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Autore: Loda    24/02/2013    4 recensioni
Se non ti guardi allo specchio, non lo vedi che stai piangendo. Ma le lacrime ne hanno anche un altro di riflesso, che è tutto interiore, ed è più crudele di esse stesse, infinitamente.
Si tratta del sangue.
"Non si tratta di essere buoni o cattivi, non si è mai trattato di questo. Ci sono solo epoche da attraversare, scelte da compiere e personalità che crescono. Nessuno vive così poco da non cambiare volto nemmeno una volta"
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 22
CAPITOLO XXII
DIDONE
 
 
 
Eliza si raggomitolò su un fianco, cercando il sonno che non ne voleva sapere di venire da lei. Era parecchio stanca, ma l’agitazione la tormentava, come la paura, la paura di quello che sarebbe potuto accadere, o la paura di incontrare Ralph nei suoi sogni crudeli.
Nonostante fosse estate – doveva essere luglio, sì, credeva di sì, o forse era già agosto – quella casa era fredda, come pure quel letto su cui era stesa. Vestita con gli stessi abiti che portava da intere giornate, sentiva il suo stesso odore, e non lo sopportava più. Si sentiva sudata, appiccicosa, ma continuava a stare sotto quella ruvida coperta, fredda anch’essa, per sentirsi più protetta. Il cuscino era sempre bagnato, perché non la smetteva mai di piangere.
Le era stato concesso di dormire intere notti, ora che era incinta. Le era stata data una stanza con bagno. C’era anche un armadio, forse era pieno di vestiti, ma Eliza non l’aveva ancora aperto. Avrebbe voluto cambiarsi, farsi un bagno ma il solo pensiero di spogliarsi la ripugnava. Vedere i graffi che aveva sul corpo l’avrebbe fatta vomitare. Ricordarsi quello che aveva fatto l’avrebbe sciolta in lacrime feroci.
Cosa direbbe Ralph?
Eppure neanche ce l’aveva con Russell. Non voleva morire, come non lo voleva lei. Del resto anche lui aveva dei figli… Avrebbe voluto parlare con lui, magari piangere insieme, mostrare racconti di vita. Ma no, lui le si era avvinghiato addosso, come se aggrapparsi a lei avesse significato aggrapparsi alla vita. L’aveva stretta con tutte le sue forze ed Eliza neanche lo voleva quel figlio che lui le aveva forzatamente messo in grembo. Non odiava Russell, come non avrebbe mai potuto odiare la creatura che stava crescendo dentro di lei. Ma quel bambino che sarebbe nato, di lui, che ne sarebbe stato?
Eliza emise un lungo singhiozzo, cercando di calmarsi. A Charlene non aveva detto niente. Cosa le avrebbe potuto dire? Che avrebbe avuto un fratellino? E gliel’avrebbe detto piangendo? Quale destino avrebbero avuto Charlene e suo fratello?
Eliza pianse più forte, desiderando di avere sua figlia vicino a sé. Ma Charlene dormiva in un’altra stanza. Anche a lei era concesso di dormire qualche ora di notte.
Eliza inspirò a fondo. Doveva resistere. Appena sarebbe stata l’alba, sarebbe andata nella stanza della figlia, e sarebbero state insieme tutto il giorno. Non era pensabile cercare di fuggire durante il giorno. Porte e finestre erano serrate. Non venivano mai aperte e l’odore che respiravano era sempre peggiore.
Inoltre non conveniva loro scappare. Quanto mai sarebbero potuto andare lontano? Al calar del sole, i vampiri le avrebbero trovate in un lampo. E forse sarebbero stati con loro meno clementi, soprattutto con Charlene, alla quale non avevano ancora torto nemmeno un capello… Eliza non poteva rischiare, non poteva. Per quanto lei soffrisse, se Charlene stava bene… Le lacrime si fecero più insistenti ed Eliza sentì il cuore che le rimbalzava violentemente nel petto. Si premette una mano sopra, in prossimità del cuore, respirando piano. Si stava prendendo in giro, ecco cosa stava facendo. Charlene non stava bene ed Eliza l’avrebbe fatta rimanere lì, in balia di quei pazzi, a vedere quell’orrore, per quanto?! Solo perché lei, Eliza, era troppo codarda e non riusciva a pensare a come poter fuggire… Pianse ancora più forte e il suo pianto si fece disperato. Ogni parte del suo corpo tremava e lei capì che non avrebbe mai trovato il sonno, perché non avrebbe mai trovato pace.
Si premette una mano sulla bocca quando arrivò la nausea. Levò la coperta e si alzò di scatto. A piedi nudi corse sul pavimento e raggiunse la porta del bagno. L’aprì, accese la smunta luce di una lampada appoggiata su un mobile e si precipitò sul gabinetto. La nausea la vinse e lei continuò a piangere mentre il fluido rigetto la svuotava, e la faceva sentire debole. Continuava a rimettere, e lo faceva volentieri, come se volesse espellere qualcosa di terribile, come se volesse vomitare il bambino stesso, come se, per lui, finire dentro a un gabinetto sporco fosse un miglior destino di quello che avrebbe atteso se avesse potuto crescere. Eliza ne era ancora  convinta quando la nausea si placò, e lei tornò a respirare regolarmente. Afferrò il rotolo di carta igienica dal pavimento e si pulì la bocca. Sputò, più volte, ancora, sputò sempre più rabbiosamente. Si pulì di nuovo, lanciò il rotolo di carta per terra e debolmente si alzò. La testa le girava, le mattonelle bianche del pavimento erano sporche, la carta igienica correva su di esse, finché non sbatté contro la parete e lei stessa sbatté col fianco contro il lavandino. Con le mani si appoggiò su di esso e alzò lo sguardo verso lo specchio vecchio e graffiato. Emise un verso quando si vide, neanche sapeva se per spavento o per disgusto. Aveva le guance quasi incavate, gli occhi piccoli e attraversati da mille venature rosse avevano perso il loro pallido color palude, quasi grigio, inghiottito da due grandi pupille che tentavano di orientarsi. Per la sua opaca vista i contorni del suo viso non erano così definiti e il bianco della sua pelle, che mai era stato così bianco, pareva uscire dalle linee dando un aspetto deforme alla sua faccia, cerea e abbattuta, con perenni goccioline di sudore là sulla fronte, sotto l’attaccatura dei capelli, sporchi e flosci.
Si asciugò il viso, infastidita. Non riusciva neanche a distinguere il caldo dal freddo. Aveva freddo, sempre freddo, eppure sudava, sentiva il sudore ovunque, sotto i pantaloni, sotto le ascelle, nei capelli. Si sentiva così sporca. Avrebbe dovuto davvero farsi un bagno.
Si era quasi decisa a sfilarsi i pantaloni quando sentì dei passi e trattenne il fiato, in allerta. Ma i passi erano al di fuori della sua camera, avrebbe potuto ignorarli. E se stessero andando, quei passi, nella camera di Charlene? Cosa le volevano fare?
Eliza uscì dal bagno e controllò l’orologio appeso alla parete. Segnava le tre del mattino. Strano, di solito a quell’ora i vampiri erano fuori casa, a… Eliza inspirò a fondo, senza volerci pensare a quello che facevano. Si avvicinò alla porta chiusa della camera e premette l’orecchio contro il legno.
Una porta si stava aprendo, scricchiolando in maniera sinistra. Una voce concitata seguì subito dopo ed Eliza riconobbe il suo proprietario: Russell. Senza vergogna, la donna emise un sospiro di sollievo. Non era la camera di Charlene quella in cui qualcuno era entrato.
Ma subito dopo l’espressione sollevata che sentiva di avere sul volto si tramutò in un muto grido d’orrore, quando sentì Russell urlare, forte, così forte che lei si allontanò dalla porta e le lacrime ripresero ad scorrere, questa volta più debolmente, timorose e sconvolte.
Poi il tonfo di un corpo morto che cade ed Eliza si premette una mano sulla bocca, per non emettere alcun suono.
Il suo corpo riprese a tremare mentre senza alcun motivo si dava della stupida. Stupida perché aveva creduto di uscire viva da lì? Stupida perché pensava che almeno quel figlio che teneva in grembo avrebbe conosciuto suo padre, al contrario di Charlene? Stupida perché pensava che Kaeso l’avrebbe lasciato vivere Russell?!
Dopotutto aveva già fatto quello che doveva… Russell non aveva più scopo. Eliza capì che finché fosse stata utile sarebbe stata viva. Provò vergogna di sé subito dopo perché pensava a se stessa mentre un uomo veniva privato del suo sangue, ucciso e sfigurato. Ma Charlene… Charlene a cosa poteva servire? L’avrebbero uccisa prima o poi? O avrebbero aspettato che crescesse per trasformarla? Oppure per farle vivere lo stesso tormento di sua madre? Eliza non riuscì più ad alzarsi dal pavimento quella notte e pianse silenziosamente, rannicchiata contro la parete. Avrebbe aspettato il sole. Forse col sole avrebbe trovato un po’ di pace, e sarebbe riuscita a dormire, magari abbracciata a sua figlia. La sola cosa che poteva fare per lei, farla sentire amata.
 
