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Autore: Sibilla Cooman    14/09/2007    2 recensioni
Carolyna è una comune ragazza del quindicesimo secolo chevede la sua vita distrutta dalla caccia alle streghe. Accetto sia commenti positivi che negativi, anche perchè questa è una storia a cui tengo molto. Buona lettura!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tic Tic…

Trasalii al suono di questo rumore e, senza perder tempo, balzai di nuovo a sedere.

Non so neanche io perché, ma questo suono mi fece paura: alle mie orecchie, parve qualcosa di terribilmente minaccioso.

Mi accucciai, come fanno i bambini quando hanno paura, per proteggersi.

Ma cos’ero io, se non una bambina che aveva perso tutto?

Chi, adesso, si sarebbe preso cura di me, al posto della mia madre-angelo?

Nessuno.

E nel mio cuore ne ero certa.

Un odore disgustoso mi arrivò alle narici: solo allora mi ricordai di aver rigettato.

Sentivo i capelli viscidi e appiccicosi e provai un moto di ribrezzo, quando mi accorsi di averli sporchi di vomito.

Il rumore di prima tornò a colpirmi le orecchie, questa volta più forte, e molto più da vicino, soltanto allora mi accorsi che quello non era un rumore bensì uno scalpiccio.

I passi si arrestarono davanti alla mia cella: erano due sagome, una molto alta e snella, e l’altra piuttosto bassa e grassoccia.

Che fossero venuti a prendermi?

Tremai stringendomi più forte le ginocchia: no, non avevo paura, ero terrorizzata.

Il chiavistello scattò poco dopo e l’uomo più alto, che riconobbi essere James, entrò, mentre la figura grassoccia, che non riuscii a riconoscere, si appostò accanto alla cella.

E quella cosa non mi piacque: perché dividersi?

Da quello che riuscii ad intravedere nella poca luce concessa dalla luna, capii che fosse qualcuno di molto importante, dalla deferenza con cui il mio carceriere la salutò.

Osservai stralunata James entrare, mentre mi rialzavo: che ci faceva lui qui?

Appena fui in piedi, barcollai pericolosamente ed improvvisamente mi sentii le gambe molli.

Mi sentivo terribilmente fragile e… persa.

Come se dal momento in cui mia madre era stata bruciata a quando ero stata portata qui, avessi perso una parte di me.

Tremai a questo pensiero.

James se n’accorse, e mi afferrò per le spalle, tenendomi in equilibrio.

Molto probabilmente si accorse della pozza di vomito ai suoi piedi, perché fece una faccia disgustata.

Poi sospirò.
<< Carolyna… >> pronunciò il mio nome con voce incerta, quasi spaventata.

Trasalii: mi faceva strano sentire pronunciare il mio nome dopo tutto quel tempo, cominciavo a credere di essermelo dimenticato.

Lo fissai, immobile: sapevo, che mi avrebbe portato brutte notizie, eppure, non potei fare a meno di sentirmi tranquilla. Presto tutto sarebbe finito.

James proseguì: << Vedi… io ho provato a far bloccare la pena di morte, ma purtroppo… io… è la legge… Carolyna… mi dispiace tanto… >>.

Continuai a fissarlo, inespressiva: per quanto sapessi che era mio padre, non riuscivo, e mai ci sarei riuscita, a considerarlo tale.

Nella stanza calò un silenzio imbarazzato, interrotto soltanto dal respiro pesante dell’uomo appena fuori dalla cella, la respirazione del mio carceriere divenì improvvisamente un sommesso respirare, come se temesse qualcosa.

Ma cosa?

Da fuori si udì l’abbaiare d’un cane ed una donna urlare dietro a qualcuno, probabilmente utilizzando un qualche dialetto locale, dal momento non riuscii a capire nemmeno una sillaba di ciò che aveva esclamato con voce accusatoria.

<< Tutto qui? >> sbottai infine, incrociando le braccia al petto: se era venuto per annunciarmi soltanto la mia morte imminente, cosa abbastanza ovvia, avrebbe anche potuto risparmiarsi la fatica di venire da me.

James strabuzzò gli occhi, sorpreso: << Carolyna… tu stai per morire! >>

Scrollai le spalle e lo osservai, sprezzante: << Lo so. E in ogni caso, non è affar tuo. Ho ucciso un uomo e devo pagare. Punto. È la legge, no? >>

Eppure, per quanto cercassi di mostrarmi beffarda e sicura, dentro di me avevo paura, paura di morire.

