Anime & Manga > Naruto
Segui la storia  |       
Autore: u s h i o    28/02/2013    5 recensioni
“E tu che cosa desideri, Sakura?” riprese parola sviando il discorso.
“Non penso di poterlo dire” mormorò lei con tono insicuro. Sasuke poteva percepire le mani di lei strette attorno a sé tremare leggermente.
“Sì che puoi. Dillo”.
Sakura sgranò gli occhi verdi non appena sentì la mano di Sasuke coprire delicatamente la sua, ancora poggiata sul suo fianco. La mano di lui si era semplicemente adagiata sulla sua, in modo delicato e gentile, senza stringerla minimamente, bensì sfiorandola soltanto. Il resto del corpo di Sasuke intanto non si era mosso di un millimetro, quasi come se volesse fingere di non aver fatto nulla. La sua mano era lì, senza pretese, facendo soltanto notare a lei che la sua presenza c’era. Un gesto delicato, effimero, semplicemente da Sasuke.
“Non potrei desiderare nulla di più che non sia stare con te” confessò lei, dopo aver preso coraggio dal gesto – che chiunque avrebbe considerato insignificante, ma non lei – di Sasuke. Prese ancora fiato, cercando ancora una volta il coraggio perduto. “Ma l’unica cosa, forse, sarebbe...” aggiunse “un bambino”.
[SasuSaku] - E, beh, Sasuke papà.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: AU, Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

いつまでも、いつまでも守ってゆく
Ti proteggerò sempre, per sempre







Capitolo 4. ... just one ordinary thing.




“Ho continuato a vivere soltanto perché ero vivo. Mi svegliavo, andavo al lavoro, mangiavo e dormivo.
 
Non facevo altro che ripetere la solita routine dettatami dal mio corpo. Era questa la mia vita.
 
Vivevo come se dovessi punire il mio corpo. Lavoravo senza pensare, cercando di dimenticare tutto.
 
Guardando in faccia la realtà sarei potuto crollare da un momento all’altro.
 
Ho vissuto, senza mai pensare a nulla. Non volevo pensare a nulla.
 
Ho pensato che tutto fosse stato un grosso sbaglio.

[cit.]

 
 
