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Autore: lalla    12/08/2004    3 recensioni
Si tratta di un vero e proprio romanzo, da me scritto qualche anno fa. Dopo averlo riveduto e ritoccato, ho deciso di pubblicarlo. A puntate, naturalmente. Le tematiche? L'immortalità e la storia, tribolata, affascinante e misconosciuta, degli afro americani.
introduzione (può contemporaneamente cancellare in autonomia questo messaggio)
Genere: Avventura, Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Primo

Capitolo Primo

 

 

 

Dal giornale di bordo della Beatriz Trueba, Diciannove di ottobre dell’Anno di Grazia 1774.

 

Trentaseiesimo giorno di navigazione, vento regolare alle vele, niente da annotare. Imbarcati a Bissau centocinquanta negri, di cui novantotto maschi e cinquantadue femmine, in età compresa tra i dodici e i ventisei anni. Nel corso del viaggio, sono andati perduti trentadue capi. I restanti appaiono, a Dio piacendo, vitali e in buona salute.

                                 Il Comandante Santiago Belisario.

 

   Erano vent’anni e passa che il comandante Belisario guardava il mare e si domandava come fosse possibile che l’armatore avesse battezzato col nome di sua figlia quella puzzolente nave negriera. Lui l’aveva vista sì e no un paio di volte, Beatriz Trueba, quella vera, una massaia col sedere largo e una verruca proprio sotto il naso, ma ricca abbastanza da essersi potuta permettere, all’età giusta, il  marito che tutte le ragazze sognano. C’era da guadagnarci, con quei traffici, se si aveva lo stomaco abbastanza forte da riuscire a sopportare la puzza e tutto il resto, e lui aveva guadagnato quel tanto che bastava per garantire alla sua famiglia un futuro senza problemi. Qualche anno ancora e avrebbe smesso, pensava guardando l’acqua scura dell’oceano dall’alto del cassero di poppa: brulicava di pescicani. I pescicani seguono  la scia delle navi negriere perché gli piace la carne viva e qualcosa da mettere sotto i denti ci scappa sempre. Pensò. Ogni viaggio, venti, venticinque suicidi, quando andava bene. Ma Dio non ha pietà di chi s’ammazza con le sue stesse mani.

    Il cielo era sereno, il mare calmo. Una settimana ancora e avrebbero toccato terra, il bestiame umano che avevano trasportato dall’Africa sarebbe stato venduto, l’equipaggio si sarebbe fiondato in massa nei bordelli dell’Avana, le stive della Beatriz Trueba sarebbero state ripulite, riempite di zucchero, indaco e tabacco, e via, verso la Spagna. Quaranta giorni e passa di mare, poi Caridad e i ragazzi lo avrebbero abbracciato piangendo, l’equipaggio si sarebbe fiondato in massa nei bordelli di Cadice, le stive della Beatriz Trueba sarebbero state svuotate, ripulite, riempite di perline, specchietti e stoffaccia... Erano passati vent’anni, dal primo viaggio, e non era cambiato quasi niente.

    I marinai avevano spinto dalla stiva sopra il ponte un primo gruppo di schiavi, per prendere aria e sgranchirsi le gambe il minimo consentito dalle catene: una decina di donne e un paio di ragazzini dagli occhi liquidi e le gambe scheletrite. Era importante che non avessero un aspetto emaciato e malaticcio, quando avrebbero toccato terra: nessuno compra mercanzia avariata. Qualcosa l’avevano perduta, come al solito. Dissenteria, scorbuto. E suicidi. Ma era da mettere in preventivo e, altre volte, era andata molto peggio.

    Le donne camminavano a testa bassa, infagottate nei loro sacchi, le catene che tintinnavano misurando i passi. Tutte molto giovani. Qualcuna gravida. Un paio di grugni da scimmia, ma la maggior parte belle. Gli avevano raccomandato, come al solito, di lasciarle in Africa, quelle con le tette pendule, le guance segnate dalle cicatrici rituali e i genitali tagliati e cuciti per non sentire piacere*. Prima erano merce di scarto, le femmine, ma dacché i latifondisti s’erano messi ad allevare negri, meglio un “criollo” nato e cresciuto a Cuba  piuttosto che un selvaggio importato dall’Africa a cui bisognava insegnare tutto, stavano diventando ricercate. Perfino dalle madame dei bordelli, visto che ormai i clienti preferivano le negre alle bianche. Dio ci salvi dal vizio della lussuria, pensò il comandante, scrollando in mare la cenere della sua pipa, prima di voltarsi per un’ennesima occhiata distratta alle donne che, sorvegliate da alcuni marinai, passeggiavano in tondo come bestie nella gabbia.

    No, non tutte. La solita, difficile immaginarlo, non faceva mai quello che facevano tutte le altre. Altera ed indolente, se ne stava con le spalle appoggiate alla battagliola e guardava le compagne come se lei non avesse nulla a che vedere con quel branco di disgraziate e conoscesse il destino che l’attendeva a Cuba: non i campi di canna, ma il letto di un principe di sangue reale. Povera illusa. Non doveva avere più di quattordici, quindici anni; evidentemente non erano solo le ragazze bianche, a fare grandi sogni campati in aria. Una bella figliola, alta e slanciata come un albero di pioppo, coi capelli divisi in treccine che le ruscellavano giù per le spalle e caviglie sottili come i garretti di una cerva imprigionati da catene incrostate di sangue vecchio. Un pezzo di pregio, gli avevano detto a Bissau, una fullah della Mauritania con abbondanti infusioni di sangue arabo e tuareg , e che era finita nelle mani giuste prima che qualche megera della sua tribù le facesse quello che i fullah fanno a tutte quante le adolescenti quand’hanno l’età giusta per prendere marito. Il fatto che fosse tutta intera, unitamente alla sua strepitosa bellezza, all’asta avrebbe fatto spuntare un prezzo da capogiro, Belisario ne era più che sicuro. Aveva occhi neri come la notte, un ovale perfetto e lineamenti di una bellezza squisita: il lotto più pregiato del carico, al mercato dell’Avana si sarebbero svenati per contendersela, non era necessario essere degli intenditori per rendersene conto. E non era necessario essere dei chiaroveggenti per immaginare che, con tutta probabilità, un simile splendore non sarebbe finito  a tagliare la canna o a rimestare verdure dentro un pentolone. Che come quella gliene fossero capitate poche, era verità sacrosanta. Aveva un segno, proprio in mezzo alla fronte, un segno bluastro che lui, lì per lì, aveva preso per un neo o per un piccolo livido. Invece si trattava d’un tatuaggio. Molte donne delle tribù tuareg e fullah avevano tatuaggi sulla fronte, sul mento, sul dorso del naso e sulle rime delle palpebre. Segni magici, gli avevano detto. Anche quello, con tutta probabilità: sole e luna. L’Eclissi. Ed Eclipse la chiamavano i marinai della nave, anche se il suo nome era Ayesha.