*
 
 
Acilia si procurava valanghe di manoscritti, Viridio neanche sapeva perché. I rotoli di pergamena, poggiati alla rinfusa sul pavimento, regnavano, nel caos e nell’odore pregnante dell’inchiostro.
Viridio stava leggendo con interesse le Heroides di Ovidio. Perché mai Acilia avrebbe dovuto leggere epistole così piene di pathos e dramma? Erano lettere di donne, le eroine dei miti greci, che piangevano per i loro uomini lontani. A volte era questo che Viridio vedeva in Acilia, un’eroina di un mito. La tunica bianca, la stola colorata, i capelli lisci e lunghi che volavano col vento, incorniciandole il viso cereo, con quei smeraldi incastonati. Poi il rosso schizzava quel magnifico quadro e la dea cadeva giù in un dirupo fatto di violenza e morte… Viridio smise di leggere e socchiuse gli occhi.
Poggiò il volume aperto di Ovidio sul tavolo e dondolò su se stesso, seduto sul materasso.
Buttò l’occhio sulla pergamena del volume, pensando a quanto fosse costosa. Non ne aveva mai avuto neanche un pezzetto in vita sua. Il suo sguardò incappò nella parola Didone, che scriveva… A chi poteva scrivere? Viridio si concentrò, aveva già sentito quel nome. Ah, ma certo! Ne aveva parlato Virgilio. Viridio aveva letto l’Eneide solo a tratti, era un latino così diverso da quello che lui era abituato ad usare, troppa difficoltà gli aveva privato la lettura di un’opera che, a detta di Acilia, era magnifica. Però aveva letto la storia d’amore tra Didone ed Enea, la ricordava.
Si alzò in piedi ed avanzò verso la parte opposta del tavolo. Ecco la copia dell’Eneide. Viridio prese il quarto volume e sfogliò qualche carta, nostalgico. A volte pensava che quella vita che ora conduceva non era così male. Finalmente aveva il tempo per cose per cui non lo avrebbe mai avuto il tempo, né la possibilità, nella vita precedente. Erano cose che neanche conosceva prima, e lo affascinavano. A volte mentre leggeva dimenticava tutto il resto, si ritrovava immerso tra le parole, e il sangue che aveva fatto scorrere lui stesso non aveva più importanza, e lui si commuoveva per il sangue che altri avevano versato nella storia…
 
Si mihi mon animo fixum immotumque sederet
Ne cui me vinclo vellem sociare iugali…
 
[Se non avessi deciso nel mio cuore irrevocabilmente di non legarmi mai più a nessuno col vincolo coniugale]
 
Viridio trattenne il fiato quando lesse vinclo iugali. Ricordava i baci di Acilia, i suoi sussurri, le sue carezze… Non erano dolci come quelli dell’amore che ricordava.
 
