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Autore: Ely79    26/02/2013    5 recensioni
Una notte volge al termine e la Luna sta lentamente fuggendo dal cielo. Sono gli ultimi momenti per un lupo mannaro di essere tale, prima di abbandonarsi alle cure della sua compagna umana.
Genere: Commedia, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Beauty of the Beast - La Bellezza della Bestia'
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Nel giardino ogni cosa è immobile. Stanotte non c’è un alito di vento che faccia stormire le foglie della siepe o che sparga la nota intesa delle lavande nelle aiuole. Gli steli dell’erba stanno allineati in una muta parata. Un lampione occhieggia impaurito dietro le fronde d’inchiostro di un albero. Un'auto passa svelta, lontanissima, invisibile. Tutto è come cristallizzato in un fotogramma fatto di pezze di velluto scure drappeggiate sul mondo.
Mi siedo, levando il muso al cielo dove Lei brilla ancora. Inspiro profondamente, tentando di trovare il Suo odore nell’aria della periferia addormentata. La osservo per lunghi istanti, arrabbiandomi perché l’alba già rosicchia il cielo e ci divide un’altra volta. Guaisco piano un saluto, inchinandomi, allungando l’ingombrante mole del mio essere fino a terra.
Odio l’estate con le sue notti troppo brevi e piene di luce. Preferisco l’inverno, con il suo gelo penetrante che mi obbliga a cercare la Sua luce per potermi scaldare.
Camminando semieretto, abbandono l’alone argenteo per entrare in casa attraverso la portafinestra aperta. Avanzo lentamente verso il divano, illuminato da un piccolo disco di luce dorata. Là, raggomitolata nel suo angolo preferito, c’è una donna. La mia compagna umana. Selene. Legge un libro con indosso solo una canottiera e le mutandine coordinate per colpa dell’afa notturna. O almeno è così che diceva ieri, prima che uscissi. Ha l’aria di chi si è svegliato da un sonno agitato, i capelli biondi arruffati e le labbra imbronciate. Finge di non vedermi.
Mi accovaccio accanto a lei, la testa incassata fra le spalle gigantesche, le ginocchia alte, gli artigli anteriori che ticchettano impazienti.
Selene volta una pagina, assorta.
Emetto un lungo grugnito che termina con una specie di sbuffo.
Continua a leggere, imperterrita.
Comincio ad innervosirmi.
Stringo gli occhi in una smorfia impaziente e mi risistemo in quella scomoda posa, battendo con forza i polpastrelli sul pavimento.
Questi sono i momenti in cui l’assenza di una coda si fa sentire. Se l’avessi, potrei sbatterla furiosamente sulle piastrelle fino a farci un buco.
Alla fine, stufo di aspettare, allungo la testa verso la sua. In questo momento sono abbastanza grosso da obbligarla a reclinare indietro il capo e contemporaneamente ad allontanare le mani nella direzione opposta.
«Oh, andiamo! Almeno fammi finire il capitolo!» sbotta, fingendosi arrabbiata e tentando di recuperare quel dannatissimo affare.
Ringhio scoprendo le zanne a pochi centimetri dalla sua faccia e, per ribadire chi abbia il comando, comincio a salire sul divano, una zampa alla volta. Le imbottiture soffiano di disappunto e le cinghie all’interno si tendono con rabbia sotto il mio peso.
«E va bene, hai vinto, brutto lupo cattivo. Leggerò domani» sospira allungando le gambe.
Mi sistemo su di lei, tentando di trovare spazio tra i cuscini per infilare le zampe. Dannazione, sono enormi, me lo ricordo sempre nei momenti sbagliati. Avrei dovuto afferrarla e trascinarla giù di lì, ma ormai ci siamo, ho quasi trovato un incastro perfetto. Scrollo i posteriori, scoprendo di non potermi acquattare come avrei voluto: la zampa destra deve necessariamente rimanere a terra.
«Vacci piano o lo sfondi» suggerisce.
In risposta, agito i fianchi contro i suoi, gli occhi fissi nelle piccole iridi umane mentre mi lecco il muso con aria famelica. Un basso latrato fa vibrare il mio torace.
La luce della Luna si riflette sul tavolino di vetro lì vicino e rimbalza nei miei occhi. Sento nelle orecchie la voce della Sua benedizione:
È tua, ti appartiene. È il dono con cui contraccambio la tua devozione filiale.
L’allusione va a segno, lo capisco dalla sua faccia.
«Non ci pensare neanche» minaccia accarezzandomi, risalendo piano dalla punta del naso, passando fra i miei occhi, su, fino alle orecchie.
Mi strappa un guaito pizzicandone una con forza.
«Per ricordarti che certe cose te le puoi permettere solo da umano» mi ammonisce.
