eclipse, era che sarebbe stato un po’ più chiaro di lei ma
molto più scuro di suo padre.
L’amore. Non era quello che stavano per darle lei e Isabel. Non doveva aver amato mai, don Gregorio. O aveva provato amore solo per quella francese che il vecchio don Vicente aveva spedito dall’altra parte del mare con una manciata d’oro nelle mani, un figlio senza padre dentro la pancia e un ciondolo d’argento con incisa sopra la luna appeso al collo.
*I quartieri degli schiavi
(N.d.A.)
Capitolo settimo
-Non è ancora tempo.
Mancavano
oltre due mesi, al parto. No, non era tempo. Isabel era sempre stata golosa, mangiava
impressionanti quantitativi di dolciumi appiccicaticci e disgustosi che la
facevano ingrassare come una scrofa e
le rovinavano lo stomaco. Nessuno, nemmeno lei, immaginava che di lì a
poche ore avrebbe rotto le acque e che dolori sempre più insopportabili
l’avrebbero costretta a contorcersi e a urlare come una demente. Mancavano due
mesi, giorno più, giorno meno. Parecchie creature nascono settimine e la
maggior parte di esse non sopravvive,
pensava don Gregorio torcendosi le mani.
Isabel
aveva la faccia verde e tutti i vestiti imbrattati di sangue e di sudore.
Andava per i trentotto anni, ormai, e il suo cuore era debole come lo è, in
genere, quello delle persone obese. Mama Conchita sarebbe arrivata appena
possibile, don Gregorio non aveva perso tempo e aveva mandato gente a cercarla
non appena sua moglie aveva cominciato a lamentarsi, e si era capito perché.
Sarebbe arrivata affannando come un vecchio cane, malferma su quelle gambette
stecchite che si ritrovava e avrebbe messo tutto quanto a posto: era brava nel
suo mestiere, una delle tante vecchie megere africane che non mancavano mai
nelle piantagioni e alle quali il padrone sapeva di potere affidare non solo le
sue schiave, ma anche sua moglie e le sue figlie. Perfino lui era stato tirato fuori
da Mama Conchita. Eppure...Sarebbe bastata la sua scienza, o la sua
stregoneria, con una come Isabel? Il tempo passava e le sue condizioni
peggioravano: sanguinava e urlava come una bestia scannata, il bambino non
usciva, probabile che fosse messo male,capitava alle donne, capitava anche alle cavalle, capita che...Un tarlo
continuava a rodergli il cuore, il tarlo di presentimento funesto che non lo
lasciava un attimo: il bambino sarebbe morto e, quando anche la sua ora fosse
giunta, quegli odiosi Reyes si sarebbero calati sulla proprietà come tanti
avvoltoi, dannati incapaci che in vita loro non erano mai stati in grado di
combinare niente di buono.
Isabel,
pazza di dolore, scuoteva la testa sopra i cuscini, i capelli rossi impastati
di sudore, la mano paffuta che stringeva convulsa una cocca del lenzuolo. Don
Gregorio le asciugò la fonte madida col suo fazzoletto, la guardò con un misto
di compassione e di disgusto. Non l’aveva mai amata, non gli era mai neppure
piaciuta, quello che aveva fatto con lei era sempre stato solo e nient’altro
che un dovere, e adesso sua moglie stava morendo per dargli ciò che ogni marito
si aspetta dalla propria donna, ciò che lui aveva desiderato più d’ogni altra
cosa al mondo. Era nata con quel destino cucito addosso, come tutte quante le
figlie d’Eva, povera infelice, bianca e grassa come una gallina e stupida come
la luna.
Mama
Conchita venne, con le sue gambette malferme e il suo occhio guasto, e gli
chiuse in faccia senza tanti riguardi
la porta della camera matrimoniale. La pendola segnava le sei del pomeriggio,
quando uscì fuori, con un fagotto minuscolo nelle braccia.
-Vostro
figlio, amo.
Aveva il
cranio globoso e glabro, sul quale pulsavano tante piccole vene bluastre, e il
colorito livido.
-Doña
Isabel?
La
vecchia negra scosse la testa senza parlare e don Gregorio abbassò gli occhi:
era andata. Quella brutta creatura che squittiva come un ratto tra le mani
nodose di Mama Conchita aveva ammazzato sua madre.