    Accoccolata sul ponte, guardava in alto, riparandosi gli occhi con la mano sottile. Le catene che le stringevano i polsi brillavano al sole come oro vecchio. Aveva zigomi alti, naso delicato, una grande bocca schiusa sui grossi denti bianchi e sani. I canini erano particolarmente pronunciati, quasi animaleschi: c’era qualcosa che attraeva e inquietava, una malia quasi demoniaca, nella bellezza perfetta di quella giovane donna. Belisario distolse lo sguardo.

    - Dentro!

    E le donne furono spinte nelle stive da marinai armati con fruste di pelle d’ippopotamo. Eclipse s’era alzata con quella sua solita grazia indolente saettando il suo sguardo d’antracite sull’uomo che la spingeva verso la botola cercando di toccarla. Manolo, l’aiuto calafato, maledetto porco, uno che, in mancanza di meglio, sarebbe stato disposto perfino a saltare addosso alla femmina di un cavallo. Il comandante aveva promesso di scorticare la schiena a nerbate a chi si fosse permesso di toccare le donne ma fortunatamente non aveva cento occhi né il dono d’essere contemporaneamente in due posti diversi. Eppoi era bella, quell’Eclipse dal lungo collo e dalla faccia orgogliosa, più alta di lui e nera quanto l’inferno. Perché non approfittarne? Certamente non avrebbe neppure reagito, impedita nei movimenti dalle catene, istupidita dalla detenzione nella stiva, dall’immobilità forzata, dal dolore dell’anima che ne uccideva tanti. Cercò di toccarla attraverso il sacco che la copriva. Se la sarebbe sbattuta alla prima occasione, per una così valeva la pena di rischiare cinquanta nerbate. Aveva grandi occhi orlati di nero, e certe ciglia che, quando le abbassava, proiettano l’ombra di due mezzelune, sugli zigomi rilevati. La  voce era rauca e bassa, più vecchia dei suoi pochi anni. Borbottò una parola strana in una lingua sconosciuta e aggrottò le sopracciglia ben disegnate, prima di scoprire i denti. Erano acuti, come quelli delle pantere che si potevano ammirare nei serragli ambulanti, e se quella dannata negra si fosse trasformata in una belva proprio sotto i suoi occhi, Manolo non avrebbe provato alcuna meraviglia.

    - Puttana...

    Le bestiacce rabbiose mordono. Le dannate cagne negre anche, pensava il marinaio, stringendosi con la mano la spalla, nel punto in cui i denti della donna erano penetrati. Faceva male. Ed era pericoloso, è facile che i morsi s’infettino. C’era un medico a bordo, un buono a niente spesso ubriaco. E se Belisario avesse saputo com’erano andate le cose, lo avrebbe fatto battere: nessuno dell’equipaggio poteva permettersi di guastare la mercanzia. Meglio cucirsi la bocca.

* Si allude alle terribili pratiche dell’infibulazione e dell’escissione, ancor oggi molto diffuse nell’Africa sub sahariana (N.d.A.).

 

Capitolo secondo

 

 

   - Febbre contagiosa?

   -No, comandante.

   -Sia ringraziato il Cielo.

   Già, faceva bene a tenerselo buono buono, il Cielo, perché se un marinaio sopra una nave s’ammala di febbre contagiosa e appesta tutti quanti i suoi compagni possono essere guai seri, può essere una tragedia.  Manolo non aveva addosso niente di contagioso, anche se da due giorni scottava come il fuoco e delirava come un pazzo.

   -Mi...ha...morso...

   -E chi ti avrebbe morso?-gli aveva domandato il dottor Gutierrez mentre gli strappava di dosso la  casacca sbrindellata. Se il Cielo avesse potuto renderlo per un attimo soltanto sordo agli urli di quel poveraccio gli avrebbe serbato eterna riconoscenza.

    -Una delle...

    -Una delle negre, dì?

    -...Sss...ssì...

    Quella febbre gli risparmiava le frustate, per il momento, pensava il comandante Belisario, le braccia conserte, le gambe divaricate, il volto duro. Ma non appena fosse guarito... Ai marinai era stato proibito di toccare la mercanzia e chi disubbidiva andava punito. Ammesso che guarisse. L’impronta dei denti era nitida, sopra il muscolo della spalla, e circondata da  un alone nero che sembrava crescere di minuto in minuto. Gran brutto segno.

    -Quale delle negre, Manolo?

    -Quella...col...

    Aveva urlato da spaccarsi i polmoni, quando la ferita gli era stata irrorata con l’alcol e poi cauterizzata. Quindi era caduto in un letargo semincosciente, senza tuttavia smettere di mugolare il suo dolore, come un animale pazzo. Eclipse, il lotto più pregiato del carico. Lo avrebbe punito, quando la febbre se ne fosse andata, pensava il comandante Belisario.

    -Guarirà?

    Il dottor Gutierrez l’aveva fissato coi suoi occhi sporgenti e arrossati da rospo, aveva scosso la testa.

    -Ne dubito. I morsi possono essere molto pericolosi.

    -Quell’Eclipse...Non sarà affetta dal mal di rabbia, dottore?

    -No. Starebbe molto male anche lei, se così fosse. Lui ha cercato di toccarla. E lei s’è difesa, suppongo.

    Già. Manolo era uno che ci tentava con tutte quante. Fosse riuscito a mettersela sotto, le avrebbe attaccato lo scolo, magari pure il mal francese e tutte quante le pestilenze che s’era preso dalle puttane. Ma, nelle condizioni in cui si trovava, difficilmente avrebbe potuto appestare un’altra donna.

    -E lei...La punirete, comandante?

    Belisario lo guardò, scosse la testa e si allontanò. Sarebbe salito sopraccoperta, a respirare una boccata d’aria pura. Manolo. Stava morendo. E quanto puzzava, per tutti i diavoli, era come se andasse putrefacendosi ancora vivo.  

 

Capitolo terzo.

 

 

Dal giornale di bordo della Beatriz Trueba, Ventiquattro di Ottobre dell’Anno di Grazia 1774

 

 

Dopo quattro giorni di agonia,sei ore passata la mezzanotte, l’aiuto calafato Manolo Diaz è morto. Il Signore abbia misericordia dell’anima sua. Le cause del decesso sono da imputarsi a malattia fulminante ma non contagiosa.

