7.
Le ali della speranza
La speranza è qualcosa con le ali,
che dimora nell'anima e canta la melodia senza parole,
e non si ferma mai.
Emily Dickinson
Sei
un mostro.
Ho
avuto paura, il mio cuore si è fermato. Brividi glaciali hanno percosso le mie
ossa, il freddo mi si è cristallizzato nel sangue, il respiro mi ha
soffocato.
Sei
un mostro.
La
catena si è staccata dal muro, il cane ha attaccato Martin.
Sei
un mostro.
Il
cane si è accasciato a terra. Come Julia, come Hans, come qualunque altra
cosa che io abbia visto cadere da quel giorno di primavera all'asilo. Il
cane ha cominciato a tremare. Il cane ha guaito. Sento il dolore alla testa,
la forza, il potere, la consapevolezza di controllare tutto e allo
stesso tempo di non poter evitare nulla. Perché io voglio che succeda. No,
no, no...
Sei
un mostro.
Martin
continua a seguirmi, anche se gliel'ho urlato mille volteche deve lasciarmi da
sola, anche se gli fa male la gamba e si tiene un fazzoletto sul polpaccio, i
jeans sporchi di sangue. Sospiro, sto piangendo. È
Perché
è qui con me?
Inciampo,
cado sulle ginocchia nell'angolo del marciapiede.
Al
buio.
Sola.
È
***
Una
parte del mio cervello si ostina a non capire. Resta buia in questo strano
dolore che è suo e che ora appartiene anche a me.
Non
so quanto tempo è passato. Non so da quanto tempo piange. Non so da quanto
tempo ha smesso di urlarmi contro vai via. Non so da quanto tempo le mie
gambe, – zoppico, fa male, aspettami – si sono fermate. Non so da quanto
tempo sono qui, per lei.
Accovacciata
sul lato più buio del marciapiede, come una ragazza di strada.
Si
asciuga le lacrime con la manica del giubbino.
«Che
cosa vuoi, ancora?» La sua voce mi corrode come un acido. Viene interrotta da
un singhiozzo. «Perché non vai via?»
Ma
mi avvicino, un po’ lento, un po’ scaltro, un po’ come non sono mai stato. La
aiuto a rimettersi su e i suoi occhi si fanno più grandi. Ha paura di me, di
questo, di tutto.
«Mar…»
singhiozza. «Martin… smettila di toccarmi… smettila di…»
«Abbracciarti?»
Le prendo il viso fra le mani e la sento vibrare sotto le mie mani, gli occhi
dello stesso colore dell’acqua, riflesso grigio, azzurro.
«Per
favore.» La sua voce è chiara, ancora trema. «Io... non posso, io... Io…
cambierò scuola. Di nuovo.» La sua voce si spezza. «Ma ti prego, non
raccontarlo a nessuno altrimenti… altrimenti questi anni verranno buttati e la
mia famiglia… la mia famiglia…» Un'altra lacrima scende sul suo viso e lei
subito la raccoglie con la mano. Forte, forte come non l’ho mai vista. Quante
volte le è successo? L’ho guardata, sola, in quel bus, con le ginocchia al
petto, la borsa di stoffa che penzolava dal sedile, i suoi capelli a sfiorarle
il viso ad ogni soffio di vento. Ora si fa forza da sola, si raccoglie le
lacrime come se fossero pezzi di vetro, appuntiti, che possono far male a chi
le sta intorno.
«Sarah…»
«Sono
stata io, Martin! L'ho ucciso, io lo so, so che l'ho ucciso... l'ho ucciso...»
«No,
Sar...»
«L'ho
ucciso... io l'ho ucciso...»
«Non
piangere, basta. Non piangere, Sarah, cazzo... ehi, io sto bene, se tu non
avessi...»
«L'ho
ucciso.»Mi viene fuori un gemito, singhiozza ancora, la stringo forte, le sue
lacrime mi bagnano la pelle del collo. Uccide me vederti così. Lo so. So
che quest’ombra scura che è caduta su di lei appartiene solo a questo istante,
a questa paura, a quello che è appena successo. Io so che non dipende da te.
Non so come, ma lo so. «Io... potrei... tu potresti...»
«Non
mi importa.»
«Hai
visto... che cosa ho fatto.»
Scuoto
la testa e aspetto che mi guardi, aspetto che mi cerchi, aspetto che mi trovi.