 
“Sarò lì per le cinque e trenta” disse atono con il cellulare in mano “a dopo”.
Mise il telefono nella tasca dei jeans, attraversando la strada e dirigendosi a passo lento verso il grande edificio che ospitava la riunione alla quale era diretto.
Le strade di Tokyo erano sempre affollate e caotiche. Era già tanto riuscire a pensare, in mezzo a tanto rumore. Gli piacevano, gli piaceva camminarci e viverci per questo motivo. Erano le strade di quella metropoli che non gli permettevano di pensare in alcun modo, che cancella qualsiasi cosa dalla mente.
Era esattamente ciò che cercava.
Nel momento in cui si era trasferito  in quella città, quattro anni prima, aveva pensato subito che sarebbe stata l’ideale per lui: una città che non permetteva di essere nessuno se non un comune numero. Un niente che cammina.
Era giusto fare a meno della propria anima e ridursi a non esser nulla che non sia una macchina, un numero, un niente?
Non si era più posto domande simili. Aveva deciso che era meglio vivere per compiacere gli altri, vivere per punire se stesso per non aver fatto altro che lasciarsi sfuggire le occasioni più preziose, le persone più care. Aveva deciso di vivere aggrappandosi a quel poco che era rimasto della sua anima ormai a brandelli. La forza per andare avanti e persino la forza per respirare era diminuita sempre più, ogni giorno che passava. Aveva deciso di indebolirla. Aveva deciso di vivere una vita piatta, una vita fatta di niente se non di continue punizioni a se stesso.
Alzarsi. Lavorare. Tornare a casa. Mangiare. Dormire.
La sua vita era diventata soltanto quello, niente più. Non era più una persona, non aveva più una vita propria; era un semplice numero che si muoveva soltanto per compiacere gli altri e le loro richieste. Il capo di lavoro, la pattuglia, la signora che chiedeva di portare la spesa, i vicini. Chiunque, bastava compiacere gli altri e ancora punirsi.
In quei pochi e rari giorni in cui non lavorava, o in cui non gli lasciavano fare gli straordinari per cui era lui stesso a proporsi, sprecava i suoi soldi in qualche locale di basso rango.
Aveva cominciato  a bere. A fumare. Tante volte tornava a casa così pieno di schifo – senza trovare nessuno sulla soglia di casa sua disposto a pulirlo da tutto ciò che aveva buttato in corpo – che la mattina dopo nemmeno si ricordava cos’avesse fatto. Ma andava comunque sempre a lavorare, senza lamentarsene mai. Non gliene fregava più niente, né della sua salute né del suo rendimento lavorativo. Tutto era utile se poteva togliergli il fardello che si portava dentro continuamente.
In quegli anni non aveva fatto altro che autodistruggersi, aspettando con pazienza di arrivare al giorno in cui tutto quel niente, tutto quel grigio, tutto quel suo vivere da miserabile avrebbe finalmente visto la parola fine. In quei quattro anni si poteva dire che fossero cambiate molte cose, ma in realtà la sua mente era rimasta ferma a quel freddo giorno di dicembre. Nulla era andato avanti, se non fosse stato per il calendario e per il continuo passare delle stagioni probabilmente non si sarebbe nemmeno reso conto di quanto tempo fosse passato da allora.
La sua decisione di estraniarsi da tutto ciò che aveva conosciuto e amato in passato era stata una scelta del tutto egoista, lo sapeva, e forse – in fondo – gli piaceva anche ammetterlo; non se ne vergognava e non ne faceva segreto. Non si pentiva di aver lasciato indietro tutti i suoi conoscenti e gli amici, i suoceri, il suo migliore amico, e... non riuscì mai a completare la frase.
Si convinse che la vita senza di lui, per chiunque, sarebbe stata migliore. Più luminosa. Più bella. Più gioiosa. Meno sfortunata. Si convinse che lo stare da solo sarebbe stato meglio per chiunque, lui compreso.
Arrivò addirittura a odiare la persona che – ai suoi occhi troppo assuefatti dalla rabbia – gliela portò via, quella notte. Colui che, secondo la sua distorta visione accecata dal dolore, era in qualche modo colpevole – insieme a se stesso – della sua morte. Era arrivato a odiare il sangue del suo sangue e c’erano persino volte in cui, svegliando per un attimo la sua anima dalla completa apatia, si sentiva un totale mostro nel farlo.
Aveva preso coscienza del fatto che probabilmente sarebbe sempre stato meglio non avere legami, che i legami non portavano altro che sofferenza e dolore una volta persi. E lui, quei preziosi legami, li aveva persi tutti – o quasi. Dopo aver perso anche la sola persona che era stata capace di portare ancora la luce nel suo mondo che non era diventato altro che buio e statico, aveva perso definitivamente la voglia di vedere qualsiasi colore illuminarlo ancora una volta.
Forse era il nero il colore a cui era davvero destinato.
Man mano che le persone se ne andavano era solito andarsene anche un pezzo di lui, e tutto ciò che ne era rimasto nel tempo, man mano che coloro a cui teneva lo avevano lasciato, era a malapena sufficiente a tenerlo in vita. Qualcuno aveva definito ciò che gli era accaduto negli anni precedenti giusto, qualcun altro normale, qualcun altro invece si era limitato a dire che prima o poi una cosa del genere capitava a tutti.
Chi decideva cosa era giusto e cosa era normale? Era normale perdere tutto? Era normale non riuscire a costruirsi una vita come quella di tutti gli altri? Era normale che il giorno più bello della propria vita si trasformasse in un vero e proprio incubo? Questo era ciò che veniva definito giusto?
No, non era giusto. Era stato tutto un errore.