-Il
bambino...Si salverà,almeno lui?
-E’
venuto fuori prima del tempo, amo*. E’ piccolo e debole. Bisognerà
cercargli una balia. Quell’Eclipse...E’ pulita e sana e ha partorito
stamattina: un maschio bello grosso. Ma non posso promettervi niente, mi
dispiace.
La vecchia dondolava la testa, stringendo tra le braccia il futuro re della Finca Dorada, quella creatura rachitica che non aveva neppure la forza di piangere. Eclipse, pensava don Gregorio, gli aveva partorito senza troppe complicazioni un figlio sano e forte. Capita. Capita anche troppo di frequente. Capita anche ai re: il figlio legittimo, nato da nozze benedette, non vale l’unghia del piede del bastardo. Capita.
-Scoprigli la testa, Mama.Se ha da morire, che muoia almeno in grazia di
Dio.
C’era un
bicchiere pieno a metà, sul comodino della povera Isabel. Il piccolo frignò
debolmente, quando poche gocce d’acqua fredda gli bagnarono il cranio pelato.
-Io ti battezzo....Francisco Javier...In
nome del Padre...E del Figlio...E dello Spirito Santo.
*Padrone
(N.d.A.)
Capitolo ottavo
Era
assurdo anche solo crederlo, e poi la superstizione è peccato, ma l’avrebbe
lasciata fare ugualmente, anche se un’idea del genere, rubare un po’ di fortuna
all’erede legittimo battezzando il bastardo col suo stesso nome, era da
considerarsi abbastanza irrispettosa da
farle meritare un’ esemplare punizione. Come s’era permessa di mettere a
quel bastardo nero lo stesso nome di suo figlio?
“Suona
bene”, s’era giustificata con un misto di candore e di malizia. Impudente. Stupida,
ignorante nera, chi s’era messa in testa di essere? Credeva forse d’essere diventata importante per
avergli partorito quel figlio? Ammesso che fosse suo: alle senzalas le
ronzavano attorno in parecchi e non si poteva essere certi a proposito di chi fosse
il padre, le negre non erano che puttane. Padre Antonio, il suo confessore,
aveva avuto ragione ad ammonirlo e, dacché la povera Isabel era morta, lui non
l’aveva più toccata : non nasce niente di buono, dalla malapianta del peccato.
Ma il
piccolo Don Javier stava bene, adesso, ed era la sola cosa che contasse. Che
Eclipse lo chiamasse come voleva, il suo piccolo bastardo, tanto erano diversi,
nessuno avrebbe potuto confonderli. A due mesi, il figlio di Isabel aveva messo
su qualche rotolino di ciccia e non era più in pericolo di vita. Aveva i
capelli rossicci di sua madre e la faccetta dai tratti ancora indecisi, forse
proprio perché era nato anzitempo. Piuttosto bruttino, a voler essere obiettivi
a tutti i costi, pensava don Gregorio: aveva il naso grosso e una bocca che
quando frignava, e lo faceva spesso, si spalancava mostrando dimensioni
spropositate. Cambierà, i neonati hanno tutti la stessa faccia. Cambierà,
crescendo. Lo prese in braccio, titubante e un po’ timoroso, gli carezzò con
delicatezza la testolina coperta da una rada peluria rossa. Odorava di orina e
di latte, e rassomigliava a una piccola scimmia: come tutti quanti i neonati,
si disse l’uomo per consolarsi, mentre deponeva suo figlio nella culla.
L’altro, che dormiva placidamente con il piccolo pugno infilato dentro la
bocca, era un colosso pesante quanto una grossa pietra, con le guance paffute,
le ciglia lunghe e curve di sua madre e il più delizioso nasino che fosse mai
stato dato di vedere sopra la faccia di un lattante. Aveva ragione Eclipse,
nessuno li avrebbe confusi, erano completamente diversi, e non solo perché uno
era bianco e l’altro nero, pensava don Gregorio ingoiando a fatica la propria
terribile amarezza.
Capitolo nono
Dalla cronaca familiare di don Gregorio De Almeida, Baron de Almerida y Caballero de l’ Orden de la Cruz
Finca La Dorada, Cuba,
Diciassette di Dicembre dell’Anno di Grazia 1777
Don
Francisco Javier De Almeida, che Dio volle darmi come figlio, ad onore della
famiglia e a consolazione della mia vecchiaia, ha pronunciato oggi le sue prime
parole.