Lo
fa.
«Io
non credo a tutto quello che vedo.»
Intreccio
la mia mano alla sua e non si stacca, non mi caccia.
Ha
bisogno di me.
***
Un
corridoio lungo, dorato; mobili scuri, lucidi; tende verdi, di seta; una
finestra alta quanto il soffitto, come in un castello di fiabe.
Faccio
un respiro profondo e ancora mi aspetto di risvegliarmi. Non so se questo è un
sogno o un incubo, troppo reale, troppo vivo, troppo sentito. Io che non
sento mai. Io che riconosco gli echi da lontano e mai le voci.
Tutto
luccica, qui, nella casa di Martin. Ci sono dentro ma tutto mi sembra lontano,
impossibile, splendido per un set di film. Ho paura a toccare tutto questo per
paura che scompaia.
Un
po’ come lui.
Lui
che mi afferra con gli occhi ogni volta che sto per volare via.
Mi
sciacquo un’ultima volta il viso ed esco dal bagno. Seconda porta a sinistra. La
mia stanza. Seguo le sue indicazioni, attraverso il lungo corridoio e mi
fermo davanti alla stanza con la porta aperta. È chino su quella che deve
essere la sua scrivania, in canottiera, le spalle ampie e la linea scolpita
della braccia, mentre si passa dell’ovatta imbevuta di alcol sui buchi che il
cane gli ha fatto nella pelle.
Martin
butta l’ovatta nel cestino in plastica accanto a lui. Mentre si volta i capelli
gli sfiorano il viso in una specie di carezza, la luce artificiale della
lampada sul comodino a creare delle ombre altissime. Socchiude gli occhi e si
appoggia alla scrivania, di schiena. È bello. È bello mentre prende un maglione
di lana, di quelli un po’ larghi e sciupati, lo indossa e mi sembra ancora e
sempre più bello. Mi guarda. Non vedo il mostro riflesso nelle sue
iridi. Non vedo l’odio, non vedo il disgusto. Vedo qualcuno che ha bisogno di
non essere abbandonato ancora una volta.
«Va
meglio?»
«Fa
ancora male?»
Sorride.
Mi
sento morire.
«Rispondi
prima tu.» Sento le sue dita sotto il mio mento, i suoi occhi che non si
staccano dal mio viso, dai miei occhi, sempre più vicino, dalle mie labbra.
Deglutisco.
«Sì, va meglio. A te fa ancora male?»
«Brucia
meno.»
E
pensare che io l’avrei sempre voluto, un cane. Qualcuno che mi stesse vicino
indipendentemente da tutto. E invece sembra che io possa colpire anche gli
animali, oltre alle persone.
Annuisce
ed io mi allontano da lui. Meglio stare lontana, così, distanza di sicurezza.
Anche se l’unica cosa che vorrei è cadergli addosso per sbaglio – perché lo
voglio – per stargli vicino e avere la sensazione, almeno per un secondo, di
non essere diversa da tutte le altre persone del mondo. «Magari quando
torna Doreen mi faccio dare un'occhiata, sempre che non muoia prima.» aggiunge.
Mi
passo una ciocca di capelli dietro l'orecchio e faccio vagare lo sguardo per la
stanza. Copriletto della formula 1, poster di giocatori di basket appesi al
muro giallo chiaro, qualche modellino sugli scaffali più alti della
libreria.
Un
comodino.
Una
foto.
«Comunque,
Doreen è... insomma, senza di lei la mia vita sarebbe una bella
spazzatura.» Una foto.
Una
donna bionda, con i capelli corti fin sopra le spalle, il sorriso delicato,
tiene in braccio un bambino piccolissimo, abbracciata ad un uomo con la pelle
chiara, i capelli neri. La foto è a colori ma mi ricorda quelle in bianco e
nero che raffiguravano le attrici dei film.Prendo in mano la cornice.
«È
lei?» Mi volto verso Martin.
Il
suo viso si incupisce per la prima volta da quando l'ho conosciuto. È un
istante di buio.
Poi
torna una tenue luce di pomeriggio.
«No...
lei è mia madre. Era mia madre. È morta.»
Mi
mordo la lingua, il sapore del sangue mi invade la bocca mentre sento e ricordo
quello che sono io. L'amore dei miei nonni, i loro sacrifici, il doppio della
forza a prendermi in braccio. Gli unici ad amarmi per quello che sono.
