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Autore: elizabethraccah    26/02/2013    1 recensioni
Sin è un pianeta perfetto, solitamente pacifico, in cui umani ed elfi convivono. Ci sono anche animali che riescono a comunicare con gli uomini e con gli elfi ma, soprattutto, a distinguere Sin dagli altri pianeti è la presenza di energia allo stato puro nell'aria.
Ultimamente però sta succedendo qualcosa di strano: soprattutto umani, ma anche elfi, spariscono in continuazione. Ryn è una dei pochi a sospettare dei Capi, un elfo ed un umano che amministrano il popolo di Sin. Le persone come Ryn sono chiamate Dunars: Ribelli. Ma cosa devono fare i Dunars? E dove vanno a finire le persone che spariscono? Ryn vuole scoprirlo e vuole anche fare qualcosa per bloccare le sparizioni, soprattutto ora che anche sua sorella Gryael è scomparsa. Ma dopotutto anche lei potrebbe venire risucchiata dallo spietato gioco dei Capi...
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era tutta colpa mia. Se ora Gryael o Cadnek o tutte le altre persone che erano sparite erano... morte... era colpa mia.
Kor diceva che avevamo fatto bene a voltare le spalle a Tagahar, ma non ne ero così sicura. Quello che mi aveva detto l’elfo, per quanto in modo confuso l’avesse fatto, era vero, lo sapevo. Non avevo capito tutto molto chiaramente, a parte una cosa: io ero così importante che per me gli elfi di Errat stavano distruggendo un intero pianeta. Il mio.
E non potevo permettere che questo accadesse.
Così avevo due possibilità: a) consegnarmi a loro b) trovare Gryael e Cadnek e scappare da Errat il prima possibile, sebbene fosse molto rischioso. Probabilmente mi piaceva il rischio: optai per la seconda. Be’, cosa potevo fare, altrimenti? Farmi uccidere? No, avrei lottato per la mia vita.
Kor aveva sentito qualcosa, negli ultimi giorni, da quando avevamo lasciato Tagahar: con i suoi sensi sviluppati, aveva percepito odore di umani (dovevano essere quelli di Sin: a quanto avevo capito, ad Errat vivevano solo gli elfi), così avevamo deciso di cercarli. Gryael e Cadnek potevano essere ovunque, e io volevo trovarli il prima possibile.
Andavamo avanti così da giorni che sembravano non finire mai: un’intera giornata durava almeno il doppio, su Errat, cosicché un giorno era buio (il cielo era rischiarato solo da una strana luna bianca, a chiazze) e un giorno era illuminato dal sole. Allora dovemmo cambiare anche i tempi in cui ci dovevamo muovere: per dodici ore avremmo camminato, per le altre dodici saremmo andati a caccia, avremmo mangiato (a Sin non si mangiava o beveva: c’erano dei dischi fluttuanti che gli elfi chiamavano didiner, colmi di energia allo stato puro, di cui ci “nutrivamo”. Tuttavia, mangiare era un piacere, e né gli elfi né gli umani volevano perderselo. Ma ad Errat era diverso, così io e Kor eravamo costretti a cacciare: se non l’avessimo fatto, saremmo morti di fame) ed infine risposato. Era questo il ritmo, tutti i giorni.
Il sesto giorno (e per giorno intendo quello di ventiquattro ore, dato che non stavamo più su Sin) finalmente Kor disse che sentiva gli odori molto più forti. «C’è anche...» borbottò con la sua voce bassa «... odore di altri animali. È strano: non ne ho sentito per tutto il viaggio. E poi... sento... sì: dev’esserci di sicuro una foresta molto più fitta e forse più grande di questa. Direi... una giungla
«Una giungla? E com’è?» Delle giungle si sentiva parlare come fossero leggende, e le uniche immagini o informazioni che si potessero ricavare sull’argomento erano poche ed esclusivamente nei libri.
«Non lo so» rispose. «In realtà, a Sin di giungle non ce ne sono, e non sono mai stato in un altro pianeta che non sia il mio prima d’ora.» Sospirai, dispiaciuta del fatto che non me ne potesse parlare in dettaglio.