Finca La Dorada, Cuba,
tredici di Novembre dell’Anno di Grazia 1781
Don
Francisco Javier De Almeida, che Dio
volle darmi come figlio, ad onore della famiglia e a consolazione della mia vecchiaia,
ha iniziato oggi il suo cammino sulla via del sapere, sotto la guida del
Maestro Padre Helpidio Huesca, esperto nella Retorica e nelle Belle Lettere,
dotto nelle Matematiche, profondo conoscitore della Filosofia e delle Lingue
antiche e moderne...
Finca La
Dorada, Cuba, Quattro di Marzo dell’Anno di Grazia 1784.
Don
Francisco Javier De Almeida, che Dio volle darmi come figlio, a onore della
famiglia e a consolazione della mia vecchiaia, ha iniziato oggi, sotto la guida
del Maestro d’Armi sergente Juan Raboso, le lezioni di tiro a segno, scherma,
equitazione e nuoto...
Il figlio che Dio aveva voluto dargli, a onore della
famiglia e a consolazione della sua vecchiaia, pensava don Gregorio posando
sopra lo scrittoio i vecchi diari che aveva scartabellato col fegato in mano,
avrebbe compiuto quattordici anni di lì a pochi giorni. Le sue proporzioni
erano cambiate e sarebbero continuate a cambiare ancora per un bel po’, ma non
era poi molto diverso dal neonato venuto al mondo di sette mesi, gracile come
un topo e brutto come una scimmietta: aveva ancora il naso grosso, la bocca
larga e capelli radi e piumosi che, sicuramente, a vent’anni avrebbe iniziato a
perdere. Era abbastanza alto, ma magro scannato, con le spalle curve e un
accenno di pancetta prominente che il lavoro di nessun sarto, per quanto abile
potesse essere, sarebbe riuscito a mimetizzare completamente e, come se non
bastasse, da qualche mese gli era spuntata sulla fronte e sul mento una
rigogliosa fioritura di pustole che lui stuzzicava di continuo con le unghie
rosicchiate. Le pustole guariranno, sono un male dell’adolescenza. Crescendo
s’irrobustirà. Le parrucche sono state inventate per mascherare la calvizie. La
bellezza non è poi così importante, per un uomo... Lo sguardo inquieto di don
Gregorio tornò a posarsi sui quaderni di marocchino rosso dove, diligentemente,
egli aveva annotato anni e anni di cronaca familiare: il primo dentino di don
Francisco Javier De Almeida, i primi passi, le prime parole...Peccato che,
quando lui aveva iniziato ad andare gattoni, quell’altro correva già come un
capriolo. E che, quando lui aveva detto “pappa” a due anni fatti, l’altro
parlava speditamente già da diverso tempo.
“E’ un
po’ lento nell’apprendere, ma ha buona volontà. Se potesse studiare in
compagnia d’un coetaneo, probabilmente gli gioverebbe.”