Un’altra voce le fa eco con una risata argentina, la Sua voce. Mi volto a guardare la portafinestra. Aloni iridescenti brillano sui vetri. Dall’interno non riesco a vederLa direttamente, c’è solo la Sua immagine imprigionata e deformata nel tavolino, la Sua voce nelle mie orecchie a punta che si agitano senza posa per captarla.
Selene comincia a grattarmi tra la gola e la parte molle sotto la mandibola. C’è un punto preciso da quelle parti, che ha scoperto e conosce solo lei; un punto che scatena un torrente di piacevolissimi brividi, tanto intensi da paralizzarmi. Gli artigli della posteriore destra ticchettano ad un ritmo convulso sulle piastrelle, sembrano nacchere.
Prendo fra i denti un lembo della canotta, la strattono un poco, solo per giocare, poi comincio a tirare delicatamente verso l’alto per sfilargliela. Delicatamente quanto può consentire questo corpo immenso e smisuratamente forte, contratto in una posizione scomoda e precaria.
«Ehi… piano…» si lamenta lei, faticando a nascondere un sorriso.
Riesco ad infilare il naso sotto la stoffa e spingerla un po’ più in su, fino a raggiungere il suo seno. Il tepore della sua pelle nuda ed il profumo che emana sono un invito prepotente, elementi troppo concentrati nella sottile lama d’aria sotto al tessuto.
«Oh, ma che bella museruola ti sei messo. Ti dona il cotone blu col pizzo bianco» ridacchia, sfiorandomi la punta del naso con un bacio.
Sbuffo e grugnisco, agitandomi. La stoffa arricciata sul naso mi dà fastidio, sento il pelo incastrato fra le pieghe che m’impedisce di sgusciare via senza strappare tutto. Tuttavia, quest’inconveniente ha i suoi lati positivi: in questa posizione, ad esempio, lei non può riprendersi quel dannato libro, né trovare altre scuse per ignorarmi. E non voglio essere ignorato. Voglio che mi guardi, che mi tocchi, che mi parli. Io voglio lei.
Inspiro profondamente, la mia cassa toracica immensa e massiccia che preme contro Selene, la schiaccia fra i cuscini, la pelliccia le fa il solletico. Sporgo la lingua tra le zanne, implorante.
«Spiacente. Ora te ne resti lì buono buono finché non finisco il capitolo» dice, cercando di allungare la mano per recuperare il libro.
Il gioco mi ha stancato e il contatto con il suo corpo mi fa impazzire almeno quanto l’impossibilità di tastare la tonda superficie della Grande Madre Celeste. Ringhio irritato, piazzando una zampa aperta sulla spalliera del divano. Gli artigli affondano pericolosamente nel rivestimento, minacciando di lacerarlo. Selene s’immobilizza un istante e ritrae il braccio con molta cautela.
Scalcio ed il volume finisce sul pavimento con un fruscio di pagine sparse, ma ancora integro. Do un’altra spinta con la testa e nel frattempo ricomincio a muovere le zampe, strusciandole contro i suoi fianchi per sfilarle il resto. La Luna non ha bisogno di vesti per mostrare la sua bellezza, persino le nubi che la oscurano di tanto in tanto scivolano via, lasciandola sola, libera, lucente. Nuda. Voglio che anche lei si mostri come la Luna, la mia altra luna.
«Calmati. Faccio io» obbietta sottovoce, sfilando lentamente la canottiera.
Nell’aria si libera la fragranza per il corpo che usa dopo la doccia. Tè verde. Sa fare bene i compiti la mia ragazza: quella che ha addosso non è una di quelle orrende porcherie chimiche, fasulle e zeppe di componenti che mi feriscono il naso. L’olio che la riveste è una rugiada deliziosa e invitante, fresco e pungente, stuzzicante. Perfetto nella sua assoluta naturalezza.
Strofino muso e gola sul suo petto, faccio scorrere con attenzione le mie dita ibride su di lei, beandomi della sensazione di tenera intimità che riesce a filtrare attraverso la pelliccia stregata. Ascolto il suo respiro aumentare leggermente il ritmo, presagio di ciò che succederà a breve. Godo del contrapporsi dei pieni e dei vuoti delle sue forme, che sembrano disegnare uno di quei paesaggi collinari dove un licantropo può passare le notti intere a correre e cacciare senza sosta, ebbro di gioia e di Luna. Lascio che affondi le mani nella pelliccia, seguendo linee che la mente lupina non comprende ma il cui senso è intuito da quella umana. Il suo sguardo fruga il mantello stregato, in cerca dell’altro me, il Figlio della Luna nella sua forma incompleta.
Un artiglio aggancia lo slip, tirandolo. Gesto involontario: proprio non riesco a stare sul nostro divano quando sono trasformato. Acquisto un numero di taglie imprecisato ed ingestibile, mi sento legato, bloccato da pastoie invisibili.
«No, ti prego… l’ultimo me l’hai distrutto!» geme, cercando di calmare la frenesia che il fastidio di quel debole laccio mi procura. «Per favore! Questo completo mi piace così tanto!»