                             Il Comandante Santiago Belisario

 

    Non c’erano preti, sopra la Beatriz Trueba, e dovette leggerlo lui, il comandante, l’ufficio funebre per il povero Manolo Diaz. Recitò il De Profundis mandato a memoria ai tempi della Prima Comunione, tracciò un segno di croce sopra il sacco dentro il quale era cucito il cadavere di un uomo di trentadue  anni che aveva pagato cara la sua voglia d’ammazzare la solitudine nel calore d’ un corpo di donna. Non lo avesse mandato all’altro mondo quel morso, ci avrebbe pensato la sifilide, Belisario ne era più che certo: non può esserci misericordia per i peccati della carne, i peggiori, quelli che abbassano l’uomo a livello degli animali, che lo schiacciano nel fango.

    Le negre camminavano lentamente sul  ponte, i passi misurati dalle catene. Erano belle, benché patite, belle nella loro grazia selvaggia, negli sguardi inquieti che neppure i tremendi disagi della traversata, neppure la fame, il sudiciume e il terrore dell’ignoto che le aspettava dall’altra parte del mare per inghiottire le loro vite erano riusciti a guastare. Ed Eclipse era la più bella di tutte quante, con quell’aria altera da regina spodestata e la mano sottile a riparare gli occhi dall’offesa del sole di mezzogiorno. Avrebbe meritato, per quel che  aveva fatto, d’essere legata stretta al cadavere dell’uomo che aveva ucciso, cucita con lui nel sacco e gettata in mare. Ma era il lotto più pregiato del carico, una fullah mauritana col sangue dei guerrieri tuareg e dei beduini del deserto dentro le vene, bella come le antiche regine d’Egitto, e valeva denaro sonante. In fondo, Manolo Diaz se l’era cercata.

    L’aria era impregnata di voci concitate, odore di salsedine e tanfo di cadavere. Le negre biascicavano quelle loro melopee dissonanti, monocordi e rauche in tutti i dialetti del Golfo: hausa, yoruba, eboe, mandinka*. Allo schioccare delle fruste tacquero, rincantucciandosi come cani in un angolo del ponte, le spalle alla battagliola, gli occhi bianchi sbarrati nelle facce magre. Solo Eclipse continuava a cantare impassibile il suo lamento. Aveva una voce rauca, gutturale, una voce che sembrava molto più vecchia dei suoi anni. Una voce che, a momenti, andava giù densa e dolce come miele, a momenti si fermava  in gola come una manciata di sale. I lineamenti del suo viso erano delicati come quelli di una bambola, e gli occhi cattivi: occhi puntuti di capra selvatica, occhi taglienti come lame di coltello. Grazie a Dio, Cuba era ormai alle viste, si diceva il comandante  da sé solo.

  -Fatela tacere, maledizione!

   La frusta del guardiano la colpì sulle caviglie, riuscendo a strapparle un lamento di dolore. Intanto, i resti di quello che era stato Manolo Diaz finivano in mare con un tonfo sordo.

    -Requiescat in pace...Pacem tuam dona ei, Domine Jesu Christe...

    Pace, pace. Quale pace poteva esserci nell’aldilà per un peccatore morto impenitente? I marinai, quasi tutti, vivevano come se non dovessero mai morire, come se la loro vita fatta di viaggi interminabili, gallette stantie, alloggiamenti angusti e solitudine da ammazzare nei bordelli fosse eterna. Ma la morte non smetteva mai di pedinarli, perseverante come le torme di squali che seguivano la scia delle navi, lungo le rotte oceaniche. Le pance dei pescicani erano la tomba degli uomini del mare.

    Affacciato dal cassero di poppa, il comandante Belisario guardò l’acqua rinchiudersi per sempre sui poveri resti di Manolo Diaz, aiuto calafato e peccatore impenitente, i pescicani sfiorare il sacco coi loro musi appuntiti, per poi ritrarsi senza toccarlo, disgustati dal fetore di quella carne morta e fuggire, rapidi e guizzanti come fiamme, in cerca di prede migliori. Avrebbe avuto il mare come tomba, piccoli pesci avrebbero nuotato dentro la gabbia scarnita delle sue costole, ciuffi di attinie colorate sarebbero spuntati  dalle cavità delle sue orbite. Era orfano e non aveva moglie, nessuno lo avrebbe pianto.

*Tribù della regione guineana, quella più battuta dai trafficanti bianchi di schiavi destinati ai mercati delle Americhe (N.d.A.)

 

Capitolo quarto

 

    Bella era bella, e don Gregorio era uno che di donne se ne intendeva.Costava parecchio, ma spendere denaro per portarsi a casa qualcosa che desiderava non è di certo un problema, per un uomo ricco, e lui lo era. L’avrebbe spuntata anche all’asta pubblica, ma il mercante non poteva fare al suo miglior cliente un torto del genere. La transazione era avvenuta in privato e don Gregorio, sborsata la somma pattuita, si era portato a casa l’oggetto dei suoi desideri, un’adolescente nera come la notte e bella da spezzare il cuore, con una piccola luna tatuata sulla fronte e strani occhi color della pece, in fondo ai quali balenavano riflessi dorati come scaglie di pesci di fiume.

     Era fatto così, lui, gli era impossibile resistere al fascino di una bella donna, anche se padre Antonio, il suo confessore, gli diceva che era peccato. E’ difficile, per un uomo vero, soffocare il richiamo del sangue che bolle. E  poi una negra è una negra, come una puttana è una puttana: non si pecca d’adulterio, con femmine simili, o, se peccato si commette, non è di quelli che mandano all’inferno, un peccatuccio veniale, tutt’al più, come quello di un bambino davanti a un vassoio di dolci. No, la sua anima e la sua volontà non erano in pericolo, era uomo, ma era anche perfettamente in grado di controllarsi, aveva quarant’anni passati ed era perfettamente padrone di sé, non un ragazzino inesperto.

     Dimentico dei suoi pensieri, la guardò camminare al suo fianco,  il sole che le batteva sugli occhi neri, dorati e lontani. C’era qualcosa di strano, inquietante , in quella bella adolescente dagli zigomi alti e dalle labbra piene: l’ammiccare degli occhi, il balenio dei denti bianchi e forti, dai canini pronunciati. O la luna tatuata in mezzo alla fronte. Da ragazzo, ricordò, aveva posseduto un ciondolo d’argento con quel segno inciso sopra. Erano     i tempi di Filippo d’Asburgo quando un suo antenato, capo dei famigli dell’Inquisizione a Siviglia, l’aveva raccattato in mezzo alle braci  ancora calde del rogo che aveva appena finito d’incenerire  la carcassa di una vecchia strega. Lui l’aveva portato al collo, ben nascosto sotto la camicia, combattuto, come tutti gli spagnoli, tra la superstizione secondo cui gli oggetti raccattati da un rogo avrebbero il potere di tenere lontana la malasorte, e la fede religiosa, che gli imponeva di liberarsene. E non se n’era liberato in ossequio alla Chiesa, bensì per farne pegno alla sua amante, Chantal la  francese, quando il vecchio don Vicente le aveva elargito parecchio denaro perché sparisse, portandosi dietro il bastardo di suo figlio che teneva ancora dietro la pancia, ed era sparita, se n’era andata a Nuova Orleans e li aveva sposato un vecchio citrullo ricco quanto un nababbo, che aveva dato il suo nome al bambino e a lei la vita che aveva sempre sognato. Inutile maledirla e maledirsi, era destino.