Postquam primus amor deceptam morte fefellit;
 
[da quando il primo amore mi tradì con la morte]
 
Viridio sentì la presa delle sue mani attorno al volume farsi più forte, mentre le macchie di sangue scivolavano via, Acilia scivolava via, tutto scivolava via e lasciava vedere, intatta e immacolata, un’altra figura. Piccola ed esile, così graziosa, lunghi capelli castani…
 
Ille meos, primum qui me sibi iunxit, amores
Abstulit; ille habeat secum servetque sepulchro.
 
[Il mio amore se l’è portato via l’uomo che mi ha legata per primo a sè, e lui lo conserverà per sempre nella sua tomba]
 
Viridio sentì esplodere qualcosa dentro di sé ma all’esterno uscì solo un flebile suono. Prisca – così si chiamava, vero? – era morta, sepolta da qualche parte… Da sola? Aveva portato con sé l’amore che provava per lui, Viridio, dentro la sua tomba? Sarà per sempre conservata lì dentro la sua – di lui –  antica umanità, il suo antico amore? Quello che era una volta…
E lui invece si era gettato nelle braccia di un’altra donna, come Didone aveva dimenticato il suo primo e unico amore, per lanciarsi su di Enea, che l’aveva solo illusa e tragicamente, portata alla morte…
Il volume di Virgilio cadde dalle mani di Viridio, con un lieve tonfo calpestò il pavimento, ma quel pacato rumore rimbombò all’interno del suo corpo, come se fosse caduto non per terra, ma sul suo cuore, e violentemente.
Che stai facendo, Viridio?
Quanti giorni felici dimenticati, quante promesse distrutte, quanto amore buttato al vento! Per un po’ di sangue… Era come se il sangue gli fosse arrivato al cervello e avesse manomesso tutto, l’avesse fatto impazzire. Quell’angelo dalla veste bianca era solo un demonio, che l’aveva ucciso e poi fatto suo, il tragico destino si vedeva fin dall’inizio, fin dal primo istante, quando aveva visto quegli occhi, di un verde folle, che gli avevano tolto la vita, e l’onore…
Prisca reclamava il suo spazio, reclamava a gran voce l’uomo che le era stato portato via, reclamava una dolce zona nella sua mente, per lei, per i suoi ricordi, di lei e di Iulia.
Viridio nascose il volto nelle mani. Non ricordava più la voce della sua bambina, la sua risata, niente.
Aveva in mente solo i suoi occhi, blu. Come il mare… Digrignò i denti, inconsapevolmente. Li ricordava a fatica, quegli occhi. Erano uguali a quelli suoi, lo sapeva, ma non poteva più vederli, neanche quello gli era rimasto. Non poteva guardarsi perché non aveva più un riflesso, non poteva più ritrovare nella sua immagine gli occhi di sua figlia…
Come il mare…
Più tentava di riacciuffare il ricordo sbiadito di quei blu occhi, più la voce di Acilia gli entrava nella testa, quel sussurro, così fastidioso… Non poteva neanche riesumare i cocci della sua vita perduta senza che quella sua voce, quel suo bisbiglio, limpido, irritante ma così inspiegabilmente suadente gli perforasse il cervello, gli rimbombasse nella mente, cancellando tutto il resto, distruggendo i suoi ricordi, dolci e lontani. 
Come il mare…
Un mare di cadaveri, un mare di sangue che scorreva incessante, e un mare di piacere, che lui stesso aveva provato…
“Kaeso, stai bene?”.
Quanto odio questo nome!
Viridio riemerse dalle proprie mani. La porta della casa era aperta, Acilia era sulla soglia, intagliata perfettamente nella notte, al chiaro di luna.
Viridio, pensò, mi chiamo Viridio. Ma non disse niente.
Non meritava più quel nome che avevano pronunciato tutti i suoi cari. Viridio non esisteva più, Prisca stessa l’aveva seppellito, Iulia chissà quanto aveva pianto per la sua morte! Non c’era più Viridio, esisteva solo Kaeso e sarebbe esistito per sempre solo Kaeso… Che non era più lui, che era un mostro e basta.
“Kaeso?” insistette Acilia, squadrandolo. Entrò in casa e chiuse la porta dietro di sé. “A che pensi?”.
Ancora Viridio non rispose.
“Me lo puoi dire a cosa pensi” disse lei “È normale pensare. Anch’io penso tanto”.
Lui alzò un sopracciglio. Si sentiva arrabbiato. Acilia pretendeva di mettersi sul suo stesso piano? Di capirlo?
“Pensavo alla mia vita passata”.
“Oh, quello” fece Acilia. Si sedette vicino a lui e gli prese la mano “È passato quasi un secolo. Ancora ci pensi?”.
“Tu non ci pensi mai?” ribatté Viridio, con meno collera di quanto avesse voluto.
“No”.
Per un momento Viridio pensò che la ragazza stesse mentendo. Qualcosa nella sua espressione severa e pazza era mutato, ma solo per un istante.
“Beh, io sì” replicò.
“Ci vuole del tempo per lasciarsi tutto alle spalle” fece Acilia, con un tono che sembrava quasi confortante.
“Non basterà mai, il tempo non basterà mai!” sbottò Viridio, alzandosi con uno scatto “Cosa ne vuoi sapere tu?!”.
Anche Acilia si alzò, con la fronte aggrottata e un lampo di rabbia negli occhi.
“Ero umana anch’io, avevo una vita anch’io” disse, con più calma di quella che emanava dallo sguardo. Il suo corpo sembrava tremare, come se si stesse trattenendo, come se stesse sopprimendo… qualcosa.
“Tu non hai avuto figli!” gridò Viridio, senza chiederle nulla, senza voler capire nulla “Tu non puoi capire!”.
Acilia non disse nulla e lui andò avanti, sentendo tutto l’odio che scivolava, mentre la tristezza, quella avanzava crudele, implacabile: “Cerco di ricordarmi il suo dolce viso… Era bellissima, lo sai? Lo so che era bellissima, me lo ricordo… Ma non riesco a… I dettagli del suo volto mi sfuggono via! E sua madre…”. Viridio abbassò lo sguardo, mentre la voce diventava quasi un pigolio “Non voglio dimenticarle… Non voglio che il tempo le elimini…”. Alzò lo sguardo verso di Acilia, ritrovando la rabbia. “Ma finché guarderò te, rivedrò loro” disse, riprendendo il controllo della voce, facendosi velenoso  “Perché sei tu che me le hai portate via!”. E la voce di nuovo si fece tenue, vedendo che Acilia non reagiva, quella sembrò volersi nascondere, e la rabbia così come veniva se ne andava. “Allora… perché le sto già dimenticando? Perché qui ci sei solo tu?!”. Crollò sulle ginocchia, gli occhi fissi sul pavimento, senza volerla guardare quella donna, perché non era vero che se la guardava rivedeva loro, vedeva solo lei, solo lei…
Sentì Acilia che si chinava su di lui, e lo abbracciava. “Ci sono io” ripeté ella “Ci sono solo io… Dimenticarle ti farà bene, non puoi vivere con l’onere dei ricordi della tua vita passata”. Gli prese il volto nelle mani e lui la lasciò fare, completamente succube. “Ti aiuterò io a dimenticarle. Sono l’unica su cui ora puoi contare”. Gli diede un bacio ma lui si ribellò. Indietreggiò ma non poté evitare di guardarla, quella megera, così bella.
Era vero, solo su lei poteva contare. Ed era vero che anche lei era stata umana. Lo poteva davvero capire, forse…
Lei si riavvicinò a lui, paziente. “Non puoi fare altro” disse “Non c’è altra via d’uscita”. Glielo diceva spesso, sempre. Non c’è via d’uscita. “Possiamo solo affrontare tutto questo insieme, io e te”. Gli riprese le labbra e gli circondò il collo con le braccia.
Lui, come una stupida Didone consapevole di quel che l’attendeva, ricambiò il bacio. Pensava alle storie d’amore, quella di Didone ed Enea, di tanti altri, di com’erano tragiche, ma così belle da leggere. Prisca apparteneva ad un altro volume, ora c’era Acilia. Poteva plasmare la sua vita, come se fosse un’opera scritta, o teatrale, un’immensa opera d’arte… Acilia diceva sempre che loro erano natura, e la natura era arte, non c’era dubbio. La lingua fredda di lei solleticava la sua, erano entrambe lingue fredde di due cuori che non potevano più battere, se non, metaforicamente, l’uno per l’altra. Sapeva che avrebbe finito di nuovo col fare quello che lei gli diceva, sapeva che avrebbe ucciso ancora, ma il pensiero lo spaventava sempre meno, lo eccitava. A volte tornava lucido, come se riemergesse da un sogno, e cercava di fare mente locale, e quel che ricordava non aveva senso, perché era tutto pregno di sangue. Ma tornava lucido sempre meno volte, sempre meno…
 
