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Autore: Ely79    28/02/2013    3 recensioni
Una notte volge al termine e la Luna sta lentamente fuggendo dal cielo. Sono gli ultimi momenti per un lupo mannaro di essere tale, prima di abbandonarsi alle cure della sua compagna umana.
Genere: Commedia, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Beauty of the Beast - La Bellezza della Bestia'
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II
II

La camera sembra sempre così piccola quando il lupo abita il mio essere. Percepisco l’armadio incombere da un lato, il bordo del letto che stringe dall’altro. Li sfioro con le ginocchia, mentre sto accovacciato nell’ombra.
Selene è inginocchiata davanti a me, nuda, alla mercé di una creatura immensa e ferale che potrebbe sbranarla in pochi bocconi. Lei però non ha una briciola di timore addosso, posso sentirlo distintamente dal suo odore. Il suo sguardo trasuda fiducia incondizionata. Aspettative d’innamorata e d’amante si alternano sul suo viso. Proprio come la Luna non teme le mie zanne, così è per lei: se la prima si fa scudo di una distanza che la rende intangibile, la seconda si fa forte invece della nostra vicinanza.
Mi abbraccia, passando lentamente le mani nel collare di pelliccia per poi scendere sul petto, sulla schiena, e risalire verso le spalle, fino alle guance. Piano, con assoluta calma e delicatezza. Sono gesti studiati per ammansire il lupo, la parte animale del mio io che rifiuta di addormentarsi.
Non posso fare a meno di lei e lei non può fare a meno di me. È una reciproca dipendenza quella che si instaura tra l’essere umano e il licantropo. Qualcuno ha teorizzato scientificamente che dipenda da ormoni primer
1 che creano un circolo vizioso di domanda e risposta nei due esseri. Più uno ne riceve dall’altro, più ne produce, obbligando il secondo ad assorbirne per riprendere daccapo il ciclo.
Altri giocano sull’ancestrale dicotomia bene-male, giorno-notte, yin-yang. Dualità assoluta e inscindibile. Ho sentito persino rispolverare il vecchio Platone e lo stramaledettissimo Mito di Aristofane. Saremmo due parti scisse, destinate a cercare la metà perduta, senza tuttavia poter tornare ad essere l’unicum originario. Ridicolo.
Io ho una versione personale che ritengo migliore. Le femmine vivono sotto il costante influsso della Grande Madre, è un dato di fatto. Noi maschi lo percepiamo dentro di loro, nella pelle, nei muscoli, nel sangue. Nel respiro. Nel cuore. Nell’intima fecondità che pervade ogni anfratto del mondo meraviglioso e misterioso che è il loro corpo. Viceversa, il dono che scorre dentro di noi le spinge ad avvicinarsi per impossessarsene, per ritrovare una completezza differente da quella del licantropo. L’integrità di un ciclo vitale antico e potente come la vita stessa, una totalità spirituale più pura e intoccabile, che sgorga da un atto la cui castità è legata al punto di vista con cui lo si giudica. Per questo non sappiamo fare a meno l’uno dell’altra: cerchiamo di completarci, rubandoci a vicenda quel po’ di Luna che manca per raggiugere l’unità primigenia, in un gioco infinito basato sul prendere e dare.
Selene tiene delicatamente la mia testa tra le mani, sollevandola. La pelle tira, frizza, punge mentre la belva comincia a ritrarsi dal corpo umano. La sensazione è quella di uno strappo violento, dell’espulsione forzata dal grembo materno. Il distacco non è mai indolore, ma neppure ti fa contorcere in preda al delirio come vorrebbe Hollywood. O forse sono due secoli di mutazioni a darmi quest’impressione, chissà.
Il muso si alza, staccandosi dalla mia faccia. Sento l’aria toccarmi la pelle con punte gelate. Niente spilli o aghi, questi sono chiodi. I chiodi di un’altra realtà fatta di altre regole, altre logiche, altre forme, in eterno contrasto con quelle naturali e sincere della Luna.
Non riesco a capire come Selene possa sentirsi attratta da me in questi attimi. So che il mio volto è diverso, stravolto dalle ore di trasformazione che l’hanno irrigidito, tirato, affilato, incupito. Lo stesso vale per il mio corpo, una massa legnosa e sudata di muscoli tesi e nervi ipereccitati, permeati di energie residue che reclamano sfogo.
Slaccia una ad una le fibbie che trattengono la pelliccia su di me, con cautela, usando tocchi lievi. Deve muoversi lentamente o potrebbe scatenare in me una reazione violenta: la mentalità animale che ancora prevale è all’erta, sa che sta per essere messa a tacere e vuole combattere per non andarsene. Vuole mantenere il controllo.
Il mantello stregato aderisce alla mia pelle con forza, sembra aver messo radici nella carne. Con calma e decisione, Selene lo scolla da me. L’intensità degli strappi che sento mi danno la misura della stanchezza e del potere che ancora la Luna esercita su di me. Vorrei continuare ad indossare quel manto, eppure una voce sta gridando che devo liberarmene. È un richiamo che ripete le mute suppliche che filtrano dalle dita amorevoli della mia Selene.