    Chissà com’era, suo figlio. Un adolescente d’una quindicina d’anni, la stessa età della schiava che aveva appena comprato. L’unica cosa che era riuscito a sapere per vie traverse era che Chantal gli aveva dato un figlio maschio e gli aveva messo nome Grigoire, come lui. Isabel invece, la donna che suo padre gli aveva imposto, unica erede della piantagione confinante, bianca e grassa come una gallina e stupida come la luna, non riusciva a dargli figli: in tutti gli anni del loro matrimonio, aveva abortito cinque o sei volte. Se non gli avesse dato un figlio, e non le rimaneva più molto tempo, i De Almeida sarebbero scomparsi dalla faccia della  terra e i loro beni se li sarebbero accaparrati quegli antipatici cugini Reyes coi quali, tra l’altro, non era mai corso buon sangue.

    -Hermosita...

    Hermosita. Mia bellissima. Aveva un viso da bambola, un ovale perfetto incorniciato da un’acconciatura di treccine che le arrivavano alle spalle. Le carezzò le guance, guardò dentro i suoi occhi e li vide accendersi; percepì il lungo brivido che le era passato sotto la pelle. C’era rancore, dentro il suo sguardo, e sgomento impotente, anche se il tocco dell’uomo bianco  e ben vestito era gentile, molto diverso da quello brutale del puzzolente marinaio sopra la nave.

    -Con me sarai felice, Hermosita.

    Che significato, che valore  potevano avere quelle parole dette in una lingua che non capiva? Eppure suonavano dolci e gentili alle sue orecchie, abituate da troppo tempo allo sciabordio dell’oceano, ai lamenti dei prigionieri e alle urla dei marinai, come motteggi senza senso per calmare un cucciolo inquieto appena sottratto alla madre. Ma lo sguardo dell’uomo era falso e il suo odore ostile e sgradevole come quello del cacciatore per la preda.

    -Ti darò gioia.

    Le aveva afferrato il mento tra le dita, costringendola ad alzare gli occhi, ma senza brutalità. Ne aveva esaminato attentamente la bellezza dei lineamenti, per concludere che era perfetta. Il mercante l’aveva rassicurato circa il fatto che non fosse stata sottoposta alla mutilazione dei genitali, come capitava alla quasi totalità delle sue congeneri.

 

Capitolo quinto

 

   -Ti capisco, ragazza, credimi.Quello che ti sta capitando...

    ...l’ho provato anch’io, tanti anni fa. Consolante, pensava Eclipse. Ma le parole non possono asciugare le lacrime.

    Si chiamava Mama Conchita, le aveva detto, e parlava la sua lingua alla perfezione. La si sarebbe detta vecchia come il mondo, con quei capelli bianchi e radi, vaporosi come fiocchi di bambagia, quella pelle livida incisa da rughe profonde come crepe, quelle dita contorte che, strano a dirsi, non tremavano accarezzandole le guance vellutate, asciugandole via le lacrime dagli occhi.

    -Succede così a tutti. Si piange, ci si dispera. Poi ci si rassegna.

    Alla solitudine, alla miseria, alla paura? All’idea di non essere più padroni di se stessi e del proprio destino?

    -Piangi, piangi, ti passerà. Le donne belle come te non piangono mai a lungo.

    La strinse, cullandola tra le sue braccia scarnite. I suoi stracci puzzavano degli umori stantii della vecchiaia, ma quell’abbraccio ammazzava la solitudine, attenuava il dolore.

    -Com’è che conosci la mia lingua, Mama Conchita?

    La vecchia sorrise, e lo sguardo annegò nel mare delle rughe profonde come crepe.Non parlò, ma era come se parlasse:è semplice, ragazza mia. Sono come te, una fullah della Mauritania. Da giovane ero bella, anche se il tempo se la mangia, la bellezza, come una crosta di pane vecchio, e quello che rimane sono rughe, e capelli bianchi, e denti che dondolano, e gambe che non ti reggono. Il tempo ti farà come me, se il destino ti concederà di vivere quanto sono vissuta io. Sai,ne ho conosciuta tanta, di gente: eboe, mandinka, hausa,angola, koromantee, peuls, ashanti della Costa d’ Oro, fullah mauritani dalle narici strette e dagli occhi dorati che sembra guardino aldilà di ciò che vedono, proprio come te. E ciascuno di loro aveva una storia da raccontare.

     -Sono sempre stata svelta ad imparare, ragazza. E presto imparerai tante cose anche tu. A parlare come loro. A dimenticare quello che eri. A rassegnarti a quello che sei. E allora non soffrirai più.

     Non avrebbe sofferto più, esattamente come i bianchi: il demonio non sa cosa sia il dolore. O forse no? Gli occhi del padrone non erano limpidi, ma come offuscati, perfino quando la guardava e le sorrideva.

    -Soffrono, ragazza mia.Più di noi, perché non hanno fatto l’abitudine al dolore, non hanno mai imparato a rassegnarsi e a sopportare. Credono di poter ottenere tutto quanto comprandolo, ma ci sono cose che neppure l’oro può comprare.La dignità. O l’amore. O la salute. O un figlio. Don Gregorio ha una moglie che non ha saputo dargli niente, né l’amore, né il piacere né un figlio. E soffre perché il suo sangue morirà con lui e il figlio che ha avuto da un’altra donna non sa di essere suo, quindi è come se non lo fosse. Le voleva bene, alla francese, don Gregorio. Ma il vecchio don Vicente diceva che era una poco di buono e l’ha mandata via, con un pugno d’oro e il figlio che si teneva dentro la pancia...Doña Isabel è sterile, capisci? Nemmeno la felicità si può comprare. E nessuno può sfuggire al suo destino.

    Aveva pronunciato le sue ultime parole con un soffio di voce, guardandola fisso: un occhio era nero e febbricitante come quello d’un cane rabbioso, l’altro bianco e cieco. Non era facile sostenere quello sguardo.

    Eclipse aveva alzato le spalle, scosso la testa. Le avevano insegnato che chi è vecchio conosce della vita cose che un giovane non sa, ma quella Mama Conchita che ne sapeva del suo orgoglio? Come tutti i fullah, era stata cresciuta nella fede islamica: avrebbe accettato di mangiare carne di porco, di lavorare come una bestia dalla mattina alla sera, di chinare la testa e ubbidire, qualsiasi cosa le avessero chiesto, e non era difficile indovinare cosa si chiede di solito a una schiava giovane e bella? Avrebbe accettato di lasciarsi ingravidare dagli uomini che il padrone le sceglieva, di lasciarsi strappare i figli dalle braccia e di rassegnarsi a non vederli mai più? Per quanto ne sapeva, non è vero che il tempo cancella tutto il dolore, guarisce tutte le ferite.