Ti devi svegliare.
 
*
 
 
In un primo momento Acilia non riuscì a reagire. Il primo istinto fu quello di fuggire, perché era quello che facevano gli animali, e lei in quel momento era braccata come fosse un animale. Ma Curtis l’aveva sempre guardata come se fosse umana.
La tua espressione è adulta. Troppo sofferta per una ragazza.
Ma era stata tutta finzione.
Perché non mi racconti la tua storia?
Acilia notò uno scintillio nella mano di Curtis, che stringeva l’arma. Era una fede. Si sentiva stupida, davvero.
Si guardava intorno, quei cacciatori l’avevano accerchiata, da dove poteva fuggire? Ma voleva davvero scappare? Farsi prendere non sarebbe stata una gran liberazione?
Buffo, lei che predicava tanto la convivenza… Morire per mano degli umani che lei stessa difendeva…
No, pensò, non è giusto, io non sono malvagia, non merito di essere presa!
Ma cosa stai dicendo? Certo che sei malvagia.
Aveva mille armi puntate addosso.
Che dici? Saranno solo sette.
Erano tanti, tutti contro di lei, tutti arrabbiati con lei, perché lei era qualcosa di sbagliato che andava assolutamente eliminato.
Affrontali! Sono solo umani!
Se l’avessero eliminata milleottocento anni prima… Se non fosse stata trasformata, se si fosse sposata con… Come si chiamava, Vito? Se si fosse sposata con Vito, avesse avuto figlie sfortunate e presuntuosi figli e poi fosse morta, inutile e indignata… Non sarebbe stato meglio che affrontare tutto questo?
Non avresti conosciuto Miguel. O Jacque.
Non sarebbe morto Damiano.
Sarebbe morto comunque. Che differenza fa?
Perché non farla finita?
Non vuoi più rivedere Jacque?!
Sentì uno sparo, poi un altro, seguiti da un lungo eco, o forse era solo nella sua testa perché con un salto spiccò in aria e riuscì a schivare ogni proiettile. Fischi nelle orecchie, visi levati verso di lei, proiettili che arrivavano, urla lontane, lei doveva scappare, scappare…
Un gran dolore alla gamba e lei planò a terra con un grido, sentì la pesantezza del suo corpo poggiarsi sul cemento, un tonfo, graffi sulle mani. Le voci intorno a lei si fecero insistenti ed emozionate, lei si mise seduta di scatto, ignorando la gamba che doleva. Urlando, tentò di estrarre il proiettile che le trafiggeva il polpaccio. Il sangue colava ma non era niente, niente.
“È un vampiro! È un vampiro!” gridava qualcuno.
“Andiamo via!”.
“Corri!”.
“Sì!” sbottò Acilia, allargando le braccia, mentre le auto inchiodavano e le persone scappavano “Sono un terribile vampiro! Uccido tutte le notti! Sono un mostro!”.
Lo sei. Lo sei.
Estrasse le zanne e vide dei ragazzini correre via terrorizzati e in quel momento le attraversarono la mente i visi delle sue vittime.
Lo sei.
Non poteva ricordare quei visi, ma erano fisionomie comuni, facce qualsiasi, e lei avrebbe potuto averli uccisi tutti.
Credeva di essere stata pazza, ma chi le assicurava che non lo fosse ancora?
Dei passi si fecero concitati, i cacciatori la stavano raggiungendo.
Trafelata, si alzò e si mise a correre, più lentamente di quanto avrebbe voluto.
Li sentiva vicini, troppo vicini. Sentiva anche una sirena, nella sua testa… Ma certo, dovevano aver preso la macchina, l’avrebbero raggiunta!
Disperata, accelerò.
“Emily!” sentì la voce di Curtis “Vogliamo solo parlarti, fermati!”.
Parlarmi? È così che si fa? Prima sparano e poi ti dicono che vogliono solo parlarti?
No, prima dici loro qualcosa di carino e poi, a tradimento, li azzanni…
Acilia aumentò il passo, più che poteva, fuggiva da Curtis e fuggiva dal suo passato. Entrambi la volevano prendere, catturare, fare a pezzi…
Basta, Kaeso, smettila, finiamola, non voglio più, non voglio più…
L’aria, così potente, la colpiva sul viso. A quella velocità non l’avrebbero presa.
Ti devi svegliare. Ti devi svegliare!
Poi sentì ancora degli spari e cadde di nuovo a terra. Si contorse per terra, cercando di capire in che punto l’avessero colpita. Poi si mise sulle ginocchia, ansimando, e scorse la figura di Curtis, sempre più vicina.
 
 
 
I morti sono otto, i feriti tredici, dei dieci cacciatori sopraggiunti ne sono sopravvissuti…”
Emily vide le spalle di sua madre fremere e contemporaneamente un tonfo sonante le fece capire che una stoviglia le era scivolata dalle mani, sul fondo del lavello.
Senza dire nulla, continuò ad asciugare le pentole, una dopo l’altra, poggiandolo sul tavolo in perfetto ordine, inutilmente, dato che poi avrebbe dovuto riporle al loro posto. Dopo un po’ notò che anche a lei tremavano le mani.
