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Autore: Sophie Isabella Nikolaevna    25/02/2013    1 recensioni
[Fandom: Iliade, Omero]
Atena Glaucopide, la dea dagli occhi azzurri. Il Pelide Achille, eroe fra gli eroi. Un incontro avvenuto per caso e un legame che ben presto, nonostante i divieti e le insidie della guerra, diventerà indispensabile per entrambi, tessendo dietro all'Iliade che tutti conosciamo una rete di segreti. Il cuore solitario di una dea racconterà ciò che per anni ha tenuto segreto: la storia di un amore sofferto, di una guerra in bilico, di un eroe spietato e insieme magnanimo, una seconda Iliade che nessuno ha mai letto.
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 3





Sono una civetta.
Una civetta che volteggia con il Sole, l'ombra ridotta ad un puntino. Sotto di me, le rovine.
Le civette, almeno, non piangono.
Quasi alla mia altezza, su un'altura, oltre le mura distrutte, c'è l'unico palazzo rimasto in piedi. Sontuoso anche nell'abbandono, ha un'aura ancestrale, quasi a voler ricordare antichi tempi di re ed eroi passati. E' davvero trascorso così tanto tempo? Oppure è solo una mia impressione?
Era il palazzo di Priamo.
"Atena".
Non è una voce a chiamarmi. Non è una voce, eppure sento il richiamo, il mio nome. Un pavone volta alto nel cielo poco lontano da me. Un pavone, un uccello di solito incapace di volare.
E' mia madre, mia sorella, la mia migliore amica. Hera.
Entrambe riprendiamo le nostre sembianze umane, facendoci trasportare dall'aria, in una lievissima brezza che nessun umano riuscirebbe a percepire.
"Era da tanto che non facevi visita a questi luoghi, Pallade", mi dice Era prendendomi gentilmente per un braccio con la sua bianca mano. Il suo profilo dritto è intento a scrutare il palazzo abbandonato nella sua decandente magnificenza impregnata di memorie.
"Davvero?", chiedo, in un sussurro. Non potrebbe uscire alcun suono dalla mia gola. Nemmeno l'acuto richiamo della civetta.
"Hai seguito e aiutato Odisseo, che nonostante il tuo prezioso contributo è ancora perso, e non è ancora tornato a Itaca. Sono passati cinque anni dalla Guerra di Troia".
Cinque anni. Che cosa sono cinque anni per una dea? Un granello di polvere, un soffio di piuma. Eppure questi anni sono passati con la pesantezza del piombo. Ho aiutato Odisseo - o meglio, ho
giurato a Odisseo che l'avrei aiutato. Ma egli ora è perso nelle braccia della ninfa Calipso, e io sono ancora persa nei ricordi. Troppo persa per restare là a guardarlo e a mentire a me stessa.
"So che pensi ancora a quell'uomo".
"Non era un uomo", ribatto con un filo di voce. Lui non era un uomo, e io tutto sono, in questo momento, fuorché una divinità. "Era un semidio. Era un eroe".
Hera mi sorride, con lo stesso sorriso circondato da capelli simili a fiamme che fece innamorare il Re degli dei.
"Andiamo". E mi trascina per il braccio in una planata sempre più veloce verso l'entrata divelta di quell'antico palazzo di ricordi dimenticati.

"Perché sei venuta?".
Riaprii gli occhi, e fui quasi accecata.
Quella voce arrivò al mio cuore in mezzo ad una luce sfavillante che a mapalena mi permetteva di vedere. Intravidi dell'oro, dei tendaggi. Un re dall'ego superiore al buonsenso. Stavo sognando?
"Perché sei venuta, figlia di Zeus Egioco? Per vedere la violenza dell'Atride Agamennone?".
Mi riscossi.
Era lì. Il suo sguardo ancora fisso nel mio, esattamente come l'ultima volta, e la fronte aggrottata. Non era quasi invecchiato, solo qualche impercettibile ruga intorno agli occhi...