    -Sarai uno strumento del destino.-le diceva la vecchia, carezzandole sulla fronte il segno della luna.

    -Non sono nemmeno una donna, Mama Conchita.

    -Sei una donna. Risparmiandoti il coltello, non ti hanno tolto niente, anzi.Agli uomini bianchi non piacciono le donne tagliate. E il destino ti ha messa sulla strada di  don Gregorio De Almeida.

    L’occhio scuro e febbricitante scintillava come l’acqua di un pozzo illuminata dalla luna. Che cosa c’entrava, lei, con don Gregorio, si domandava Eclipse. A meno che la vecchia non cercasse vendetta: tutti sanno che i fullah sono capaci di dedicare l’intera vita a vendicare col sangue le ingiustizie subite. Mama Conchita doveva essere pazza, e le faceva paura. Ma non si oppose,quando le strinse la mano tra gli artigli contorti dai reumi e dall’artrite. E nemmeno quando, con l’unghia spessa e sudicia del pollice, le penetrò in profondità nella carne, tra il polso e il palmo, facendole stringere i denti dal dolore.

    -Sarai uno strumento del destino.

    Aveva una voce forte e chiara, per i suoi anni, e conservava ancora tutti quanti i denti. Ma non avrebbe camminato ancora a lungo sopra la terra. Se non basta una vita, saranno i  figli a vendicare il padre e la madre, se non bastano due vite, i figli dei figli. Acquattata dietro i cespugli, la pantera avrebbe aspettato la sua vittima all’abbeverata, con la pazienza di chi sa di avere il tempo dalla sua,con l’ineluttabilità che è degli strumenti del destino.Avrebbe ucciso e sbranato in silenzio. Si sarebbe saziata di sangue, quando la luna piena si fosse nascosta dentro il buio  e il silenzio della notte.  

     Eclipse si succhiò il polso ferito, alzò il suo sguardo nero e dorato ad incrociare quello di Mama Conchita. Un filo del suo stesso sangue le colava sul mento e altro sangue le macchiava la bella bocca e i denti bianchi.   

 

 

Capitolo sesto

 

    Sulla Grande Canoa li aveva visti, i marinai, guardare gli uomini neri che danzavano sul ponte della nave mostrando loro i denti bianchi e affilati, li aveva visti schernirli e battere le mani perché erano convinti che ridessero. Aveva imparato che ai bianchi dà piacere infliggere sofferenza. E aveva imparato a non avere più paura di nulla, perché di vivere o morire non gliene importava più niente, tanto non faceva differenza. I vecchi le avevano detto dell’inferno, e forse era quello, l’oscurità puzzolente della stiva, le catene mangiate dalla ruggine, i topi, le piaghe suppurate, le pulci che mordevano dappertutto, i bruciori alle spalle, ai gomiti, ai fianchi, provocati dall’attrito contro le assi quando la Grande Canoa rollava e beccheggiava, sbattuta come un guscio d’uovo dalle onde dell’oceano. Sulla Grande Canoa aveva visto l’inferno e dall’inferno non si viene fuori. Si era domandata quali peccati Allah le chiedesse di scontare, ma le sue domande non avevano trovato risposta.

    -Sei bella.-le aveva detto Mama Conchita, e non era passato molto tempo da allora-Le donne belle non piangono mai a lungo.

    La mia vita era fatta di certezze, Mama Conchita, e adesso non so più neppure chi sono. Hanno cambiato il mio nome, vogliono che dimentichi quello che ero. Forse sono uscita fuori dall’inferno per finire in un inferno peggiore. Anche altra gente mi ha detto che sono bella: ma non vedo perché non dovrei piangere.

    Erano passati parecchi mesi, da allora. E Mama Conchita aveva avuto ragione,non c’erano motivi per piangere. “Sarai uno strumento del destino”. Chissà che cosa aveva voluto dirle. Che sarebbe diventata la madre del figlio del padrone?

    Si carezzò il ventre grosso e teso sotto i vestiti: un ciclo completo della luna e avrebbe partorito il figlio di don Gregorio. Il primo, così come il padrone era stato il suo primo uomo.

    La chiamava ancora hermosita. Bella. Adesso lo capiva. I bianchi sono diavoli. Godono infliggendo sofferenze, ma don Gregorio non aveva riso delle sue lacrime,  e l’aveva consolata. E’ il tributo che si paga la prima volta, dopo c’è solo felicità. Per lei c’era stata indifferenza, anche se, prima che la vecchia megera del villaggio potesse mutilarle le carni con il suo coltello, i bianchi l’avevano presa e portata via. Di don Gregorio avrebbe ricordato, negli anni a venire, i capelli lisci, folti e morbidi, qua e là spruzzati di bianco, doveva avere almeno quarant’anni, e il corpo tarchiato e peloso, diverso dai corpi snelli e levigati dei negri.

    La prendeva senza una parola, come se volesse sfogare dentro di lei i suoi assilli e la sua noia. Non era mai stato particolarmente tenero, dopo la prima volta, ma almeno l’aveva tolta dalle sudice senzalas*, per sistemarla in una casetta isolata nel bel mezzo della proprietà, non la mandava a spaccarsi la schiena nei campi o all’affumicatoio e gli piaceva che portasse abiti eleganti e orecchini d’oro.

    Don Gregorio aveva una moglie, una  signora bianca  e grassa, con certi capelli che parevano limatura di ferro e la pelle semolosa. Era incinta anche lei, avrebbe terminato i giorni del parto di lì a un paio di mesi e lui non stava nella pelle dalla felicità: gli avrebbe dato il sospirato erede, finalmente, dopo tanti aborti: il bambino bianco che avrebbe avuto tutto, una volta cresciuto. Che cosa avrebbe avuto il bambino nero, non era dato di saperlo; l’unica certezza, pensava Eclipse, era che sarebbe stato un po’ più chiaro di lei ma molto più scuro di suo padre.

    L’amore. Non era quello che stavano per darle lei e Isabel. Non doveva aver amato mai, don Gregorio. O aveva provato amore solo per quella francese che il vecchio don Vicente aveva spedito dall’altra parte del mare con una manciata d’oro nelle mani, un figlio senza padre dentro la pancia e un ciondolo d’argento con incisa sopra la luna appeso al collo.

*I quartieri degli schiavi (N.d.A.)

 

Capitolo settimo

 

    -Non è ancora tempo.