In questo momento non sono né il suo uomo né la creatura che l’ha raggiunta nel soggiorno. Sono un ibrido impreciso prodotto dal disgregarsi di un ibrido perfetto.
Nessuno può immaginare quale immenso gesto di fiducia sia permettere ad un essere umano di spogliarti del tuo io animale. È un momento di grande vulnerabilità per entrambi. Siamo vicini, troppo vicini.
Tremo. La testa oscilla. Conati strizzano rabbiosi lo stomaco. La camera si sdoppia, esplode in macchie sovrapposte di varie tonalità di oscurità fosforescente. Ansimo, tentando di spingere più aria possibile nei polmoni improvvisamente minuscoli, rattrappiti, rigidi. Gli organi interni vanno a riposizionarsi nella sede d’origine, scivolando faticosamente gli uni sugli altri, pesanti ammassi vischiosi e bollenti, sgonfiati della potenza che li aveva inondati.
È dannatamente difficile riallineare i miei due io, così complicato abbandonare una forma per riversarsi integralmente nell’altra, quando non hanno alcun punto in comune. Non c’è un contorno che combaci, nessuna analogia dimensionale, nessuna immediata somiglianza. Persino i colori che ci tratteggiano fanno parte di due tavolozze distinte.
Un brivido gelato scende dalla testa fino ai piedi contratti, facendomi chinare in avanti, fin quasi a sbattere la testa sul pavimento. Raddrizzo a fatica l’anatomia umana, lottando fra le contrazioni involontarie e le ultime ondate di crampi. Apro gli occhi su un mondo sfuocato che ondeggia da un lato all’altro, dove l’unico appiglio sicuro, l’unica certezza, è la figura chiara e trepidante che mi sta di fronte.
L’afferro con uno scatto inumano, stringendomela addosso, baciandola con foga, quasi volessi divorarla, nutrirmi dell’amore lunare che porta dentro. Selene contraccambia timidamente, in balia del mio assalto.
Sollevo entrambi senza alcuno sforzo, superando la breve distanza che ci divide dal letto. Rotoliamo fra le lenzuola, un groviglio di arti, labbra, carezze, baci, respiri, pelle accaldata, desiderio, che ci rende indistinguibili l’uno dall’altra. A stento mi rendo conto di essere già curvo sul suo dorso, sprofondato in lei. Al mio io selvatico non interessa tener conto di questi dettagli, vuole solo placare questa fame di carne palpitante che lo fa spingere e ansimare. Una fame che pur essendo organica è quasi onirica, spirituale; il reciproco divorarsi di anime che tentano nella loro battaglia di ricondursi ad un’identità tangibile.
Il primo amplesso è il peggiore per tutti e due. C’è troppa foga, troppa ansia, troppa fretta, troppo animale nelle mie vene perché uno di noi possa godere appieno di quei momenti. Somiglia più ad una rissa o a qualcosa di peggio; una violenza appassionata e sfrenata, istintiva al punto tale da essere incontrollabile.
È una forma di frenesia alimentare alla rovescia, che ottenebra la mente ed al tempo stesso le da respiro, morso dopo morso, man mano che gli orgasmi mi nutrono svuotandomi.
Torno a rendermi conto di quel che i miei muscoli indeboliti stanno facendo, ritrovo l’imperfezione del bisogno affettivo e spirituale dell’essere umano. Riscopro quanto adori sentire il corpo di Selene sotto di me, quanto sia piacevole affondare le dita nella sua pelle morbida e stringerla, imprigionarla nella gabbia del mio alter-ego diurno. E più ancora amo stare dentro di lei, nello spazio umido e accogliente che mi concede d’invadere. Sento il suo sangue pulsare forte, il suo respiro affannato mescolarsi ai gemiti, ascolto le labbra elargire sorrisi e grida. Il calore che nasconde ha il potere di ammansire il lupo, di dissolverne la ferocia un po’ alla volta, riconducendomi nuovamente all’umanità.
Selene dice che questo modo folle di fare l’amore ci fa diventare entrambi vittime e carnefici: lei è vittima nella misura in cui deve subire la mia libido fuori controllo, il mio bisogno furioso di sfogare l’aggressività repressa, la mia brama di possesso sul suo corpo. Vittima divengo io, quando al calare degli istinti animali il senso di colpa mi sopraffà, spingendomi ad assecondare il suo bisogno di tenerezza, quando lascio che sia lei a condurre la danza dei nostri corpi, quando i suoi sospiri mi mettono in catene.
Ha ragione. Maledettamente ragione.
Posa una mano sul mio fianco, allontanandomi. Lungo i contorni delle sue dita sento la pelle sobbalzare, ma non so distinguere il mio battito dal suo. In questo momento siamo fatti di sole pulsazioni, energia, spirito, Luna e vita mescolati insieme.