Il suo polso sinistro era stretto nella mia mano, e mi accorsi di averlo preso per i capelli con l'altra. Immediatamente lo lasciai andare.
"Sono venuta per placare la tua ira", dissi
senza espressività,
come una marionetta. "Mi inviò il messaggero della dea Hera, la quale ha ugualmente a cuore entrambi noi. Togli la mano dalla spada, e offendi il tuo avversario solo con le parole".
"Sei stata lontana per dieci anni, mia signora. Forse, se fossi stata al mio fianco, non si sarebbe arrivati a questo".
Fu come uno schiaffo.
Nessun altro uomo avrebbe osato sfidare una dea, sostenendo il suo sguardo con impertinenza... impertinenza? Così l'avrebbe definita mio padre, o qualunque altra divinità. Ma io potevo immaginare quanto si celava dietro quello sguardo: dieci anni di assedio, di estenuazione, di speranze vane, di disillusione. Dieci anni in cui la dea che gli aveva promesso aiuto non si era più fatta viva.
Aveva ragione, e fui io ad abbassare gli occhi.
"Ne sono consapevole, Achille figlio di Peleo", dissi. "Ma le spiegazioni arriveranno quando sarà il tempo. Ora, riponi l'arma e ascoltami. Riceverai doni tre volte per aver avuto pietà dell'Atride. Trattieniti, dunque, e obbedisci".
"Bisogna rispettare la parola di una dea", rispose Achille a denti stretti. Sentivo il peso del suo sguardo su di me. "Anche nei momenti di rabbia". Poi, si rivolse al suo avversario, mentre io svanivo lentamente. Gli rivolse parole che non volli sentire, e con la mia mente volai alta nel cielo. Il mio corpo, invisibile, era ancora in quella tenda, mentre la mia mente di dea era in altri cieli, altri orizzonti. Il cuore mi stava esplodendo nel petto mentre sentivo le ali piumate della civetta spuntarmi al posto delle braccia, incontrollate. Perché desideravo tanto volare lontano, proprio ora che ero riuscita a rivedere Achille? Il miei occhi di dea della guerra vedevano il rifulgere delle sue armi, incomparabili a quelle degli altri Re. Eppure la mia mente di dea della saggezza aveva bisogno di riflettere, di volare. Se mio padre aveva voluto tenermi lontana da Achille, doveva avere avuto una valida motivazione. Quale avrebbe mai potuto essere? Avrei dovuto chiederglielo, parlargli...
"E' così, Atride! Questo è il mio giuramento solenne: mai più mi vedrete combattere in campo, e anche se un giorno mi rimpiangerete, tu non potrai fare nulla per aiutare l'esercito!", disse Achille con voce tonante gettando a terra lo scettro di bronzo dell'assemblea, con un colpo che mi riportò vertiginosamente alla realtà.
"No!", esclamai mentre Achille si risedeva. Non mi uscì alcun suono. Fu inutile ritentare: non riuscivo a parlare, a muovermi. Una folata di vento, due occhi violacei ammiccarono nella mia mente. Lo riconobbi: era il Fato. A dispetto dei miei poteri divini, non potevo nulla contro di lui. Neanche mio padre avrebbe potuto sfuggire al suo volere. Senza capire niente - quel paio di occhi continuava a fissarmi ed ipnotizzarmi, da qualche parte all'interno della mia testa - camminai barcollando fuori dalla tenda, sotto un cielo che si incupiva di viola. Mi diressi verso un'altra tenda, una tenda che ricordavo perfettamente. Vi entrai, sentendomi spinta da un'enorme mano purpurea. Di fianco ad un giaciglio mi aspettava una statuetta rilucente che mi sembrava di conoscere. Era accanto al cuscino, proprio come un talismano. Il suo riflesso bronzeo si illuminò di viola. Feci appena in tempo a prenderla in mano, sentendo il sudore sulla fronte, prima di accasciarmi su quel letto.

"Hai idea del perché si trovi qui?".