Gli occhi di James lampeggiarono: << Non è affar mio?!? >> esclamò << Io sono tuo padre! >>

Feci una risata sarcastica: << Certo, quando va bene a te! >>

James strinse i pugni: << Certo, quando va bene a me! >> rispose, sarcastico << Se tu conoscessi il vero motivo per il quale io me ne sono andato… >>

<< ALLORA SPIEGAMELO! >> gridai, dentro sentivo, oltre alla paura, tanta frustrazione, per ciò che non voleva dirmi, per quello che cercava di nascondermi.

La sagoma fuori dalla cella sussultò e fece per entrare, James la bloccò con un gesto.

Poi, si rivolse a me, e mi disse: << Va bene. Sediamoci. >>

Così dicendo, si accomodò su una pietra più alta delle altre e, mentre si rassettava il vestito blu scuro, aspettò che mi fossi seduta anch’io, poi cominciò a raccontare: << Prima di tutto, Carol, devi sapere che io discendo da una famiglia molto ricca, perciò anch’io, come ogni altro rampollo dell’alta società fui convogliato a nozze con un’altra donna molto ricca: Elyzabeth Likon. Elyzabeth era una donna molto intelligente e bella, ma a quel tempo ero tanto giovane, e desideravo solo girare il mondo.
Ne parlai con i miei genitori che, ovviamente, non gradirono per nulla il mio rifiuto di sposare Elyzabeth, così, dopo lunghe e intense discussioni, mi diseredarono.
Così, io, partii solo, verso terre lontane ed approdai qui, a Oldville.
Non so neanch’ io perché: so soltanto che quella notte pioveva e che dovevo sbrigarmi a trovare un luogo in cui rifugiarmi, se non volevo beccarmi un malanno.
Bussai alle porte di varie locande, ma non aprì nessuno; molto probabilmente a causa della superstizione, si credeva, e si crede tutt’ora, che gli emissari del diavolo arrivino di notte, anche se io, su questa leggenda, non ci ho mai contato molto.
Così, mi ritrovai di fronte a casa di tua madre, fu molto gentile: mi offrì un riparo per la notte, vestiti asciutti ed un pasto caldo.
Poi, dopo un po’, attaccò a parlare del fatto che in quel periodo ad Oldville pioveva decisamente troppo, e che se sarebbe continuata così, avrebbe perso la sua importantissima coltivazione d’arance. >>

Soffocò una risata al ricordo della mamma, e poi continuò: << Però io non l’ascoltavo. Ero troppo concentrato sull’atmosfera che regnava in quella casa: così familiare, calda… a casa mia non l’avevo avuta mai.
Dopo un po’ di conversazione, tua madre mi chiese che ci facessi lì, così le raccontai tutta la mia storia; impietosita da essa, mi propose di restare da lei per un po’: la solita ingenua! E se fossi stato un malfattore?
Vabbe’, comunque, rifiutai gentilmente la sua offerta, e le dissi che sarei partito di buon’ora il giorno dopo, sole permettendo.
Inutile dire che il giorno dopo non piovve ma diluviò!
Così passai altri tre giorni in sua compagnia, sotto l’acquazzone, a raccogliere tutto ciò che restava della sua importantissima coltivazione d’arance.
Ben presto me ne innamorai, e così vissi per un bel po’ assieme a lei, assaporando la sua vita. Poi, un anno dopo, ci sposammo, alla parrocchia del paese.
Undici mesi dopo, nacqui tu.
Passammo un anno felice: io trovai un lavoro presso al palazzo del conte Robertses, e la mamma continuò ad occuparsi di te.
Ma poi, mi arrivò una lettera, dai miei genitori, che m’informava che o sarei tornato a casa o avrebbero mandato dei sicari ad assassinarci.
Pur di non perdervi, pur di non vedervi morire, tornai a casa. >>

<< Ma allora perché l’hai portata via? >> le mie parole parvero un rantolo soffocato, tanto furono flebili.

James sorrise debolmente, come se gli stessi chiedendo qualcosa di ovvio: << Tesoro, la mamma era una strega! Un’invasata! >>

Il respiro mi si fermò in gola: << Cosa? >> chiesi, con voce strozzata.