«Ma
è ok...» Lo sento dire.
«Non
è ok. » Sospiro. «Anche i miei sono morti. Entrambi. In un incidente
d'auto. Ero appena nata. »
«Non
mi ricordo di lei.» Si passa una mano fra i capelli e guarda la foto con me,
sento il suo respiroaddosso. Mi stringo nelle spalle. Martin non ha avuto una madre,
ed io so com'è. So com'è quando ti dicono la tua mamma non c'è, adesso, ma ti
guarda dal cielo insieme a tanti angeli, e con lei c'è anche papà. Ti senti
fortunato per quello che hai ma sai che non è abbastanza. Sai che, nel profondo
di te stesso, vorrai sempre avere quello che non hai.
Martin
si volta, fa girare la sua sedia con le ruote e si siede, mi fa segno di
sistemarmi sulla panca vicino alla porta. Mi siedo, cerco di non guardare lui
anche se non potrò sfuggire al suo sguardo, ai suoi pensieri.
Mi
lascia tranquilla nel mio silenzio. Niente domande. Niente. Va tutto bene.
Eppure
sento che devo dirglielo.
«Martin.
»
Devo fargli questa domanda, anche se la risposta potrebbe fare male.
«Hai
paura di me?»
Trovo
il coraggio di guardarlo. Lo guardo proprio nel momento in cui ride, e il
rumore che fa assomiglia ai cereali al miele che si mettono nella ciotola con
il latte freddo. Mi torturo le gambe e mi liscio il tessuto dei jeans, mentre
lui manda indietro la testa. Mi accorgo di sorridere quando è troppo tardi.
«Io
non ho paura di niente, Sarah. » Nei suoi occhi c’è una luce calda che mi fa
salire il sangue alla testa.
Forse
di questo sì, ho così tanta paura perché non so da dove venga. Il maglione è
largo, gli si abbassa sul petto ed io riesco a vedere il morso che il cane gli
ha fatto sulla clavicola. La serenità va di nuovo via e l’unica cosa che riesco
a fare è non sorridere più, non guardare più, appoggiarmi al muro e desiderare
di non essere mai e mai e mai nata.
Ma
Martin sbuffa e sorride e io desidero di essere nata altre mille volte.
***
Masticare
è strano, a volte. Ti può fare perdere il controllo del respiro, e
sentire la mascella che fa tah, tah, tah. Sono i biscotti che ha
comprato quando siamo andati insieme al centro commerciale, qui, seduti al
tavolo della cucina.
Siamo
riusciti a non parlarne. A guardare America'sgot talent e a ridere.
E
ora che c'è silenzio cerco di controllare il respiro.
«Volevo...
chiederti scusa.» La voce di Sarah è a malapena un sussurro, ma sembra
che le mie orecchie riescano ad afferrare tutto.
«Scusa?»
Mi passo una mano fra i capelli. Scusa?
Lei? Cazzo, le femmine non le capirò mai, e con lei è anche peggio. «Non
lo ripetere mai più.»
Si
mette a braccia conserte, in una specie di sfida e… sì, forse adesso mi fa un
po’ paura.
«Mi
dispiace.» ripete. Ecco, solo questa ci mancava. Smettila di essere così
bella. Continua a guardarmi.
«Ti
dispiace che il cane non abbia sbranato la mia… splendida faccia? » La imito,
braccia conserte ed espressione offesa.
Emana
luce. Eccola lì, che parte da una piccola alzata di spalle mentre mi guarda e
la bocca le si muove in un sorriso un po’ timido, un po’ storto, bocca secca
per quelle fottute lacrime.
«Ripeto,»
Il sorriso le si modella sul viso come uno stuzzicadenti nella creta. «Mi
dispiace.»
«Che
io sono così splendido da metterti in imbarazzo oppure…»
Mi
picchia. Oddio, mi sta picchiando, pugni contro la pancia ,leggeri, ma almeno
ci prova. Cerco di fermarla mandando a puttane il dolore per la ferita. Non
esiste più.
«Be’?
» Le chiedo fermandole i polsi. «Che cosa ti dispiace? »
«Di
non averti fatto sbranare la faccia. »
«Manca
qualcosa. »
«La
tua splendida faccia! Contento? » mi chiede, e i suoi occhi azzurri sono
umidi di quella che sembra una sensazione che può esistere solo qui.