"No, anche se spero sia vero quello che immagino".
"E che cosa immagini?".
Silenzio.
Dove mi trovavo?
Una terribile consapevolezza si fece strada nella mia mente ancora confusa, e mi alzai di scatto.
I due interlocutori si voltarono improvvisamente verso di me. Mentre Achille rimase fermo immobile, l'altro - quello più alto e più maturo, che negli anni avevo scoperto essere suo cugino Patroclo - si inginocchiò:
"Mia signora".
"Patroclo, amico mio", disse Achille, senza distogliere lo sguardo dal mio. "Potresti, per favore, uscire per un poco da questa tenda? Ho bisogno di parlare alla figlia di Zeus Egioco, Atena Glaucopide".
Patroclo sembrò comprendere, e si ritirò, accompagnato verso l'uscita da Achille. Evidentemente era stato informato dal cugino della mia inspiegata scomparsa negli ultimi dieci anni.
Eravamo soli.
"Posso sapere, se non è osare troppo, il motivo della tua assenza al mio fianco in questi anni, mia signora?", mi chiese con voce pacata ma ferma, ancora voltato verso l'entrata della tenda. "Sono sicuro che le ragioni di una dea sono sempre valide e inconfutabili. Tuttavia, vorrei conoscerle, se mi è permesso. Mi avevi  fatto una promessa, dieci anni fa, e non l'hai mantenuta".
"E' stato mio padre", ammisi d'un fiato. "E' stato Zeus, il signore di tutti gli dei, a non permettermi di incontrarti".
"Ma io ti vedevo. Ti vedevo mentre combattevi a fianco dei miei compagni, ma non appena mi avvicinavo, tu svanivi in istante, mia signora. Come se non fossi mai esistita. Ho iniziato a credere di avere soltanto sognato il nostro incontro. Un sogno ingannatore, passante per le Porte d'Avorio".
"Quando mi vedevi scomparire, io entravo in un mondo buio ed estraneo alla realtà. Un posto oscuro in cui mi mandava mio padre... un posto chiamato Ate, il nome della cecità".
"E perché Zeus ha voluto impedirci di collaborare in questa guerra?".
"Ha detto a Hera...". Se avessi svelato ad Achille quello che avevo sentito da mio padre, avrei potuto mettermi contro il più grande degli dei. "Ha detto a Hera che vederti avrebbe causato la mia rovina".
Silenzio. Fissai il suolo, in attesa di una risposta, non sapevo se da parte di Achille o di Zeus.
Dopo qualche istante, sentii un rumore di legno che scricchiolava leggermente, e alzando lo sguardo notai che Achille si era seduto sul proprio trono.
"Accomodati, mia signora", mi disse gentilmente, indicandomi il giaciglio su cui ero crollata poco tempo prima. "E dimmi perché vedermi dovrebbe essere un rischio per te".
"Questo non lo so", mormorai sedendomi. Dal profondo della Saggezza annidata in me una vocina continuava a ripetermi che in realtà lo sapevo, lo sapevo benissimo.
"E non temi che, dicendomi ora queste cose dopo essere sfuggita al controllo di Zeus, tu stia rischiando?".
"Sì, lo temo", risposi. "Ma la sorte di questa guerra è più importante di ciò che crede mio padre".
Da qualche parte, una porta si chiuse.
Achille mi fissò in silenzio per qualche secondo.
"Hai compiuto una scelta, mia signora", mi disse dopo un po'.
"Ne sono consapevole", risposi. "E so che tornare indietro sarà difficile, se non impossibile. Tuttavia, desidero aiutare gli Achei più di ogni altra cosa".
Il tuono ci fece sobbalzare entrambi. Era là fuori e mi chiamava, senza ammettere repliche. Scambiai un'occhiata d'intesa con il figlio di Peleo, proprio mentre la luce del fulmine si rifletteva nei suoi occhi.
"Questa volta", gli dissi, "non ti abbandonerò".