    Mancavano oltre due mesi, al parto. No, non era tempo. Isabel era sempre stata golosa, mangiava impressionanti quantitativi di dolciumi appiccicaticci e disgustosi che la facevano ingrassare come una scrofa e  le rovinavano lo stomaco. Nessuno, nemmeno lei, immaginava che di lì a poche ore avrebbe rotto le acque e che dolori sempre più insopportabili l’avrebbero costretta a contorcersi e a urlare come una demente. Mancavano due mesi, giorno più, giorno meno. Parecchie creature nascono settimine e la maggior parte di  esse non sopravvive, pensava don Gregorio torcendosi le mani.

    Isabel aveva la faccia verde e tutti i vestiti imbrattati di sangue e di sudore. Andava per i trentotto anni, ormai, e il suo cuore era debole come lo è, in genere, quello delle persone obese. Mama Conchita sarebbe arrivata appena possibile, don Gregorio non aveva perso tempo e aveva mandato gente a cercarla non appena sua moglie aveva cominciato a lamentarsi, e si era capito perché. Sarebbe arrivata affannando come un vecchio cane, malferma su quelle gambette stecchite che si ritrovava e avrebbe messo tutto quanto a posto: era brava nel suo mestiere, una delle tante vecchie megere africane che non mancavano mai nelle piantagioni e alle quali il padrone sapeva di potere affidare non solo le sue schiave, ma anche sua moglie e le sue figlie. Perfino lui era stato tirato fuori da Mama Conchita. Eppure...Sarebbe bastata la sua scienza, o la sua stregoneria, con una come Isabel? Il tempo passava e le sue condizioni peggioravano: sanguinava e urlava come una bestia scannata, il bambino non usciva, probabile che fosse messo male,capitava alle donne, capitava  anche alle cavalle, capita che...Un tarlo continuava a rodergli il cuore, il tarlo di presentimento funesto che non lo lasciava un attimo: il bambino sarebbe morto e, quando anche la sua ora fosse giunta, quegli odiosi Reyes si sarebbero calati sulla proprietà come tanti avvoltoi, dannati incapaci che in vita loro non erano mai stati in grado di combinare niente di buono.

    Isabel, pazza di dolore, scuoteva la testa sopra i cuscini, i capelli rossi impastati di sudore, la mano paffuta che stringeva convulsa una cocca del lenzuolo. Don Gregorio le asciugò la fonte madida col suo fazzoletto, la guardò con un misto di compassione e di disgusto. Non l’aveva mai amata, non gli era mai neppure piaciuta, quello che aveva fatto con lei era sempre stato solo e nient’altro che un dovere, e adesso sua moglie stava morendo per dargli ciò che ogni marito si aspetta dalla propria donna, ciò che lui aveva desiderato più d’ogni altra cosa al mondo. Era nata con quel destino cucito addosso, come tutte quante le figlie d’Eva, povera infelice, bianca e grassa come una gallina e stupida come la luna.

    Mama Conchita venne, con le sue gambette malferme e il suo occhio guasto, e gli chiuse  in faccia senza tanti riguardi la porta della camera matrimoniale. La pendola segnava le sei del pomeriggio, quando uscì fuori, con un fagotto minuscolo nelle braccia.

    -Vostro figlio, amo.

    Aveva il cranio globoso e glabro, sul quale pulsavano tante piccole vene bluastre, e il colorito livido.

    -Doña Isabel?

    La vecchia negra scosse la testa senza parlare e don Gregorio abbassò gli occhi: era andata. Quella brutta creatura che squittiva come un ratto tra le mani nodose di Mama Conchita aveva ammazzato sua madre.

    -Il bambino...Si salverà,almeno lui?

    -E’ venuto fuori prima del tempo, amo*. E’ piccolo e debole. Bisognerà cercargli una balia. Quell’Eclipse...E’ pulita e sana e ha partorito stamattina: un maschio bello grosso. Ma non posso promettervi niente, mi dispiace.

    La vecchia dondolava la testa, stringendo tra le braccia il futuro re della Finca Dorada, quella creatura rachitica che non aveva neppure la forza di piangere. Eclipse, pensava don Gregorio, gli aveva partorito senza troppe complicazioni  un figlio sano e forte. Capita. Capita anche troppo di frequente. Capita anche ai re: il figlio legittimo, nato da nozze benedette, non vale l’unghia del piede del bastardo. Capita.

    -Scoprigli la testa, Mama.Se ha da morire, che muoia almeno in grazia di Dio.

    C’era un bicchiere pieno a metà, sul comodino della povera Isabel. Il piccolo frignò debolmente, quando poche gocce d’acqua fredda gli bagnarono il cranio pelato.

    -Io ti battezzo....Francisco Javier...In nome del Padre...E del Figlio...E dello Spirito Santo.

*Padrone (N.d.A.)

 

 

Capitolo ottavo

 

    Era assurdo anche solo crederlo, e poi la superstizione è peccato, ma l’avrebbe lasciata fare ugualmente, anche se un’idea del genere, rubare un po’ di fortuna all’erede legittimo battezzando il bastardo col suo stesso nome, era da considerarsi abbastanza irrispettosa da  farle meritare un’ esemplare punizione. Come s’era permessa di mettere a quel bastardo nero lo stesso nome di suo figlio?

    “Suona bene”, s’era giustificata con un misto di candore e di malizia. Impudente. Stupida, ignorante nera, chi s’era messa in testa di essere? Credeva  forse d’essere diventata importante per avergli partorito quel figlio? Ammesso che fosse suo: alle senzalas le ronzavano attorno in parecchi e non si poteva essere certi a proposito di chi fosse il padre, le negre non erano che puttane. Padre Antonio, il suo confessore, aveva avuto ragione ad ammonirlo e, dacché la povera Isabel era morta, lui non l’aveva più toccata : non nasce niente di buono, dalla malapianta del peccato.

    Ma il piccolo Don Javier stava bene, adesso, ed era la sola cosa che contasse. Che Eclipse lo chiamasse come voleva, il suo piccolo bastardo, tanto erano diversi, nessuno avrebbe potuto confonderli. A due mesi, il figlio di Isabel aveva messo su qualche rotolino di ciccia e non era più in pericolo di vita. Aveva i capelli rossicci di sua madre e la faccetta dai tratti ancora indecisi, forse proprio perché era nato anzitempo. Piuttosto bruttino, a voler essere obiettivi a tutti i costi, pensava don Gregorio: aveva il naso grosso e una bocca che quando frignava, e lo faceva spesso, si spalancava mostrando dimensioni spropositate. Cambierà, i neonati hanno tutti la stessa faccia. Cambierà, crescendo. Lo prese in braccio, titubante e un po’ timoroso, gli carezzò con delicatezza la testolina coperta da una rada peluria rossa. Odorava di orina e di latte, e rassomigliava a una piccola scimmia: come tutti quanti i neonati, si disse l’uomo per consolarsi, mentre deponeva suo figlio nella culla. L’altro, che dormiva placidamente con il piccolo pugno infilato dentro la bocca, era un colosso pesante quanto una grossa pietra, con le guance paffute, le ciglia lunghe e curve di sua madre e il più delizioso nasino che fosse mai stato dato di vedere sopra la faccia di un lattante. Aveva ragione Eclipse, nessuno li avrebbe confusi, erano completamente diversi, e non solo perché uno era bianco e l’altro nero, pensava don Gregorio ingoiando a fatica la propria terribile amarezza.