Lanciò uno sguardo alla piccola televisione accesa riposta sul mobile di fronte alla tavola. Pensò di spegnerla ma alla fine a cosa sarebbe servito? Le cose succedevano comunque, tanto valeva saperle, ed essere preparati.
Jacque ed Eike, arrivati dopo cena, erano nel salotto, e lei stava lì, in cucina, ad asciugare stoviglie. Era assurdo, e tragico.
“Lydia allora è tornata a casa sua?” fece la voce di sua madre.
Emily ne scrutò la schiena larga e curva.
“Sta cercando Sam” rispose, tristemente. Quella mattina Lydia si era precipitata a casa, e non l’aveva trovato. Lei, Emily, era andata a lavoro, se no l’avrebbe aiutata a cercarlo, avrebbe fatto qualcosa…
“Ma adesso è buio” fece sua madre.
Emily non ne vedeva l’espressione e per un momento la detestò, insensatamente. La detestava perché aveva paura? E per la prima volta aveva davvero paura anche lei? Là fuori era il caos e Jacque non avrebbe potuto fare niente per salvarla. Sarebbe morto anche lui forse, e lei stessa, e i suoi genitori, e Lydia si sarebbe cacciata nei guai, per cercare Sam… Dove diavolo era finito?! Sui giornali e alla televisione avevano elencato i nomi dei morti ma il suo non c’era. Dov’era il suo corpo? Perché ormai non ci sperava più che fosse vivo. Poggiò lo strofinaccio sul tavolo, sentendo che stava per esplodere.
Doveva chiamare Lydia di nuovo, farla ragionare. Ma a che scopo, lo sapeva anche lei che non si sarebbe data pace finché non avesse trovato Sam. L’amore era forte, tumultuoso, ti annebbiava il cervello ma ti infondeva coraggio. Emily neanche poteva immaginare quello che legava Lydia e Sam, neanche lontanamente.
Per quanto si sforzasse di non pensare a Jacque, non poteva, non…
“Emi, mi ascolti?”.
Emily riemerse dai propri pensieri e la prima cosa che vide fu il suo riflesso opaco e distorto su una pentola. Si voltò e vide il viso di sua madre, aggrottato, che la guardava. “Fai venire Lydia qui”.
E quello che significava? Quello sguardo? Un ordine?
“Ci ho provato” rispose, quasi sussurrando. Si sentiva arrabbiata, eppure la voce era fioca.
“Richiamala” insistette l’altra “È fuori, da sola, di notte!”.
“Lo so!” sbottò Emily, ritrovando la voce di colpo. Aveva voglia di buttare all’aria tutte le stoviglie asciugate e poggiate accuratamente sul tavolo – perché?
Sua madre la guardò torva e lei si mise a gridare: “Hai paura, mamma? Ce l’ho anch’io! Ho paura anche per Lydia! Che non trova Sam…”. Le sue stupide grida si sciolsero in lacrime e lei girò la testa di lato, in un vano tentativo di non farsi guardare.
Sentì la madre sussultare.
Jacque era apparso sulla soglia della cucina, imbarazzato, le mani nelle tasche dei pantaloni. Sembrava davvero un teen ager, poco più grande di Michael.
“Va tutto bene?”.
La madre di Emily fece un breve cenno d’assenso col capo e tornò al lavello. La ragazza si asciugò velocemente gli occhi con le mani e si diresse verso di lui, e uscirono dalla cucina.
“Vuoi che vada a cercarla?” domandò Jacque. Si riferiva evidentemente a Lydia.
Sì, digli di sì.
Che gli sarebbe potuto succedere?
Ma non poteva approfittare di lui fino a quel punto, non poteva più farlo.
“Provo a chiamarla di nuovo” rispose infine Emily. Evitava di guardarlo negli occhi, quegli occhi spenti che l’avevano fatta innamorare, perché ora sapeva che quegli occhi non lo erano, spenti. Riflettevano tutta la vitalità di un amore passionale e tormentato, lontano nel tempo ma destinato ad essere eterno, e quell’amore ovviamente non era lei.
“Non mi costa niente andare a cercarla” insistette Jacque.
Smettila, smettila…
Perché le stava così vicino, perché voleva proteggerla, aiutarla? Voleva fare l’eroe, come suo solito? Quando era entrato in casa sua pieno di argento, con le mani lacere… Cosa voleva dimostrare?!
Emily evitò ancora il suo sguardo e afferrò il suo telefono cellulare da una mensola in salotto. Non cercò il numero di Lydia in rubrica ma compose il suo numero, nervosamente, come se volesse prendere tempo.
Ogni volta temeva che lei non rispondesse.
“Ragazzi” li chiamò la voce di Eike, dal divano, lo sguardo fisso sul televisore. Anche la tv del salotto era accesa e il telegiornalista pareva aver cominciato ad elencare un’altra lista di morti.
Emily e Jacque si avvicinarono in fretta. Lei sentiva il proprio cuore battere forte, e la mano si era avvinghiata quasi inconsapevolmente al cellulare. Con l’altra mano avrebbe voluto cercare quella di Jacque, ma non lo fece.
 