Un ombra attraversò gli occhi di mio padre: << Non hai capito? Tua madre era una… >>

<< NON TI AZZARDARE A RIPETERLO! >> strillai, la mia voce risuonò per tutto il carcere, dove cominciarono a farsi sentire i brontolii infastiditi dei prigionieri.

<< LEI NON ERA UNA STREGA! LEI ERA UN ANGELO! >> la mia voce, come si era alzata, scemò.

Perché nessuno riusciva a capirlo?

James mi rivolse uno sguardo penetrante: << Ma preparava pozioni per i malati, vero? Li guariva al posto dei medici, con i rituali di S… >>

<< NON TI AZZARDARE A PRONUNCIARE QUEL NOME! >> ribattei io, rossa di rabbia.

<< Però lo faceva, vero? >> replicò lui, sempre più calmo e pacato.

Tutta quella tranquillità mi diede i nervi: << SÌ! >> sibilai, in un impeto di rabbia.

James parve soddisfatto: << Quello che volevo sapere. >> mormorò, prima di uscire dalla mia cella.

A passo svelto, lui e l’altra sagoma nera s’incamminarono.

La sagoma nera passò sotto la luce argentea della luna, che gli illuminò i tratti del volto; e soltanto allora capii chi fosse, e il motivo di tanto rispetto: era un inquisitore.

E aveva sentito tutto.

Sconvolta, mi lasciai scivolare lungo il muro di mattoni, che soltanto allora, parvi notare quanto fosse freddo.

Avevo davvero detto che mia madre era una strega?

Io ricordavo soltanto che James mi aveva chiesto se lei preparasse medicine per i malati e che io avevo risposto di sì.

Cosa avevo detto di male?

In fondo avevo soltanto detto la verità!

Ma poi, era tutto vero ciò che mi aveva raccontato della mamma, oppure era solo un bluff per confermare la loro denuncia?

Non l’avrei scoperto mai: le figlie delle presunte streghe venivano bruciate spesso sul rogo come le loro madri, e poi, io avevo addirittura ammazzato un soldato!

Quando sarebbe stata l’esecuzione?

Ero pronta per morire?

Scossi la testa: no, non ero pronta.

Questa fu l’unica risposta che riuscii a darmi.

Fuori, il mio carceriere tornò alla sua pennichella, e ben presto il suo famigliare respiro pensante tornò a farsi sentire, una scarica d’irritazione mi pervase: mi dava fastidio, soprattutto quando soffrivo, avere accanto persone tranquille che dormivano sonni sereni.

O forse, l’avversione che in quel momento provavo verso la guardia carceraria, era soltanto un’emozione dettata dall’invidia: perché lui poteva essere felice, e io no?

Anzi: perché lui riusciva a starsene sereno e tranquillo mentre il mondo intorno a lui degenerava e io no?

“Perché il mondo che degenera è il tuo!” mi rispose saccente una vocetta dentro la mia testa.

E forse aveva ragione: il mondo che lentamente andava a deteriorarsi, era il mio, non il loro.

Era giusto che non se ne preoccupassero.

Spifferi gelati irrompevano nella mia cella quasi ad intervalli regolari, ed io, ogni volta che l’alito freddo del vento mi sfiorava, rabbrividivo e mi stringevo al mio vestito, troppo leggero per ripararmi dal clima invernale.

Chiusi gli occhi, e presi a massaggiarmi un braccio con la mano buona, nel vano tentativo di scaldarmi un po’, e di concentrarmi sul respiro del carceriere, sperando di dimenticarmi di aver freddo.

Supposizione errata: appena smisi di avvertirlo, la temperatura, nella cella, calò bruscamente, talmente tanto che, improvvisamente, mi ritrovai a battere addirittura i denti dal freddo.

Un suono dolcissimo mi arrivò alle orecchie, dolce e rassicurante: la voce della mia mamma.

Forse lo capii dal timbro di voce, bassa e delicata, o forse dal fatto che la canzone che sembrava canticchiare a bassa voce mi era incredibilmente familiare.

Ma poi, come avrei potuto dimenticarla?

Spalancai gli occhi, cercandola con lo sguardo nell’oscurità, come se riuscissi a vederci qualcosa, in quel buio pesto, eppure nulla, non riuscivo a scorgerla.

Per un attimo, temetti di essere diventata cieca.

La dolce melodia aumentò d’intensità, e il mio cuore accelerò i battiti.