«Non so se lo sai, ma sulla Terra ci sono le giungle» aggiunse dopo un po’, «ed Errat assomiglia parecchio alla Terra. Anzi, direi che è praticamente identica.»
«Perché?»
«All’inizio erano gli elfi i padroni della Terra. Ma poi arrivarono gli umani e li cacciarono (non lo dire mai ad un elfo, si arrabbierebbe molto: loro sostengono che non è andata affatto così, che andarsene fu una loro scelta). Allora gli elfi decisero di creare un pianeta loro, e con la loro magia riuscirono a modellarlo proprio come la Terra. A dire la verità, crearono un’intera galassia uguale in tutto e per tutto a quella della Terra. Se ci pensi, Errat è l’anagramma della parola Terra.»
«Quanto pensi che ci metteremo ad arrivare agli altri umani?» chiesi dopo un po’.
«Stasera dovremmo esserci.»
 
Quella sera infatti eravamo lì. Davanti a noi si ergeva un’enorme collina, che Kor chiamò montagna. Be’, di sicuro a Sin non c’era niente del genere.
La montagna era completamente ricoperta di vegetazione (verde), talmente fitta da non riuscire a vedere nemmeno un pezzetto di terra (marrone), ed iniziava dopo un confine netto: un centimetro prima c’era la sabbia, un centimetro dopo c’erano la terra e l’erba e centinaia di rami intrecciati tra loro. Be’, se Gryael e Cadnek erano lì, non avrei esitato a tuffarmi in quella giungla.
«Sono loro, Kor?»
«Sono gli unici umani presenti in queste terre, e sento l’odore di Sin. Perciò sì, sono loro.»
«Andiamo, allora.»
Stavo per inoltrarmi nella vegetazione, quando lui mi fermò ruggendo. «Tra poco farà buio, dobbiamo aspettare domani. Sarà più sicuro, e riusciremo a trovare un riparo in tempo. Non sappiamo nemmeno che genere di creature vive là dentro.»
Ovviamente Kor aveva ragione. E pensai anche un’altra cosa, che Kor non mi aveva detto perché non ci aveva pensato o, più probabile, perché non voleva ferirmi. Se gli elfi erano così decisi ad uccidermi, probabilmente dentro quella giungla si trovavano delle creature davvero mostruose. Sanguinarie. Creature che non ci sono nemmeno negli incubi peggiori.
Questo significava che Gryael e Cadnek e tutti gli altri erano davvero in un grande pericolo.
E significava anche che non avevano nessuna speranza.
 
Il mattino dopo mangiammo e bevemmo e subito dopo ci inoltrammo nella giungla. All’inizio la vegetazione era così intricata che si faceva fatica persino a respirare, ma via via si fece più rada. Certo, le piante erano sempre intrecciate tra loro e dovevo tagliarle col kirnike per riuscire a passare, ma almeno non dovevo sprecare così tante energie come prima.
Quel giorno procedemmo così tanto e così tanto faticosamente che la sera ero esausta, e anche Kor. Dovemmo stabilire dei turni di guardia, come le altre notti, ma alla fine successe che ci addormentammo e non ci risvegliammo fino alla mattina successiva.
Una volta svegli, ci irritammo ognuno con se stesso perché avevamo lasciato che accadesse una cosa del genere. Cosa sarebbe successo se durante la notte ci avessero attaccato? Probabilmente non ci saremmo svegliati quella mattina.
Ci mettemmo in marcia, arrabbiati, e non dicemmo quasi nulla per tutta la giornata.
La giungla era un posto strano, niente a che vedere con quelle poche zone di Sin dove si trovavano gli alberi. Innanzitutto, la giungla era un’esplosione di colori: c’erano frutti di tutti i tipi, di colori brillanti, strani esseri che Kor aveva chiamato “uccelli” che non facevano altro che cinguettare fastidiosamente, altri piccoli animali che correvano e volavano da tutte le parti. Ma la cosa che la caratterizzava di più era il verde. Quel colore si trovava da tutte le parti: sulle foglie, su alcuni uccelli e insetti, addirittura su alcuni tronchi di alberi. Stavo cominciando ad odiare quel colore.