In giro per strada non c’era nessuno. La città era un deserto e questo invece di rassicurla, la inquietava. Il cielo si stava rannuvolando, sarebbe arrivato un acquazzone, sicuramente. Ma faceva caldo, l’aria era soffocante lì dentro la sua macchina e il sudore le imperlava la fronte, tuttavia non si sarebbe fermata a riposare. Aveva chiesto di lui in ogni locale e ristorante. Aveva controllato quando si fosse collegato a Facebook l’ultima volta. Aveva chiamato tutti i suoi amici, e quelli di lui. Cos’altro poteva fare? Cosa c’era rimasta da fare?!
 
I nomi erano tanti e il telegiornalista neanche riusciva a mantenere un contegno. Era quello che dovevano fare i telegiornalisti, no? Restare impassibili, essere neutrali qualunque cosa dicessero, avere un’espressione quasi disumana, e usare un linguaggio talmente formale da risultare falso, un sottolinguaggio. Non c’era nulla di tutto questo nel telegiornalista con gli occhiali rettangolari e il mento ispido che Emily aveva di fronte, nulla di freddo e nulla di finto. Era tutto tragicamente vero.
“A Sheffield sono stati identificati i corpi di Herny Mills, ventinove anni. Ian Stevens, trent’anni. Stephanie Knight, quarantotto anni”.
 
Il panico stava prendendo il sopravvento, ma la speranza non l’abbandonava. I vampiri erano crudeli, terribili. Da quando aveva memoria, aveva sempre vissuto in un incubo ma quello era peggio. Non poteva immaginare, non avrebbe potuto mai immaginare! Le cose brutte capitano agli altri, no? Agli altri! A lei non era mai capitato niente, niente…
 
“A Preston. Susan Clark, cinquantadue anni. Aaron Hunt, trentasei anni”.
 
Avrebbe voluto fare la pace con lui. Per che cosa avevano litigato del resto? Neanche se lo ricordava più. Non avrebbe mai più litigato con lui, mai più, per nulla al mondo. Perché lo avrebbe ritrovato, sì, e gli avrebbe detto che lo amava.
 
“A Bristol. Nick Powell, ventun anni. Jonette Mitchell, quarantaquattro anni. E le figlie Betsy Russell, sedici anni; Valerie Russell, tredici anni. Il marito è disperso”.
 
Gli avrebbe detto che l’amava, e l’avrebbe baciato, l’avrebbe abbracciato, stretto, e mai più lasciato andare…
 
“A Horfield. Julyan Smith, trentacinque anni. Pamela Price, ventiquattro anni. Sam Jenkins, ventotto anni”.
 
D’altronde, come avrebbe potuto esserci un mondo senza di lui?
 