 

Capitolo nono

 

   Dalla cronaca familiare di don Gregorio De Almeida, Baron de Almerida y Caballero de l’ Orden de la Cruz

 

    Finca La Dorada, Cuba, Diciassette di Dicembre dell’Anno di Grazia 1777

    Don Francisco Javier De Almeida, che Dio volle darmi come figlio, ad onore della famiglia e a consolazione della mia vecchiaia, ha pronunciato oggi le sue prime parole.

 

    Finca La Dorada, Cuba, tredici di Novembre dell’Anno di Grazia 1781

    Don Francisco Javier  De Almeida, che Dio volle darmi come figlio, ad onore della famiglia e a consolazione della mia vecchiaia, ha iniziato oggi il suo cammino sulla via del sapere, sotto la guida del Maestro Padre Helpidio Huesca, esperto nella Retorica e nelle Belle Lettere, dotto nelle Matematiche, profondo conoscitore della Filosofia e delle Lingue antiche e moderne...

 

    Finca La Dorada, Cuba, Quattro di Marzo dell’Anno di Grazia 1784.

    Don Francisco Javier De Almeida, che Dio volle darmi come figlio, a onore della famiglia e a consolazione della mia vecchiaia, ha iniziato oggi, sotto la guida del Maestro d’Armi sergente Juan Raboso, le lezioni di tiro a segno, scherma, equitazione e nuoto...

 

    Il figlio che Dio aveva voluto dargli, a onore della famiglia e a consolazione della sua vecchiaia, pensava don Gregorio posando sopra lo scrittoio i vecchi diari che aveva scartabellato col fegato in mano, avrebbe compiuto quattordici anni di lì a pochi giorni. Le sue proporzioni erano cambiate e sarebbero continuate a cambiare ancora per un bel po’, ma non era poi molto diverso dal neonato venuto al mondo di sette mesi, gracile come un topo e brutto come una scimmietta: aveva ancora il naso grosso, la bocca larga e capelli radi e piumosi che, sicuramente, a vent’anni avrebbe iniziato a perdere. Era abbastanza alto, ma magro scannato, con le spalle curve e un accenno di pancetta prominente che il lavoro di nessun sarto, per quanto abile potesse essere, sarebbe riuscito a mimetizzare completamente e, come se non bastasse, da qualche mese gli era spuntata sulla fronte e sul mento una rigogliosa fioritura di pustole che lui stuzzicava di continuo con le unghie rosicchiate. Le pustole guariranno, sono un male dell’adolescenza. Crescendo s’irrobustirà. Le parrucche sono state inventate per mascherare la calvizie. La bellezza non è poi così importante, per un uomo... Lo sguardo inquieto di don Gregorio tornò a posarsi sui quaderni di marocchino rosso dove, diligentemente, egli aveva annotato anni e anni di cronaca familiare: il primo dentino di don Francisco Javier De Almeida, i primi passi, le prime parole...Peccato che, quando lui aveva iniziato ad andare gattoni, quell’altro correva già come un capriolo. E che, quando lui aveva detto “pappa” a due anni fatti, l’altro parlava speditamente già da diverso tempo.

    “E’ un po’ lento nell’apprendere, ma ha buona volontà. Se potesse studiare in compagnia d’un coetaneo, probabilmente gli gioverebbe.”

    Senz’altro al maestro Huesca doveva essere mancato il coraggio di dirgli chiaro e tondo che quel figlio tanto atteso era un mezzo scemo e aspettarsi che fosse come tutti gli altri adolescenti sarebbe stata una pia illusione,cosa che, del resto, nemmeno lui aveva mai pensato. Ma il buon padre Helpidio, con la sua lunga esperienza di precettore, a proposito del compagno con cui studiare poteva anche aver ragione. L’unico coetaneo disponibile nel raggio di diverse miglia era l’altro Javier, il figlio d’Eclipse. Avevano succhiato lo stesso latte, giocato assieme, erano andati sempre d’accordo, malgrado fossero tanto diversi: timido, remissivo, religiosissimo l’uno, robusto, vivace e scavezzacollo l’altro. Peccato che quel che don Javier impiegava tre mesi a ficcarsi in testa, Javier il mulatto lo imparava in un quarto d’ora. Beh, i De Almeida, quasi tutti, erano uomini d’azione piuttosto che di studio, e la cosa poteva essere consolante se il giovane don Javier se la fosse saputa cavare, con i cavalli e con le armi, meglio che con i libri. Invece l’erede dei beni e della casata aveva durato una terribile fatica e collezionato parecchie sberle, prima di riuscire a vincere la paura che gl’incutevano i cavalli; in compenso, non era mai riuscito a vincere il terrore dell’acqua, era appena decente con la pistola, del tutto indecente con la spada e si muoveva con la grazia di una cicogna zoppa, contrariamente al suo fratellastro nero che, a dodici anni, cavalcava a pelo i puledri più indocili della scuderia, nuotava come un pesce ed era diventato talmente bravo con le armi che il sergente Raboso non aveva più nulla da insegnargli. Bel figlio il destino gli aveva concesso, a onore e gloria della  casata e a consolazione della sua vecchiaia! Perfino lui, che pure gli era padre, non faticava ad ammettere che, gli piacesse o no, il povero don Javier doveva essere un po’ tardo. Ma no, è solo timido, si diceva poi da sé solo, e forse era unicamente per consolarsi, per aggrapparsi  come un disgraziato alla speranza,che è sempre  l’ultima a morire. Però non è bello che un uomo sia timido come una ragazza. Quell’altro, Grigoire, il figlio suo e di Chantal, di cui non sapeva niente, probabilmente era del tutto diverso. Avesse dato retta al cuore, invece che a don Vicente, sarebbe stato un uomo felice. Ma un nobile spagnolo e un buon cristiano non può permettersi di disubbidire al proprio padre, nemmeno se ci vanno di mezzo il suo futuro e la sua felicità.