Non so per quanto tempo andammo avanti sempre con lo stesso ritmo: dormivamo, mangiavamo un paio di uccelli a colazione e continuavamo a camminare fino a quando si faceva buio, poi io mi arrampicavo sugli alberi e mi addormentavo lì, mentre Kor rimaneva ai piedi del tronco (tanto chi avrebbe mai osato attaccarlo? Anche su Sin, era una delle creature più grandi, muscolose e temibili). Avevamo deciso di lasciar perdere i turni di guardia, tanto non succedeva mai nulla lì. Non incontravamo niente e nessuno tranne gli insetti e gli uccelli; il panorama era sempre lo stesso, più i giorni passavano più nella mia mente si faceva strada l’idea che forse stavamo sbagliando tutto, che forse avremmo dovuto ascoltare Tagahar... Scacciavo con impazienza quel pensiero, ma sapevo che in fondo era vero.
Un giorno, mentre ci facevamo strada tra il fitto intrico di piante, davanti a me e Kor si presentò un cerchio perfetto costituito solo da terra umida, fangosa.
«E quello cos’è?» chiesi fissando il terreno.
«Non lo so» rispose Kor «ma è meglio evitarlo.» Così facemmo.
Non molte ore dopo, ci trovammo di fronte un’altra novità: una pozza d’acqua scura, anch’essa perfettamente circolare.
Io e Kor ci guardammo. «Cos’è?»
«Sembra un... lago? È così che dicono che sono i laghi» disse Kor.
Annuii. «Ci stiamo avvicinando» intuii.
«Come fai a saperlo?»
Alzai le spalle. «Be’» risposi «prima quella cosa, adesso questo... lago. Insomma, le novità aumentano. Ci stiamo avvicinando al cuore della giungla, e... agli altri.»
Per quel giorno decidemmo che avevamo avanzato abbastanza, così trovammo un albero e ci addormentammo. Dormii peggio delle altre volte, non perché avessi freddo o fame o altro, solo che il mio sonno quella notte era agitato, senza un motivo preciso. Mi svegliai di soprassalto, giusto in tempo per cogliere lo scintillio di due occhi nel buio, mettermi in piedi il più velocemente possibile e sguainare il kirnike prima che quel luccichio svanisse.
«Chi c’è?» sussurrai. La mia voce non tremava, per fortuna. Passò qualche secondo, poi parlai di nuovo. «Esci fuori! Ti ho visto.» Il cuore mi batteva a mille e le gambe stavano per cedermi. Ero stanca e debole, i miei riflessi erano peggiorati da quando avevo lasciato Sin (avevo sottovalutato l’energia dei didiner) e da qualche giorno avevo cominciato a stare peggio fisicamente, oltre a quel dolore nel cuore che non se ne andava da quando erano spariti Gryael e Cadnek, e che si era accentuato da quando avevo abbandonato Tagahar. Certo, odiavo chiunque mi mentisse, ma non pensavo che, pur conoscendolo da pochissimo, mi sarebbe mancato così tanto. Avevo sottovalutato anche i sentimenti che avevo cominciato a provare per il mio vero fratello.
E ora io ero solo una ragazza che cercava di sopravvivere in una giungla in cui era entrata per salvare sua sorella e il suo migliore amico. Una ragazza che si trovava in piedi sul ramo di un albero di Errat, il pianeta degli elfi, che mai avrebbe pensato di visitare. Una ragazza senza speranza.
Gli occhi che poco prima erano spariti brillavano di nuovo nell’oscurità. Strinsi più forte il kirnike.
«Ryn?»
Quella voce così delicata, quel tono così familiare. Il mio braccio si rilassò, penzolandomi lungo il fianco, e lasciò andare il kirnike, che si piantò nel ramo.
«Gryael?»