Era stato un errore aver pensato di poter riprovare ad assaggiare una felicità che in fondo non gli sarebbe mai appartenuta. Era stato un errore conoscerla, sposarla, decidere di avere un figlio con lei; perché tutto aveva portato alla perdita di un’altra persona a lui cara. Dopo la morte di suo fratello – cancro ai polmoni, gli avevano detto i medici, ma lui da ragazzino quale era non aveva mai voluto ascoltarli perché per lui gli era stato portato via – si era ripromesso di non caderci più, perché quella ferita era talmente dolorosa che bruciava ancora dopo anni e anni dall’accaduto. Non voleva più procurarsi ferite, ma inspiegabilmente era caduto ancora una volta in quella trappola chiamata legami.
 Il volersi innamorare, creare una famiglia, avere un posto da chiamare casa... era stato tutto sbagliato. Un errore che, anche per colpa sua, aveva portato alla distruzione completa di quel piccolo mondo che era stato capace di creare anche dopo averlo visto distruggersi più di una volta – con la perdita dei genitori, del fratello, e infine anche di lei.
Non si era nemmeno più chiesto cosa fosse giusto, chi stesse ferendo, come si stesse comportando nei confronti di coloro che erano rimasti. Era semplicemente aggrappato a ricordi, a persone, a sentimenti che non sarebbero mai più tornati. Sensazioni effimere che sarebbero rimaste scolpite solamente nei suoi ricordi.
Non permise mai a se stesso di provarne altre, in quei quattro anni, quasi come per paura di tradire quelle vecchie che tanto aveva amato. Un sorriso di sua madre, uno sguardo in più di suo padre, un buffetto affettuoso di suo fratello, un suo bacio a fior di labbra. Non si lasciò mai più andare a una sola emozione, pur consapevole che al mondo c’erano ancora persone in grado di donargli qualcosa. Anche tutto un mondo.
Semplicemente, non voleva più nulla.
Dopo aver preso parte alla riunione di lavoro si diresse stancamente nel bar che frequentava da qualche mese a quella parte. Cambiava spesso posti, ma man mano che il tempo e gli anni passavano si ritrovava in posti sempre più miseri – come in fondo lo stava diventando anche lui.
“Una sambuca” ordinò poco gentilmente al barista, mentre si sedeva sullo sgabello posto di fronte al bancone in legno lucido.
“Vai già sul pesante, Uchiha?” domandò l’uomo anziano in risposta, ridacchiando. “Di solito parti dalla birra, strano”.
“Fammi questa benedetta sambuca e dacci un taglio” sputò secco, porgendogli i soldi sulla superficie legnosa e facendo sì che l’altro si mettesse subito al lavoro. E infatti fu esattamente ciò che fece il barista, seguendo alla lettera l’ordine del suo ormai cliente affezionato. Passò una, poi due, poi tre ore e buttò giù quasi tutta la bottiglia di sambuca.
Da solo e in silenzio.
Chiunque provasse ad avvicinarsi a lui – cosa che capitava spesso, soprattutto da parte di donne e ragazze – anche solo per condividere qualche bicchiere d’alcool veniva brutalmente mandato via senza alcun tentennamento.
Una volta deciso di darci un taglio – per quella sera soltanto – con il bere, si avviò verso l’uscita e tirò fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca destra dei jeans con quel poco di lucidità rimastagli in corpo dopo tutto l’alcool buttato in corpo, per poi – accorgendosi di non avere nulla con cui accenderne una – girarsi bruscamente verso una giovane donna in piedi a pochi passi da lui e chiederle un accendino. Lei lo mangiò con lo sguardo.
“Certo, bellissimo” fece poi la donna allungando il pugno in sua direzione con fare seducente. Sasuke afferrò il piccolo oggetto dalla mano di lei, accese la sigaretta e glielo restituì lanciandoglielo e facendoglielo prendere al volo, senza nemmeno preoccuparsi di ringraziarla.
“Potresti venire a fare un giro con me, ogni tanto” lo stuzzicò ulteriormente, con voce ancor più sensuale e provocante “ci potremmo divertire, insieme”.
“Sparisci” fu la sola risposta che uscì dalle labbra di lui, ancora occupate dall’aspro sapore della sigaretta che teneva fra le labbra. La donna, sentendosi giustamente offesa, alzò i tacchi e si allontanò – probabilmente lanciandogli un numero indefinito di insulti borbottati.
Sasuke non se ne curò, standosene immobile di fronte al locale a fumare l’ennesima sigaretta della giornata e aspettando che lentamente arrivasse alla sua fine, scrollando la cenere di tanto in tanto compiendo minuscoli movimenti con le dita. Una volta finita la sigaretta, pregna di tristezza e malinconia piuttosto che di tabacco, percorse la solita strada fino a casa sua, quella di ogni sera; quella che ormai conosceva  come le sue stesse tasche per tutte le volte che l’aveva fatta a piedi o con qualsiasi altro mezzo di trasporto. Non badò a niente e nessuno – tantomeno a coloro che si offrirono per aiutarlo – nonostante si reggesse a malapena in piedi, e aspettò solo di arrivare in casa propria prima di decidersi a rimettere tutto ciò che aveva bevuto quella sera. Si fiondò in bagno in velocità e si inginocchiò di fronte alla tazza del gabinetto, poggiandoci un braccio sopra e tossendo ripetutamente. Dopo numerosi colpi di tosse riuscì a vomitare, riprovando quel senso di vuoto che gli si presentava ogni volta che compiva quello che ormai era quasi diventato un rito.
Era un vero e proprio inferno, nel vero senso della parola.
Tossì ancora due o tre volte mentre allungava a fatica un braccio verso l’alto per tirare lo sciacquone e, non avendo forze per alzarsi e sciacquarsi la bocca, si stese sul morbido tappeto del bagno, posando lo sguardo sul soffitto e aspettando solo di prendere sonno e di dire addio a un’altra giornata infernale. Non passò molto tempo prima che la sua poca lucidità scemasse, lasciando spazio soltanto a un irrimediabile e immenso nero; abbandonò la testa contro il tappeto soffice, perdendo i sensi.
E fu solo buio.
 