Il cuore di Emily saltò un battito. Forse stava per cadere, perché si ritrovò il braccio di Jacque dietro la schiena. Quel contatto così freddo… Lo stesso che aveva ucciso Sam… La stanza sembrava girare e d’improvviso lei avvertì la nausea. Il telegiornalista con gli occhiali appariva tremendamente sfuocato, e la sua voce non la sentiva più. Indietreggiò di qualche passo e si sedette sul divano, delicatamente. Aveva ancora il cellulare nella stretta mortale della sua mano.
“Devo chiamare Lydia” disse, con una voce che neanche pareva più la sua “Devo dirle che ora può tornare a casa”.
Avrebbe risposto, vero?
Sentì la voce di Jacque, ma lui, lei non lo voleva ancora guardare in faccia. “Chiamala. Chiamala subito”.
Come poteva riferire una cosa del genere?
Tuttavia la paura di veder scomparire anche lei ebbe la precedenza.
Ma se poi Lydia avesse fatto qualche cazzata?
“Emily” fece Jacque, quasi leggendole nel pensiero “Non dirle nulla, fatti solo dire dove si trova. La vado a prendere”.
La doveva chiamare davvero, allora. Gliel’avrebbe detto davvero, allora.
Era successo davvero, allora.
Emily premette finalmente il tasto di chiamata.
Eppure lo sapeva già che Sam doveva essere morto.
Ma la speranza talvolta ti si attacca come una malattia fastidiosa, diventa una condanna, e tu non puoi fare altro che aspettare.
 
Se ancora sperava così tanto, perché non riusciva a frenare le lacrime?
 
 
 
Era quasi fatta, il vampiro era a terra, con un colpo alla gamba, un altro all’addome, schizzato di sangue. Il prossimo colpo sarebbe arrivato nel profondo del suo cuore, e poi sarebbe esploso.
Curtis, ansante e sudato, indossava un apposito giubbotto imbottito che avrebbe attutito il penetrare dei denti. Aveva caldo, ma sporadiche gocce di pioggia già cominciavano a cadere e l’avrebbero rinfrescato.
Del resto era solo una misera protezione quella che aveva addosso. Se si fosse presentato corazzato, il vampiro donna sarebbe fuggito subito.
I suoi compagni stavano arrivando, erano appesantiti dalle protezioni e dal casco, e lui era stato più veloce. Forse era anche perché voleva ucciderla lui stesso? Strano, non aveva nessuna voglia di ucciderla. Forse era proprio il contrario, forse voleva salvarla. Tutte quelle sere in cui si erano visti, perché lei non gli aveva mai fatto del male?
Emily – chissà qual era il suo vero nome – si stava guardando atterrita il corpo. Aveva un’espressione spaventata, un’espressione che non le si addiceva, a lei che mostrava così tanta saggezza in un viso fanciullesco. Ora sembrava davvero una ragazzina e sparare sarebbe stato più difficile.
È un vampiro, che aspetti?
Era il suo lavoro. Se avesse ucciso un vampiro avrebbe meritato un po’ di riposo, sarebbe potuto stare con Karen e i bambini. Quelli erano tempi brutti, Karen aveva sempre più paura che lui morisse e li abbandonasse. L’ammirazione che lei provava per il sogno di lui, quando erano ragazzi, si era trasformata in una cieca e rabbiosa paura, ma lui continuava ad amarla. Del resto, se credeva nel suo lavoro era perché voleva proteggerla, proteggere i gemelli e tutte le famiglie, e tutti i bambini. Da quelli come lei.
Devi sparare.
Aveva già ucciso dei vampiri, ma lei era diversa.
Non ho niente che non va, davvero. Mi dispiace se sono di pessima compagnia, ho dei… problemi.
Avrebbero potuto parlare ancora, e lui avrebbe potuto scoprire cose che non sapeva e che non aveva mai voluto sapere sui vampiri. Ricordò il disegno che Sally aveva fatto quello stesso giorno.
Sarebbe bello, aveva detto.
Emily era inerme. Indietreggiava strisciante e lui aveva la pistola puntata contro il suo petto.
Spara. Devi sparare!
Le gocce di pioggia stavano aumentando la loro frequenza, cadevano sul vampiro, si mescolavano col sangue. Precipitavano sul suo volto, e lui pensò alle lacrime. Karen forse stava piangendo, aspettando il suo ritorno, pregando che tornasse… Non poteva più farla piangere, non poteva più farla attendere!
Spinse il braccio ancora più avanti, pronto a sparare. Ma Emily, con quello che pareva uno sforzo enorme, fece un balzo improvviso verso di lui e gli afferrò il collo con le mani. Curtis lanciò un grido e la sua pistola sparò, a vuoto. Sentiva le unghie di lei ferirgli il collo e si dimenava con tutto il corpo, disperatamente. L’immagine di Karen che piangeva era sempre più vivida dentro di lui, dentro al suo cuore.
Gridava e gridò più forte quando sentì i denti di lei perforargli il collo.
Adesso arrivano gli altri, si diceva, adesso arrivano gli altri… Ma quanto erano rimasti indietro?! Sentiva il sangue uscire, insieme alle sue forze, e la vista stava sparendo e tutto gli veniva risucchiato via, l’anima gli veniva portata via, con il terribile morso di un animale che aveva paura di morire, mentre la pioggia, facendosi più insistente, gli picchiava la testa, fresca, unico suo sollievo.
Il suo stesso grido dopo poco si placò, neanche l’aveva più la forza per urlare. Rimpiangeva di aver dedicato tutto se stesso al lavoro, di non essersi sforzato di più con Karen.
Ma torni?
Certo, Sally, certo che torno… 
Non sapeva dire se la vista l’aveva abbandonato o se invece erano le sue palpebre che si erano chiuse, ma era tutto tremendamente buio, e freddo. Non sentiva più il sangue scivolare giù per la sua gola, non sentiva più le gocce di pioggia che gli bagnavano le guance, come fossero le lacrime che non aveva fatto in tempo a versare. Non gli sembrava neanche più di avere un corpo, a dire il vero.
Ma Selwyin lo guardava ancora torvo e la risata infantile di Sally si era trasformata in una risata maligna, e lui non trovava alcun conforto, alcuna serenità, alcuna pace, nella morte…
 