La sua voce è poco più di un sussurro, reso aspro dai gemiti.
«Aspetta».
Mi spinge ancora un po’, abbastanza da permetterle di stendersi – o meglio, crollare - fra le lenzuola. Si concede il prezioso lusso di alcuni profondi respiri, il volto seminascosto dal cuscino. Poi, lenta e intrigante, si gira, ricadendo sulla schiena. Seguo ipnotizzato l’arco che la sua caviglia disegna nell’aria, passando all’altezza delle mie spalle.
Quasi mi strozzo mentre trattengo il respiro. È il colpo di grazia, più mortale dell’argento.
La vista del suo dorso, delle reni e delle natiche scatenava l’ardore del lupo, lo faceva avvampare di desiderio. Nella penombra della stanza, la sua pelle chiara appariva come la Luna trasfigurata in lupa, che invitava la bestia a dare libero sfogo alle proprie brame. Si offriva in generoso pegno al suo servo e compagno. Ora, invece, di fronte a me c’è una Luna divenuta donna, che chiede devota sottomissione e venerazione. Vuole che ricambi il dono d’amore appena ricevuto con uno di pari valore, spalancandosi per accogliere il mio umile voto.
L’aria scende nella gola, graffiandola. Tutto d’un tratto, vengo investito da una sorta di lucidità che ridisegna i nostri contorni, rendendoci figure precise, nette, nuove. Due amanti. Noi.
Sorrido stendendomi tra quei lacci dolci e invitanti, lasciando che mi catturino.
«Femmina» ansimo, mordicchiandole l’orecchio. «Ecco la mia femmina».
Trovo non ci sia termine più bello da dire alla propria compagna in questi momenti. Donna, signora, moglie,  madre, sposa, fidanzata,… Tutte definizioni legate ad una concezione limitata alla civiltà umana, ai suoi dettami, ai suoi cliché. E ribadisco umana.
La parola femmina, invece, racchiude in sé il senso più grande e totalitario dell’altro sesso, una parola priva di preconcetti legati ad usi e costumi secolarizzati e, sempre più spesso, abusati. Dopo tutto, quando si parla di “femminino sacro”, “femminilità”, “femminile” si rimane affascinati dall’aura di sottile misticismo che emanano quelle sillabe. “Femmina” riassume infinite sfumature di vita, sentimento, fisicità, pensiero, sessualità, fede… è una parola ancestrale, arcaica, più antica di “donna” e, di conseguenza, molto più densa di significati. Prima del concetto di donna, di signora, prima della lupa, dell’animale, è nato il concetto di femmina.
Nella luce che dall’argenteo sfuma al rosa, sento la carezza della Grande Madre lasciarci soli, presi da un mutuo scambio di affettuose cure.
«Mi ucciderai, prima o poi» ridacchia, accarezzandomi la guancia con un dito.
Ha gli occhi socchiusi ed un sorriso beato sulle labbra gonfie di baci.
«Non ci penso neanche. Al massimo potrei assaggiarti qua e là».
Mi guarda ironica, mettendomi una mano sulla bocca per evitare che porti a termine il proposito.
«Oh, ma tu intendevi… così. Ucciderti di piacere, facendoti godere per tutta la notte» sogghigno leccandole il palmo mentre allungo le dita fra le sue gambe.
Cerca di impedirmi di raggiungere l’obbiettivo stringendole.
«Esagerato. Sei arrivato alle cinque e sono appena le sette e un quarto» geme, rifilandomi un pizzicotto per difendersi.
Si dibatte, piagnucola che la smetta, intreccia le mani alle mie, ride cedendo le armi, sospira languida, si concede a quell’ultimo sprazzo di lussuria trattenendo la mia testa sul suo seno.
Quando la sento vibrare a questo modo il lupo dentro di me si agita, ringhia che non ne ha ancora abbastanza, fa i capricci ululando che la vuole un’ultima volta. Scalcia nelle mie gambe, graffia l’interno dei gomiti, strizza la pancia, impossibilitato ad uscire allo scoperto. Chiede l’accoppiamento della buona notte (o del buongiorno, vista l’aurora che fa capolino tra le tende). Il suo desiderio mi confonde le idee, ma a tenermi con i piedi per terra sono la fibra umana che fatica a tenere il passo di quella lupesca e l’inguine che duole in maniera insopportabile. Se lo facciamo di nuovo, mi si stacca con tutti i relativi annessi e connessi. Garantito.
«Esiste la settimana corta, no? Io faccio la notte corta» scherzo, specificando subito: «Corta e molto intensa».
«E a me piace così» ammicca, scostandomi i capelli dalla fronte sudata.
Sbadiglio soddisfatto ed esausto, sistemandomi meglio nel suo abbraccio.
«Buon riposo, Selene» le auguro.
«Buon riposo, amori miei».



1 Ormoni primer: detti anche feromoni innescanti o scatenanti. Inducono nel ricevente modifiche comportamentali e/o fisiologiche a lungo termine.
   
 
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