Dalle foglie sbucò un volto i cui lineamenti delicati erano nascosti da fango e sangue secco. Due bellissimi  occhi di un grigio chiaro mi fissavano, increduli e dolorosamente felici. «Ma come...?»
Corsi da lei (per quanto potessi correre su un ramo così in alto rispetto al terreno) e la abbracciai. Ero più alta di lei, ma Gryael riuscì comunque a gettarmi le braccia al collo e a sbilanciarmi.
«Dobbiamo andarcene da questo posto» le sussurrai non appena si staccò da me.
Sembrava dispiaciuta nel sentirmi dire quelle parole. «Cosa? No.»
La guardai senza capire. «Gryael, cosa stai...?»
Ad un tratto mia sorella aveva gli occhi vacui. Mi scrutò da capo a piedi, poi il suo sguardo si soffermò sulla mia tempia, dove sapevo di avere una cicatrice che mi ero fatta tanti anni prima, da piccola. Ora che ci pensavo, non mi ricordavo cosa era stato a lasciare quel segno sulla mia pelle.
«Ryn.» Ripeté il mio nome, di colpo vagamente consapevole di... qualcosa. «Ryn.» Così veloce che non riuscii nemmeno a distinguere ogni suo movimento, Gryael staccò dal ramo il kirnike e me lo puntò al petto. Il suo sguardo per un momento, ma solo per un momento, tornò ad essere quello di sempre. Il quell’istante sussurrò un «mi dispiace».
Poi mi infilò la lama nel petto.
O, perlomeno, avrebbe voluto farlo. Scattai, capendo cosa stava succedendo troppo tardi. Il kirnike mi prese il petto solo di striscio, ma lasciò una ferita ben più grave sul braccio, dove infatti restò incastrato.
Gryael non era mai stata molto brava con armi o cose del genere, così i suoi riflessi erano lenti. Più lenti dei miei.
Con la mano dell’altro braccio mi staccai la lama dalla pelle prima che potesse farlo mia sorella, poi la girai dalla parte opposta e la puntai verso di lei.
Non feci in tempo a dire una sola parola che tornò all’attacco, accanendosi su di me, tirandomi pugni e calci. Non sapeva quello che stava facendo.
Era ipnotizzata.
Non avevo reagito, ero troppo sorpresa e ferita nel profondo per farlo, ma quando mi toccò il taglio che mi aveva inferto e la spinsi via per evitare che mi uccidesse (ero già un po’ stordita: non sarebbe stato difficile, nemmeno per Gryael, farmi fuori), nonostante tutto, me ne pentii.
Guardai tutto come al rallentatore.
Mia sorella con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata per la sorpresa.
Le sue mani si staccarono dalle mie braccia.
L’avevo sbilanciata. Il suo busto si stava inarcando all’indietro.
Un piede scivolò giù dal ramo, l’altro lo seguì poco dopo.
La ragazza cominciò a cadere.
Le mie mani che tentavano invano di afferrarla.
Poi continuò a cadere.
Un urlo lacerante che mi spezzò l’anima.
Un tonfo.
La consapevolezza di ciò che era appena accaduto.
Dopo solo il silenzio.
 
Ripresi conoscenza soltanto il mattino dopo. Ero accovacciata su un ramo, lontano da .
Avevo solo vaghi ricordi di ciò che era successo dopo che... dopo Gryael. Ero scappata da lì, il kirnike stretto convulsamente nella mano, la ferita sanguinante del braccio e quella bruciante del cuore che non mi davano tregua. Non sapevo come avessi fatto a non precipitare giù dagli alberi su cui mi stavo muovendo così velocemente e pericolosamente. Sapevo solo che poi ero stata troppo stanca per continuare, mi ero accasciata da qualche parte e mi ero addormentata.
Dovevo aver dormito solo una o due ore dopo essere arrivata fin lì. Ero debole e indolenzita e mi accorsi di avere le guance bagnate. La ferita bruciava. Aveva smesso di sanguinare, ma non aveva affatto un bell’aspetto. Non sapevo cosa fare: non avevo mai curato nessuno... anche a quello pensavano i didiner.