 
 
Acilia correva tra gli alberi del bosco. Non era riuscita a fermarsi perché era ferita. Non era riuscita a fermarsi perché se non avesse bevuto tutto il sangue di Curtis, non avrebbe potuto più correre veloce e gli altri cacciatori l’avrebbero presa. Non era riuscita a fermarsi perché non voleva. E lei, maledetta, continuava a voler vivere!
Dove sarebbe potuta andare ora?
Non importava, se continuava a correre non l’avrebbero catturata. Bastava solo continuare a correre.
La sua mente era attraversata da sangue, solo sangue, lei aveva ucciso ancora, un innocente, lei che avrebbe tanto voluto avere un dialogo con i cacciatori! L’aveva avuto sotto il naso tutto quel tempo, un cacciatore, quante cose avrebbe potuto dirgli!
Ma lui non ti avrebbe ascoltato, lui ti voleva uccidere…
Si era difesa, l’aveva sempre fatto, no? Continuava a difendersi, invece di sparire nell’orrore che aveva fatto tanto tempo prima, che era lontano, ma era lì, sempre lì… Continuava a difendersi e a difendere la sua sporca razza inseguendo un sogno impossibile!
Parlare con Curtis? Fargli capire – e far capire a tutti gli umani – che lei era buona? Lui le aveva puntato una pistola addosso, e lei l’aveva ucciso. Era questa la realtà.
La pioggia si era fatta violenta e ogni goccia la infastidiva. Tutta quell’acqua sul suo viso, le sue finte lacrime, non la voleva.
Pensò che sarebbe stato meglio farla finita, morire, farsi catturare. Ma farsi catturare sarebbe stato un po’ come arrendersi. Lei non credeva più in nulla ma arrendersi non l’avrebbe mai fatto.
Ma allora non era vero che non voleva morire, semplicemente non voleva che qualcun altro lo decidesse per lei, che era giunto il tempo di morire.
Però è giunto da tanto tempo…
Continuava a correre, accogliendo quel pensiero, e poi subito ricacciandolo, ritornello e strofa, l’uno sempre lo stesso e l’altra sempre diversa. Le motivazioni per cui non voleva morire erano diverse, e si rincorrevano pietose, ma il chiodo fisso, come intermezzo, rimaneva sempre quello. E lei intanto correva, mentre la pioggia puliva le sue ferite, e il fango di nuovo la sporcava, e l’animo rimaneva sempre uguale, nella danza frenetica della sua mente.
Chissà per quanto tempo corse, chissà quanti chilometri aveva percorso, prima che, stanca, si fermasse. Chissà dov’era finita, in un limbo tra l’odio e l’amore, tra il il perdono e il rancore.
Si buttò a terra, dolorosamente, accompagnata dagli schizzi di pioggia, che rimbalzavano sul terreno, e su tutto il suo corpo.
In quel momento, Lyuben che le parlava della decisione più importante della sua vita, le sembrava così surreale.
 
Si portò una mano al petto mentre un’idea che aveva sempre avuto ma che la spaventava troppo tornò a galla nel mare tempestoso della sua mente. Sarebbe rimasta lì, sdraiata tra l’erba e il fango, sotto la pioggia, che l’avrebbe rasserenata e fatta sentire parte della natura. Si sarebbe ricordata le cose belle della vita, avrebbe pensato all’unico uomo che aveva davvero amato e l’avrebbe stretto a sé e l’avrebbe scaldato nel gelo dei suoi ricordi. Finché non fosse venuta l’alba.
Allora avrebbe guardato il sole come se lo vedesse per la prima volta, avrebbe sentito il suo calore accarezzarle la pelle, come il calore dell’amore che non voleva dimenticare.
E poi sarebbe bruciata, all’inferno.
 
Chiuse gli occhi, convinta che non li avrebbe mai più aperti, perché la luce del sole sarebbe stata atrocemente accecante, per una figura buia come lei.
Chiuse gli occhi, e per la prima volta dopo tantissimo tempo pensò solo a respirare.
Contava i suoi respiri. Uno ad uno.










Signore, come vedete il cerchio si è chiuso, l'ultimo pezzo del capitolo era proprio lui, il prologo u.u Quindi.. fine? No, mi spiace :D

Dunque, il titolo del capitolo Didoneè stata un'ispirazione dovuta al fatto che protagoniste indiscusse di questo capitolo sono donne, alle quali volevo dare una vaga aria di eroine tragiche, proprio come quelle delle Heroides che leggeva il nostro simpatico Kaeso XD Infatti ogni donna ha la sua disgrazia: quello disperata di Eliza, quella più banale di Emily che ama Jacque, quella drammatica di Lydia che perde il suo ragazzo e, infine, Acilia, l'apoteosi della tragedia che, proprio come Didone, pensa al suicidio come soluzione. Poi, beh, anche Kaeso si è sentito vicino a Didone ma quel riferimento serviva poi per collegare i vari pezzi :D
(ah sì c'è anche la tragedia di Curtis ç_ç)

Ragazze, vi ringrazio tantissimo perché trovate sempre il modo di lasciarmi una recensione (in alcuni casi.. dei papiri D:) il che significa che almeno un minimo la storia vi ha preso e questo mi rende davvero felice :D
Vi lascio ancora in suspanse (ormai ci ho preso gusto con gli ultimi capitoli, vero?), e vi do appuntamento al prossimo capitolo! Ora come ora sono alle prese con la prima parte di un esame caccoso che di umano ha ben poco eee facendo due conti.. dovrei tornare circa a metà marzo ;)
Au revoir! 
[cit. Jacque]
   
 
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