Guardo l’artiglio tendere la stoffa, le orecchie appiattite indietro. Muovo piano le dita, ascoltando la sua reazione di tesa impazienza. Basterebbe un nulla, uno scatto appena accennato, e la stoffa si strapperebbe, lasciandola finalmente nuda. Una dolce luna di carne nella luce della sua celeste omologa, bisognosa delle cure del suo devoto lupo mannaro, calda e consapevole vittima sacrificale del mondo antropico.
L’eccitazione mi confonde, mi agita, scaricando nel mio sangue desideri e fantasie.
Inizio a leccarle il collo, affettuoso, ma l’istinto predatorio avanza già verso i passi successivi: annusarla, addentarla piano sulla spalla, stringerla, leccarla di nuovo, voltarla, bloccarla sotto di me. Prenderla.
La Luna imprigionata nel piano di vetro ha un guizzo, il riverbero latteo mi ferisce con violenza gli occhi, richiamandomi all’ordine. I lupi mannari non si uniscono agli esseri umani mentre vivono la forma completa. Sarebbe improprio, indecente, contro natura, oltre che smisuratamente doloroso e rischioso. Li uccideremmo senza neppure accorgercene.
Sfilo la zampa, cercando di fare più attenzione possibile. Selene mi aiuta e tira un sospiro di sollievo quando l’elastico torna incolume ad abbracciare il suo fianco. Mi passa le mani sul petto, sulle spalle, torna a sfiorare il punto segreto in segno di ringraziamento.
Uggiolo come un cucciolo festante.
«Dove ti sei rotolato? Sai di erba appena tagliata» chiede, nascondendo la faccia contro il mio collo prima di sgusciare via dal divano.
Sa che non le risponderò. Ora perché mi è impossibile e più tardi perché mi è proibito. I luoghi dei raduni sono segreti, anche per i nostri partner umani. Solo noi e la Grande Madre li conosciamo.
La seguo, dandole colpetti col naso sul sedere; schiocco le mascelle fingendo di volerlo addentare. Ride accondiscendente imboccando le scale che portano alla nostra stanza.
Odio i gradini, i loro spigoli innaturali, la pendenza costante altrettanto artificiosa, la ridicola balaustra che potrei sfondare con una spallata ben assestata, la parete fredda sull’altro lato. Odio questa forzatura, ma è necessario spostarsi di sopra. Non possiamo correre il rischio che qualcuno veda la metamorfosi. Già i minuti passati di sotto sono stati un rischio.
Mi impongo di concentrare l’attenzione su Selene che mi precede di due passi, lasciandosi dietro una traccia di calda, confusa emozione. Spalanco la bocca per raccogliere ogni voluta, ogni goccia che dalla sua pelle si disperde nell’aria. È un richiamo silenzioso e potente, che obbliga l’animale all’inseguimento, ad azzerare le distanze per potersi abbeverare a quella chiamata.
Fulmineo, infilo il naso in quel piccolo ritaglio tra il suo corpo e le gambe, un minuscolo vuoto all’interno della sua figura, che sembra fatto apposta per questo. Lei sobbalza, cacciando uno strilletto. Non la sento, né mi accorgo subito del tremito che la percorre: l’odore del suo corpo, della porta che conduce al suo interno umido e accogliente, la caverna pulsante di vita che mi attende… è un profumo che mi stordisce. Una scarica furiosa di adrenalina mi attraversa e devo dare fondo alla mia devozione per non cedere e ricominciare a giocare con lei.
«Ma sei matto? Vuoi farmi cadere?» protesta poco convinta.
Siamo lì, fermi sulla scala, un lupo gigantesco con la testa appiccicata, letteralmente infilata fra le sue gambe di donna che minacciano di cedere da un momento all’altro. Non so se sia l’eccitazione o il timore atavico verso il selvatico che ogni essere umano si porta dentro. Il problema è che, di riflesso, la mia indole di cacciatore davanti alla preda inerme dilaga. Sarebbe così facile spalancare la bocca ed affondare le zanne nella morbidezza invitante della sua carne.
Respiro con calma. Lei anche. Immobili. Un unico animale mostruoso e vibrante, donna-licantropo-coppia-amanti.
I secondi scorrono indolenti nella semioscurità che si affievolisce con l’avanzare dell’alba.
«Vogliamo star qui per molto?» riesce a dire finalmente.
Accenna a fare un passo, ma la blocco afferrandole la caviglia. Riporto il piede sul gradino, più in là di dov’era prima. Annuso la sua pelle, scaldandola, salendo e scendendo lungo la linea nascosta delle ossa.
Spingo avanti la testa, scivolando sotto di lei, superando l’arco delle sue ginocchia fino a farla sedere sulle mie spalle.
La guardo da sotto in su, aspettando la sua approvazione.
«Romanticone» sorride, grattandomi fra le orecchie.
   
 
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