Senz’altro al maestro Huesca doveva essere mancato il coraggio di dirgli
chiaro e tondo che quel figlio tanto atteso era un mezzo scemo e aspettarsi che
fosse come tutti gli altri adolescenti sarebbe stata una pia illusione,cosa
che, del resto, nemmeno lui aveva mai pensato. Ma il buon padre Helpidio, con
la sua lunga esperienza di precettore, a proposito del compagno con cui
studiare poteva anche aver ragione. L’unico coetaneo disponibile nel raggio di
diverse miglia era l’altro Javier, il figlio d’Eclipse. Avevano succhiato lo
stesso latte, giocato assieme, erano andati sempre d’accordo, malgrado fossero
tanto diversi: timido, remissivo, religiosissimo l’uno, robusto, vivace e scavezzacollo
l’altro. Peccato che quel che don Javier impiegava tre mesi a ficcarsi in
testa, Javier il mulatto lo imparava in un quarto d’ora. Beh, i De Almeida,
quasi tutti, erano uomini d’azione piuttosto che di studio, e la cosa poteva
essere consolante se il giovane don Javier se la fosse saputa cavare, con i
cavalli e con le armi, meglio che con i libri. Invece l’erede dei beni e della
casata aveva durato una terribile fatica e collezionato parecchie sberle, prima
di riuscire a vincere la paura che gl’incutevano i cavalli; in compenso, non
era mai riuscito a vincere il terrore dell’acqua, era appena decente con la
pistola, del tutto indecente con la spada e si muoveva con la grazia di una
cicogna zoppa, contrariamente al suo fratellastro nero che, a dodici anni,
cavalcava a pelo i puledri più indocili della scuderia, nuotava come un pesce
ed era diventato talmente bravo con le armi che il sergente Raboso non aveva
più nulla da insegnargli. Bel figlio il destino gli aveva concesso, a onore e
gloria della casata e a consolazione
della sua vecchiaia! Perfino lui, che pure gli era padre, non faticava ad
ammettere che, gli piacesse o no, il povero don Javier doveva essere un po’
tardo. Ma no, è solo timido, si diceva poi da sé solo, e forse era unicamente
per consolarsi, per aggrapparsi come un
disgraziato alla speranza,che è sempre
l’ultima a morire. Però non è bello che un uomo sia timido come una
ragazza. Quell’altro, Grigoire, il figlio suo e di Chantal, di cui non sapeva
niente, probabilmente era del tutto diverso. Avesse dato retta al cuore, invece
che a don Vicente, sarebbe stato un uomo felice. Ma un nobile spagnolo e un
buon cristiano non può permettersi di disubbidire al proprio padre, nemmeno se
ci vanno di mezzo il suo futuro e la sua felicità.
Si affacciò
alla finestra ed eccolo lì, nel cortile a giocare con altri monellacci dal muso
color fuliggine, il figlio di Eclipse. Era alto e snello come sua madre, come
tutti quanti i fullah. Aveva i capelli corti e ricci come ce li hanno
tutti quanti i negri e gli occhi che sembravano due schegge di ossidiana. Nelle
vene di quel ragazzo, c’era metà del suo sangue, gli piacesse o non gli
piacesse. Metà del suo sangue andata sprecata, quando il figlio di Chantal
ignorava la sua esistenza e quell’altro... Maledetto destino.
Javier il
mulatto si rotolava nella polvere rossa del cortile, avvinghiato ad un altro
monello della piantagione. Questi era più anziano di lui e fisicamente più
grosso, ma il figlio di Eclipse l’aveva messo con le spalle a terra senza difficoltà.
Era coraggioso e forte, un cucciolo di leone. Ed era anche, valgame Dios,
il marmocchio più intelligente che gli fosse capitato di conoscere. Imparava al
volo qualsiasi cosa gli s’insegnasse. A quattordici anni neanche fatti, non
solo leggeva e scriveva, ma, oltre allo spagnolo e agli innumerevoli dialetti
africani che si biascicavano nelle senzalas, parlava fluentemente
inglese e francese. Coi numeri che a quell’altro facevano venire il mal di
testa, lui se la cavava a meraviglia ed eseguiva a mente i calcoli più
complicati meglio dell’abaco. A don Javier piaceva, gli stava costantemente
appiccicato addosso, come una pulce a un cane, e non sembrava provare invidia
per i molti doni che, contrariamente a lui, la sorte gli aveva elargito.
L’invidia è un sentimento meschino, ma non c’è mai andata d’accordo, con la
dabbenaggine e la pochezza di cervello. Pochi anni ancora, comunque, e la loro
condizione avrebbe diviso i due Javier. C’era da sperare che quello bianco
crescendo si sarebbe svegliato, e che quello nero non avrebbe più finto
d’ignorare quale fosse il suo posto. E se Madre Natura era stata avara col
primo e prodiga con il secondo, le consuetudini sociali avrebbero rimesso le
cose dove era opportuno che stessero. Il figlio di Eclipse sarebbe stato
sprecato come tagliatore di canna o mungitore di vacche, quello che sapeva
poteva essere messo vantaggiosamente a servizio dell’amministrazione della
proprietà, ma schiavo era e schiavo sarebbe rimasto. A don Javier avrebbe
cercato una moglie come si deve, non una creola col sangue fradicio come sua
madre, ma un’autentica spagnola, una donna bella, sana e forte, in grado di
partorire quei figli che avrebbero impedito alla stirpe di estinguersi,
rinvigorendo al contempo la vecchia razza dei
De Almeida, infiacchita da troppe generazioni di matrimoni tra
consanguinei. Il bianco avrebbe comandato, il nero ubbidito, com’era giusto che
fosse. Non avrebbe lasciato passare molto tempo, prima di metterlo sotto: a
quattordici anni, non era più tempo di giocare. Javier il mulatto non lo
avrebbe deluso, ne era sicuro. Perché la sua bella madre e quella vecchia
guercia che stava con loro alla casa piccola e che chissà quanti anni si tirava
sul groppone lo avevano cresciuto proprio come si deve, onesto, sincero e leale.