Ti? Perché non vi? 'Questa volta non vi abbandonerò, Achei'. 'Questa volta non ti abbandonerò, Achille'. Era stato solo uno sbaglio? Che cosa avevo voluto dire esattamente?
"Atena".
Mi feci coraggio. La voce che mi aveva chiamato era udibile solo dalle mie orecchie: a quelle dei mortali sarebbe parso come un comune tuono.
"Mi fido di te", mi disse Achille, "e so che questa volta tornerai".
Volli crederci anch'io.
Scostai il lembo di tela che chiudeva la tenda e il fiato mi si mozzò.
Nonostante fosse mio padre, Zeus era ancora capace di impressionarmi con quello che riusciva a fare. Un uragano saettante, un enorme tunnel di nuvole temporalesche mi chiamava dal cielo. Il vento mi sferzava il viso così forte da farmi male, facendomi ondeggiare come un giunco.
"Atena", ruggì.
Sapevo a cosa stavo andando incontro, e sapevo che la cosa più giusta da fare era affrontare la mia sorte. Tenendomi indietro i capelli dal viso camminai controvento verso il tunnel, muovendomi a fatica. Le raffiche mi sollevarono, scagliandomi dentro il tunnel in un mulinello infernale. La terra era lontana. Intorno a me, nei rari momenti in cui riuscivo ad aprire gli occhi senza essere accecata dalla pioggia tagliente, vedevo solo uragani grigio piombo e fulmini talmente luminosi da sembrare neri. Improvvisamente fui schiantata contro una superficie dura, fredda e massiccia. Caddi inerte su quella che sembrava una scala, alla base del muro contro cui mi ero scontrata.
"La riconosci questa, Atena?".
Aprii gli occhi a fatica, sentendo dolori in tutto il corpo, e guardai in alto. L'enorme struttura che mi sovrastava, di un marmo probabilmente dorato ma oscurato dal temporale, era una porta. Una porta maestosa e inoppugnabile. Una porta che, se chiusa, è impossibile riaprire dall'esterno. La porta dell'esilio.
"Sì, padre. E' la porta dell'Olimpo".
"Sai bene che questa porta è sempre aperta tranne in un caso".
"Quando un dio viene esiliato dall'Olimpo".
"Esattamente".
Mi alzai, in un gesto quasi di sfida, tentando di apparire incurante degli acciacchi che mi ricoprivano.
"Me lo aspettavo", sentenziai, "e ne prendo atto. Ho compiuto una scelta, e me ne assumo la responsabilità".
"Non puoi immaginare il dolore che prova un padre nell'esiliare la propria figlia".
Un moto di Guerra si fece strada dentro di me.
"Se sei così triste, padre, dimmi il perché del tuo trucco. Dimmi perché non avrei dovuto vedere Achille".
"Lo sai benissimo perché, anche se ti rifiuti di aprire gli occhi sulla realtà. Presto lo vedrai da te. E ora, addio. D'ora in avanti, la tua vita proseguirà in un solo senso, quello delle vicende terrene. Sarai una dea tra i mortali".
Un vento risucchiante e freddo come quello che mi aveva portata lì mi prese nuovamente, questa volta spingendomi ad una velocità esorbitante verso terra. Caddi rovinosamente nel punto da cui ero partita, e se fossi stata un'umana avrei sentito le mie ossa sbriciolarsi una ad una. Mi parve che la tempesta si stesse diradando, ma non potevo esserne sicura. La testa mi pulsava, e girava come una trottola.
In una visione offuscata, mi parve di scorgere Achille mentre usciva dalla tenda. Alzai lo sguardo verso di lui. Dovevo sembrargli tutto tranne che una dea, in quel momento.
"Non so dove andare", sussurrai mentre il Re di Ftia mi aiutava ad alzarmi. Lo fece senza chiedermi alcun permesso, e ancora una volta non potei fare a meno di ringraziare la sua sincerità priva di formule di cortesia - di ipocrisia.
Mi portò nella sua tenda.

   
 
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