    Si affacciò alla finestra ed eccolo lì, nel cortile a giocare con altri monellacci dal muso color fuliggine, il figlio di Eclipse. Era alto e snello come sua madre, come tutti quanti i fullah. Aveva i capelli corti e ricci come ce li hanno tutti quanti i negri e gli occhi che sembravano due schegge di ossidiana. Nelle vene di quel ragazzo, c’era metà del suo sangue, gli piacesse o non gli piacesse. Metà del suo sangue andata sprecata, quando il figlio di Chantal ignorava la sua esistenza e quell’altro... Maledetto destino.

    Javier il mulatto si rotolava nella polvere rossa del cortile, avvinghiato ad un altro monello della piantagione. Questi era più anziano di lui e fisicamente più grosso, ma il figlio di Eclipse l’aveva messo con le spalle a terra senza difficoltà. Era coraggioso e forte, un cucciolo di leone. Ed era anche, valgame Dios, il marmocchio più intelligente che gli fosse capitato di conoscere. Imparava al volo qualsiasi cosa gli s’insegnasse. A quattordici anni neanche fatti, non solo leggeva e scriveva, ma, oltre allo spagnolo e agli innumerevoli dialetti africani che si biascicavano nelle senzalas, parlava fluentemente inglese e francese. Coi numeri che a quell’altro facevano venire il mal di testa, lui se la cavava a meraviglia ed eseguiva a mente i calcoli più complicati meglio dell’abaco. A don Javier piaceva, gli stava costantemente appiccicato addosso, come una pulce a un cane, e non sembrava provare invidia per i molti doni che, contrariamente a lui, la sorte gli aveva elargito. L’invidia è un sentimento meschino, ma non c’è mai andata d’accordo, con la dabbenaggine e la pochezza di cervello. Pochi anni ancora, comunque, e la loro condizione avrebbe diviso i due Javier. C’era da sperare che quello bianco crescendo si sarebbe svegliato, e che quello nero non avrebbe più finto d’ignorare quale fosse il suo posto. E se Madre Natura era stata avara col primo e prodiga con il secondo, le consuetudini sociali avrebbero rimesso le cose dove era opportuno che stessero. Il figlio di Eclipse sarebbe stato sprecato come tagliatore di canna o mungitore di vacche, quello che sapeva poteva essere messo vantaggiosamente a servizio dell’amministrazione della proprietà, ma schiavo era e schiavo sarebbe rimasto. A don Javier avrebbe cercato una moglie come si deve, non una creola col sangue fradicio come sua madre, ma un’autentica spagnola, una donna bella, sana e forte, in grado di partorire quei figli che avrebbero impedito alla stirpe di estinguersi, rinvigorendo al contempo la vecchia razza dei  De Almeida, infiacchita da troppe generazioni di matrimoni tra consanguinei. Il bianco avrebbe comandato, il nero ubbidito, com’era giusto che fosse. Non avrebbe lasciato passare molto tempo, prima di metterlo sotto: a quattordici anni, non era più tempo di giocare. Javier il mulatto non lo avrebbe deluso, ne era sicuro. Perché la sua bella madre e quella vecchia guercia che stava con loro alla casa piccola e che chissà quanti anni si tirava sul groppone lo avevano cresciuto proprio come si deve, onesto, sincero e leale. E perché nelle vene del ragazzo scorreva metà del suo sangue.

 

 

Capitolo decimo

 

   Il tempo passa, il tempo cambia la faccia e la sostanza delle cose. Cambia le persone, a volte in meglio, più spesso in peggio. Le cambia dentro e fuori, pensava don Gregorio. A sessantacinque anni, aveva messo su un bel po’ di grasso sopra la pancia e i capelli gli si erano fatti completamente bianchi. Si sentiva ancora addosso l’energia di un leone, ma non si può ignorare il trascorrere inesorabile dei giorni. Javier,  il figlio che gli era stato dato ad onore della famiglia e a consolazione della sua vecchiaia, aveva venticinque anni e lui sì che non era cambiato un granché, né fuori né dentro, purtroppo per suo padre e per il futuro dei De Almeida. Per avere questo dal destino l’ho pregato tanto, Dio? Per quest’idiota che se ne sta sempre a occhi bassi come una  novizia, che non riesce a tenere una spada in pugno, che ha paura dei cavalli, che parla con voce chioccia come una vecchia checca , che se incontra una ragazza sulla sua strada volta la faccia dall’altra parte? Don Francisco Javier De Almeida, il figlio che Dio volle darmi a d onore della mia stirpe e a consolazione della mia vecchiaia...O per castigo della mia lussuria?

    Neppure quel ruffiano del pittore che, un paio d’anni prima, gli aveva dipinto il ritratto che adesso campeggiava nella galleria in mezzo ai cimeli di famiglia era riuscito a conferire un minimo di dignità alla sua faccia insulsa e al suo corpo meschino: una grottesca parrucca a riccioletti gli mascherava la calvizie incipiente, ma nascondere il resto non era stato possibile: lo sguardo vacuo, il mento sfuggente, la bocca dal disegno indeciso...Grazie al Cielo sorrideva poco, altrimenti avrebbe messo in mostra una dentatura precocemente cariata che gli regalava trent’anni in più di quelli che aveva. Nessuno dei De Almeida, pensava don Gregorio, percorrendo con lo sguardo i ritratti dei suoi antenati, da don Rodrigo, il capostipite del ramo cubano della famiglia, emigrato da Siviglia un paio di secoli prima, fino a suo padre don Vicente e a lui stesso, era mai stato particolarmente avvenente e regolare nei tratti, ma tutti quanti avevano figure imponenti e cipigli austeri e virili, sottolineati da grandi mustacchi e barbe a pizzo. Suo figlio non aveva neppure quello. Forse non era nemmeno un vero maschio, era un maledetto mariçon* terrorizzato dalle donne e, se in qualche modo la povera Isabel avesse potuto, col suo comportamento, insinuargli nella mente quel genere di dubbio, il grosso, sanguigno e virile don Gregorio avrebbe anche pensato che don Javier, così diverso da lui e da tutti quanti i De Almeida, poteva anche non essere figlio suo...E invece lo era, non onore ma castigo, non consolazione ma vergogna. Sputò a terra il sapore della bile che gli aveva riempito la bocca, tanto qualcun avrebbe pulito. Era molto religioso, don Javier. Aveva il terrore del peccato. Sfuggiva le donne come la peste e, l’unica volta che erano riusciti a trascinarlo dentro un bordello, era scappato via a gambe levate senza combinare un bel niente. Fosse dipeso da lui, si sarebbe fatto frate, ma non avrebbe potuto sperare di far carriera neppure in convento, visto che riusciva a malapena a leggere e a scrivere. In ogni caso, il suo destino non era quello: come unico erede di una grande casata, gli piacesse o non gli piacesse, aveva il dovere di prender moglie e di metter su famiglia: aveva aspettato anche troppo.

*Invertito (N.d.A)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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