Avvicino
il mio viso al suo. Pericolo. Lucette che lampeggiano. Il cuore può
finire graffiato, qui. «Mai abbastanza.»
Lei
si guarda le scarpe e passa una ciocca di capelli dietro le orecchie.
Le
parlo all’orecchio. «Secondo te, per questo infortunio posso non fare qualcosa
che non sia educazione fisica? »
Ride
piano, fa segno di sì, e poi parla, un po’ sottovoce.
«Davvero
non sapevi niente?»
Carte
di papà. Lui che le porta via, lui che non mi guarda. La foto di Sarah. Soggetto
pericoloso.
«No,
niente,» mento. Mi sembra necessario, mi sembra l’unico modo per non andare a
sporcare con il fango della mia vita quel poco che l’ha portata a fidarsi di
me. E so che è sbagliato, so che così non faccio altro che farle credere
qualcosa che non è. Non sono un bravo ragazzo.
«Su
internet trovi di tutto,» sussurra.
Non mi interessa di
quello che dice internet.
«A
me interessa quello che mi dici tu.»
Sospira.
Scuote la testa, i suoi capelli mi sfiorano, mi fanno il solletico, voglio
soltanto farti stendere su questo divano e toglierti i capelli dagli occhi con
i baci, stringerli fra le mani così.
«Ti…
è successo prima?» le chiedo. Mi lecco le labbra, piano, aspetto, devo
ascoltarla. Che cosa mi succede? Perché
non riesco a controllare nemmeno quel mezzo fottuto neurone che mi sta in
testa? Quel mezzo fottuto neurone è programmato solo per pensare a lei.
Inclina
la testa, posa il mento sulla mano, si accoccola su se stessa.
«Ma
se non vuoi dirmelo…» continuo.
«Non
mi piace fare pena alle persone… preferisco essere invisibile.»
Sento
il mio viso muoversi in un sorriso leggermente accennato.
Io
ti vedrò sempre.
La
circondo con le braccia e so che può andare bene anche così. Può andare bene
senza un bacio. Senza le luci spente. Senza la musica alta per non far sentire
che cosa succede. Va bene in questo strano silenzio che c’è quando sono solo.
Ma ora non sono solo.
I suoi occhi sembrano più grandi, mentre si stringe la mani in grembo e le sue labbra si socchiudono, piano, a raccontarmi questa storia. «Avevo cinque anni...»
Sei
la bambina piccola del sogno. Quella della strada pericolosa e che cresce lì,
su quell’asfalto, con il rumore di un camion che può investirti da un momento
all’altro.
I
tuoi occhi sono gli stessi di quel giorno? Sono gli stessi che vedo
adesso?
Vita
stretta, maglietta un po' scollata, capelli lisci, disordinati.
Diciassette
anni, Sarah, luce, paura. Le tue lacrime. Le tue urla. Il tuo dolore. Mani fra
i capelli, occhi rossi, labbra bagnate.
«Tu
non sai se è morta, vero? Nessuno te l'ha mai detto.» Glielo dico dopo che ho
tremato insieme a lei.
«Non
lo so.» Non piange, anche se trema come se avesse freddo. «Non mi hanno detto
niente ed io non ho mai chiesto. Mi hanno solo fatto fare tantissimi controlli…
dottori e dottori e dottori e analisi e… poi ho cambiato scuola e non l’ho più
vista.»
Mi
passo una mano fra i capelli. Devo fare qualcosa. Devo capire. Non è possibile
che sia finito tutto quel giorno.
«Quella
bambina, quella che ti ha strappato il disegno, si chiamava…»
«Julia,»
finisce lei per me.
Mi
alzo dal divano e prendo il cellulare dalla tasca. «Ricordi il suo cognome?»
«Perché?»
«Per
cercarla.»
***
Sospiro.
Seduta su questo divano in pelle troppo lussuoso, per me, per un giorno come
tanti. Anche se da quando ho conosciuto Martin nessun giorno è come gli altri.
Julia. Capelli rossi e ricci. Julia. Matite e caramelle.
L’ho
uccisa?
Martin
dice che devo essere io dargli il via per fare qualcosa. La verità è che devo
sentirmi pronta per saperlo. Tutte le volte in cui ho fatto del male a qualcuno
mi hanno allontanato, e io ho sempre avuto paura di sapere. Eppure, il fatto di sperare che Julia stia bene, mi fa
sentire meglio.