Presi a voltare freneticamente la testa, in quelle tenebre, nelle quali mi sembrava di annegare.

<< Carolyna… >> sussurrò la voce, talmente amorevole che il mio cuore si arrestò per qualche attimo.

<< M-mamma? >> balbettai, incredula, non ci credevo, non poteva essere… la mamma qui?

Eppure era defunta, e si sa: i morti non possono tornare dall’aldilà.

Salvo che lei… non fosse diventata un fantasma, gli spiriti che tornavano indietro dal mondo dei morti, quando la loro anima non riusciva a trovare pace nel Regno Celeste.

Sussultai a quel pensiero: no, non poteva essere, lei stava bene! Ne ero certa.

Mia madre riprese a canticchiare la canzoncina di poco prima, che, soltanto allora, riconobbi come la ninna nanna, la mia ninna nanna, che mi sussurrava, quando ero piccola e troppo irrequieta per dormire.

Poi mi abbracciò.

Non so bene come capii che mi aveva abbracciato, forse lo intuii dalla sensazione di tepore che mi pervase all’istante, forse dal suo buon profumo di menta, che m’inondò le narici poco dopo.

Dentro di me tirai un sospiro di sollievo: no, non era un fantasma, i fantasmi erano freddi, lei, invece, era calda.

Volevo toccarla, dirle che mi mancava, eppure, rimasi immobile con quel groppo in gola, che non aveva alcuna intenzione di uscire dalle mie labbra, a fissare il nulla di fronte a me.

E così, cominciai a piangere, nell’oscurità, che mi comprimeva e mi soffocava, buia come la disperazione che regnava nel mio spirito.

Perché non riuscivo a vederla?

Più piangevo, più quello stramaledetto groppo cresceva, e mi mozzava il respiro.

E forse, quel nodo che quasi m’impediva di respirare, era dovuto alla paura: paura perché, in vita mia, non mi era mai capitata un’esperienza del genere, e anche perché avevo paura che non fosse reale, un sogno.

Una leggera luce bianca illuminò, fioca, la mia piccola cella.

Come la speranza, quel piccolo bagliore mi diede forza.

Mi girai verso di lei, che bianca e luminosa, mi sorrideva, ma i suoi occhi tradivano qualcos’altro… dolore?

Lentamente, mi posò una mano sulla testa, e ben presto il mio corpo divenne pesante, e la sua luce si spense.

L’oscurità tornò a schiacciarmi.

Dei passi risuonarono nel carcere: che la mamma avesse intenzione di abbandonarmi e di lasciarmi di nuovo sola?

Quella prospettiva fece tremare il mio corpo, che fino a quel momento era rimasto immobile.

<< Mamma? >> annaspai, cercando di muovere le braccia, che rimasero inerti sulla pietra fredda.

Cosa mi stava succedendo?

Che stessi morendo?

<< Shh… piccola mia… shh… >> la sua voce, per quanto fosse sommessa, mi rimbombò nelle orecchie, eppure, anche se quel suono fosse confortante, il mio cuore accelerò di battiti, allarmato da qualcosa che io ancora non comprendevo.

<< Ricorda, non avere paura, io ti sarò accanto. >> sussurrò, prima di lasciare che il vento ghiacciato tornasse a sferzarmi il viso, e di sparire per sempre.

Con la poca forza che mi restava socchiusi gli occhi, quel tanto che bastava per permettermi d’accorgermi che il sole era già sorto da un pezzo. Sbarrai gli occhi, sorpresa: credevo che l’incontro con mia madre fosse durato solo pochi minuti, non ore!

Dei passi rimbombarono, per la seconda volta in due giorni, nel carcere, ma questi, a differenza di quelli che avevo udito la sera prima, erano più pesanti e affrettati, quasi di corsa.

Una sensazione di deja-vù m’invase, e per un momento le parole di James tornarono a rimbombare nella mia mente: << Tesoro, la mamma era una strega! Un’invasata! >>.

Alla parola strega una fitta di dolore mi trafisse il cuore.

Man mano che i secondi passavano le forze presero a tornarmi, e così, presto, riuscii a mettermi seduta, appena in tempo per vedere tre figure arrestarsi di fronte alla mia cella.