Se qualcun altro mi avesse attaccata, probabilmente sarei morta. Non avevo forze, solo una gran voglia di fermarmi lì per il resto della mia vita. Di non muovermi più, mai più.
Restai lì, ferma, per ore. Forse avevo provato a spostarmi, ad alzarmi, ma non ci ero riuscita ed ero rimasta lì. Vulnerabile. Sola.
La vista mi si annebbiò. L’unica cosa di cui ero consapevole era la ferita, che pulsava e non la smetteva di farmi male, in ogni istante, in ogni secondo. Era meglio morire che subire una tortura del genere.
Dopo tanto tempo di immobilità sentii un fruscio alle mie spalle.
«Ryn» fu l’ultima parola che sentii. Poi pensai che forse era meglio così, che era meglio farla finita subito. Scorsi solo una figura che mi si avvicinava piano... poi cominciò a muoversi più velocemente... arrivò di fronte a me.
L’ultima cosa che vidi prima di perdere i sensi furono due preoccupati occhi castani.
 
Non vedevo nulla, solo luce e tenebre, luce e tenebre, tutto il tempo. Le tenebre, alla fine, prevalevano sempre.
A volte riuscivo a scorgere anche del verde, il colore che ultimamente avevo cominciato ad odiare ma che ero felice di avvistare in quel gioco a cui sembravano partecipare solo il bianco e il nero.
Ad un tratto spiccò un volto, che in seguito riapparve più volte. Gli occhi scuri spiccavano sulla pelle chiara. Il volto si mischiava al bianco e al nero e a volte al verde, e io non capivo perché non potessi semplicemente vedere tutto chiaramente.
E poi c’era il dolore. Il braccio ne era il fulcro, ma si spandeva per tutto il corpo e non mi lasciava un attimo di tregua.
Sapevo solo che era assolutamente insopportabile.
 
«Ryn?»
Tossii e, ancora con gli occhi chiusi, provai a tirarmi su, ma la debolezza me lo impediva, così caddi di nuovo giù, sbattendo la testa.
«Ryn?» ripeté. «Riesci a sentirmi?»
Annuii lentamente, senza aprire gli occhi.
Udii un sospiro.
Mi sentivo come se mille, minuscole schegge mi pungessero e grattassero la gola ogni volta che deglutivo. Però non sentivo più dolore al braccio.
Passò qualche istante. Poi un minuto. Poi parecchi minuti. Mi piaceva quel silenzio, ma, allo stesso tempo, non riuscivo a sopportarlo.
«Lo so che mi odi» disse infine Tagahar. «Se devo essere sincero, non capisco nemmeno il perché.» Tacque per qualche secondo. «O forse sì» ammise infine.
Mio malgrado, mi sentii sorridere. «Mi dispiace» provai a dire, ma dalle mie labbra non uscì niente se non un rantolo strozzato.
Nessuno disse nulla per un po’. Alla fine, Tagahar disse: «Mi dispiace per tua sorella.»
Stavolta riuscii a parlare. «Non era mia sorella.» Nella mia voce non c’era né cattiveria né risentimento. «Non più.»
«Era ipnotizzata, lo so.»
«Non mi riferisco a quello.»
Silenzio.
«Ryn?»
«Sì?»
«Apri gli occhi?»
Lo accontentai. I miei occhi si fissarono nei suoi. Restammo così per un momento interminabile. «Mi dispiace» riuscii a dire stavolta.
«Già.»
Ora lo sapevo: mi ero sbagliata su Tagahar. Me n’ero andata solo perché odiavo l’idea che tutto ciò che pensavo fosse vero era invece una menzogna.
E adesso che anche Gryael non c’era più, adesso che Cadnek, molto probabilmente, era ipnotizzato, l’unica persona che mi restava era Tagahar.
E dovevo cominciare ad accettare che non ero più a Sin, a casa, ma in una giungla da cui forse non sarei uscita viva. Che ora stava cominciando un altro periodo della mia vita.
Il più difficile e pericoloso.

  
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