La
speranza.
«Davvero
mi aiuterai?» Martin si siede accanto a me e abbassa il volume della
televisione. Mi ha fatto vedere tutta la casa: i due bagni, le stanze degli
ospiti, la palestra personale, la sala giochi. Non capisco tutto questo
benessere, lui ci butta un occhio scocciato. Io sono solo e sempre più
sorpresa.
«Ti
ho mai detto cazzate? »
«Tante.»
Ride, manda indietro la testa e mi sento tremare, ancora una volta.
«Sei
impossibile, Sar.»
Sento
che il suo sguardo mi fa male, spinge a fondo in ogni cosa che trova, pelle e
questo cuore che mi batte all’impazzata nel petto. Perché è la persona più
vicina a me che io abbia mai incontrato. Perché mi era vicino ancora prima di
chiedermi stai bene. Perché il suo
parlarmi sembrava una conseguenza al fatto che esistesse ed esistessi io. Io
che esisto.
«E
sei diventata tutta rossa.»
«Non
riesco a evitarlo.»
«Vediamo.»Un
sorriso gli attraversa il viso ed io mi aggrappo alla speranza che quello che è
successo non influenzi quello che si sta costruendo – tasselli, colla e mani
che premono – fra di noi. Si avvicina ancora di più. «Mi piace quando fai così.
»
«Così
come?»
Spalanca
gli occhi e si porta le mani alla bocca, e solo così capisco che quella sono io
sulla sua splendida faccia.
«Mi
stai imitando!»
«Ci
sono riuscito? Ecco, questa è la tua faccia sorpresa. »
«Martin…»
Rido, e quando mi avvolge con le sue braccia, le gambe che tremano e il cuore
che si scioglie in tanti piccoli battiti non riescono a fermare questa
travolgente ondata che assomiglia alla felicità.
E
un po’ alla paura.
«Rischio
qualcosa se ti sono così vicino?» Mi sfiora la guancia con il naso e sento come
se improvvisamente avessi a pieno la coscienza delle mie sensazioni, il freddo
del muro contro la mia nuca, le mani calde e ruvide di Martin, il suo respiro
che mi scivola addosso quasi fosse acqua.
«Non
so fino a che punto.»
«Sono
curioso.»
Me
lo soffia sul viso come una ventata calda.
E
poi chiudo gli occhi.
Sento
lo stomaco contrarsi, mentre socchiudo le labbra – le sue labbra, le sue
labbra, le sue labbra –, mi preme le mani sulla schiena, mi sfiora la
pelle. La sua lingua tocca la mia e sospiro, mi aggrappo ai suoi capelli. Non
posso crederci. Mi aggrappo alle sue spalle. Non posso crederci. Apro di più la
bocca, le sue dita sulla mia guancia, il suo respiro nella mia gola, a darmi
aria e a togliermela nello stesso momento. E poi si stacca da me, mi accorgo di
aver intrecciato le mie mani alle sue e lo guardo.
Ha
la bocca rossa e morbida e gli occhi umidi.
Ed io mi accorgo di volerne ancora.
*
*
*
*
Innanzitutto grazie a Noemi che mi ha betato il capitolo. Passate a leggere le sue storie, sono bellissime <3 . <3 Qui trovate il suo profilo <3 In particolare date un'occhiata a tutte le sue storie su Embry e Klaus e... insomma, ne troverete per tutti i gusti! <3
Per il resto... nell'ultima parte ho pensato "Martin! Metti la bocca a posto! No, non è quello il posto! Metti le mani a posto! Non è quello il posto!" Secondo voi mi ha ascoltato? Certo che no... e alla fine l'ha baciata contro la mia volontà XDXD
Comunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto e spero che la storia riesca a coinvolgervi. Tra l'altro, mi scuso con tutta me stessa per non aver risposto alle vostre splendide recensioni *______* siete meravigliosi, non saprei che fare senza di voi... però ho pensato che, visto il tempo che scarseggia, l'alternativa era aggiornare o rispondere alle recensioni. Visto che sono passate due settimane (spero che vi abbia fatto piacere) ho deciso di aggiornare.
Grazie per aver letto e spero che mi facciate sapere il vostro importante parere!
Grazie mille <3 Grazie anche a chi segue, preferisce e ricorda la storia <3
Un bacione