-Presto! Bisogna fare presto!- esclamò uno di loro catapultandosi nella mia cella e sollevandomi per il colletto del mio vestito, ormai sgualcito e consunto dall’usura e dallo spazio decisamente poco confortevole della prigione.

La guardia del carcere al suono di quella voce stridula trasalì.

-Prete, la prego, si calmi!- esclamò il Barone De Geminis, posando la sua liscia mano olivastra sulla spalla del prete, che sussultò.

Il Barone de Geminis era un uomo molto vecchio, alto come un palo, il viso scavato dagli anni e l’espressione maligna lo rendevano l‘uomo più rispettato di tutta la contea. Con una sua sola mossa poteva mandare al rogo più di trenta persone.

L’esame che mi stava concedendo era soltanto un gustoso antipasto di quella che sarebbe venuta poi: la pena capitale.

-Certo, certo.- assentì lui, e poi tornò a fissarmi con uno sguardo penetrante.

Per un momento vidi la cattiveria lampeggiare negli occhi chiari del sacerdote, che ridacchiò.

Il religioso sussurrò qualcosa all’orecchio del Barone, che ghignò: -Suor Maria, la prego di preparare l’ossessa all’esecuzione.-

Una suoretta bassina e molto esile mi si avvicinò, la sua pena per me le si leggeva negli occhi più verdi di qualsiasi prateria, e poi con mano tremante estrasse da una piccola borsetta di pezza una grossa forbice di ferro.

-Siediti- sussurrò con lo sguardo basso, di chi si vergogna di non poter far nulla.

Tutta tremante mi sedetti e, senza nemmeno rendermene conto, mi misi a piangere. Lacrime silenziose e timide, lacrime di una ragazzina spaventata che non ne può più, e lacrime di felicità.

Lacrime di chi sa che di lì a poco finirà.

Suor Maria, intanto, aveva preso a tagliare lunghe ciocche dei miei capelli color oro, muta, e con le labbra strette di chi vorrebbe dire qualcosa e non sa come.

E io la fissavo armeggiare con quel forbicione più grande della sua mano, la osservavo ricacciare di tanto intanto un ciocca ribelle di capelli biondo cenere, che continuava a scapparle dal suo velo scuro.

Quando ebbe terminato l’opera sulla mia testa, mi spoglio dei miei abiti e me ne passò un altro più corto e ruvido per quella fredda mattina invernale.

Mi osservò un’ultima volta, e una piccola e solitaria lacrima le rigò il volto dai lineamenti delicati e fragili, poi uscì dalla cella silenziosa e muta come un’ombra.

E si sa: a volte gli sguardi dicono più di mille parole.

XXX


Il carro su cui ero seduta, con le mani e i piedi legati, procedeva lento verso il palco, dove sarebbe avvenuta la mia esecuzione.

Ormai tra me e la mia morte solo una grandissima folla accalcata intorno a me, tutta intenta a urlarmi improperi e maledizioni in qualsiasi lingua conoscessero credendo che quella fosse la cosa giusta, eppure per me quelle offese avevano il suono di un eco lontano, che si allontanava sempre più, un po’ per la stanchezza un po’ per il battito del mio cuore spaventato che mi rimbombava nelle orecchie.

Cosa t’importa se gli altri si divertono ad offendermi? Tra un po’ non sarò null’altro che un orribile, grosso, callo. Uno dei tanti.

XXX


James, osservava sua figlia morire, contorcersi dal dolore, bruciare tra le fiamme spietate del suo rogo immeritato.
Accanto a lui, il Barone De Geminis osservava la stessa scena compiaciuto.
-Sai non capisco proprio perché voi non mi abbiate permesso di torturarla… sarebbe stato molto divertente!-.
James lanciò un’occhiata carica d’odio all’uomo accanto a lui, girò i tacchi, e andò via, un fievole bisbiglio gli sfuggì dalle labbra fini: << Riposa in pace tesoro mio >>

NOTE DELL’AUTRICE:

Prima di tutto, spero di non avervi annoiato troppo con questa lunga ed interminabile storia!
Questo è un “racconto” a cui sto lavorando da quasi tre mesi e di certo non mi dispiacerebbe sapere cosa ne pensate, che il vostro giudizio sia positivo o no.
Ringrazio chiunque abbia letto questa storia ed in modo particolare chi mi commenterà,
Grazie,
Cooman.
Ps: ho suddiviso la storia in capitoli per agevolarne la lettura
  
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