E perché nelle vene del ragazzo scorreva metà del suo sangue.
Capitolo decimo
Il tempo
passa, il tempo cambia la faccia e la sostanza delle cose. Cambia le persone, a
volte in meglio, più spesso in peggio. Le cambia dentro e fuori, pensava don
Gregorio. A sessantacinque anni, aveva messo su un bel po’ di grasso sopra la
pancia e i capelli gli si erano fatti completamente bianchi. Si sentiva ancora
addosso l’energia di un leone, ma non si può ignorare il trascorrere
inesorabile dei giorni. Javier, il
figlio che gli era stato dato ad onore della famiglia e a consolazione della
sua vecchiaia, aveva venticinque anni e lui sì che non era cambiato un granché,
né fuori né dentro, purtroppo per suo padre e per il futuro dei De Almeida. Per
avere questo dal destino l’ho pregato tanto, Dio? Per quest’idiota che se ne
sta sempre a occhi bassi come una
novizia, che non riesce a tenere una spada in pugno, che ha paura dei
cavalli, che parla con voce chioccia come una vecchia checca , che se incontra
una ragazza sulla sua strada volta la faccia dall’altra parte? Don Francisco
Javier De Almeida, il figlio che Dio volle darmi a d onore della mia stirpe e a
consolazione della mia vecchiaia...O per castigo della mia lussuria?
Neppure quel ruffiano del pittore che, un paio d’anni prima, gli aveva dipinto il ritratto che adesso campeggiava nella galleria in mezzo ai cimeli di famiglia era riuscito a conferire un minimo di dignità alla sua faccia insulsa e al suo corpo meschino: una grottesca parrucca a riccioletti gli mascherava la calvizie incipiente, ma nascondere il resto non era stato possibile: lo sguardo vacuo, il mento sfuggente, la bocca dal disegno indeciso...Grazie al Cielo sorrideva poco, altrimenti avrebbe messo in mostra una dentatura precocemente cariata che gli regalava trent’anni in più di quelli che aveva. Nessuno dei De Almeida, pensava don Gregorio, percorrendo con lo sguardo i ritratti dei suoi antenati, da don Rodrigo, il capostipite del ramo cubano della famiglia, emigrato da Siviglia un paio di secoli prima, fino a suo padre don Vicente e a lui stesso, era mai stato particolarmente avvenente e regolare nei tratti, ma tutti quanti avevano figure imponenti e cipigli austeri e virili, sottolineati da grandi mustacchi e barbe a pizzo. Suo figlio non aveva neppure quello. Forse non era nemmeno un vero maschio, era un maledetto mariçon* terrorizzato dalle donne e, se in qualche modo la povera Isabel avesse potuto, col suo comportamento, insinuargli nella mente quel genere di dubbio, il grosso, sanguigno e virile don Gregorio avrebbe anche pensato che don Javier, così diverso da lui e da tutti quanti i De Almeida, poteva anche non essere figlio suo...E invece lo era, non onore ma castigo, non consolazione ma vergogna. Sputò a terra il sapore della bile che gli aveva riempito la bocca, tanto qualcun avrebbe pulito. Era molto religioso, don Javier. Aveva il terrore del peccato. Sfuggiva le donne come la peste e, l’unica volta che erano riusciti a trascinarlo dentro un bordello, era scappato via a gambe levate senza combinare un bel niente. Fosse dipeso da lui, si sarebbe fatto frate, ma non avrebbe potuto sperare di far carriera neppure in convento, visto che riusciva a malapena a leggere e a scrivere. In ogni caso, il suo destino non era quello: come unico erede di una grande casata, gli piacesse o non gli piacesse, aveva il dovere di prender moglie e di metter su famiglia: aveva aspettato anche troppo.
*Invertito (N.d.A)