Un forte strattone alla sua spalla lo destò dal sonno. Sentì la testa pulsare e senza accorgersene portò una mano a posarsi sulla nuca per massaggiarla, almeno tentando di placare quella fitta terribile. Attraverso le palpebre ancora chiuse sentì la luce proveniente dalla finestra pulsare in modo quasi fastidioso. Era giorno.
“Sasuke!” irruppe una voce. Una voce fin troppo conosciuta. “Sasuke, avevi lasciato la porta aperta! Sei matto?”.
Si sentì strattonare più e più volte la camicia bianca che indossava dal giorno prima, e preso così dalla curiosità di voler capire chi fosse, schiuse le palpebre a fatica di qualche millimetro – la sua vista era ancora annebbiata e non fu in grado di mettere subito a fuoco la figura di fronte a lui. Si maledisse per non trovare la forza per cacciare via quella persona, chiunque fosse.
“Sasuke!” urlò per l’ennesima volta, e ad ogni parola in più pronunciata da quella persona Sasuke sentì di sapere a chi apparteneva realmente.
“Poteva entrare chiunque, capisci? Per fortuna che sono arrivato. Dai, apri gli occhi!”.
E così fece Sasuke. Aprì gli occhi e capì di aver indovinato fin dal primo Sasuke che aveva sentito e da quel modo di parlare così particolare e riconoscibile.
Non appena riacquistò la lucidità necessaria si allontanò con fare diffidente, come se l’altro scottasse.  Riuscì chiaramente a vedere il disagio nelle iridi dell’altro, e poteva dire che quella era una delle poche cose che ancora fosse in grado di smuovere qualcosa dentro di lui.
“Che ci fai qui? Ti avevo detto di non provare più a venire” sputò poi con sdegno, ignorando l’evidente sofferenza negli occhi dell’altro “…Naruto”.
L’altro ignorò – come sempre, del resto – le sue parole e, senza nemmeno pensarci, in pochissimi istanti si slanciò ad abbracciarlo forte; non preoccupandosi dell’ostilità evidente che mostrava Sasuke da anni a quella parte nei suoi confronti. Naruto posò delicatamente una mano sulla sua nuca, raccogliendo un paio di morbide ciocche nere fra le dita e con l’altro braccio gli cinse le spalle in modo forte e deciso. Cercava – invano – di fargli sentire l’immenso affetto che provava per lui.
“Sasuke…” il suo nome uscì dalle sue labbra come un singhiozzo, senza percepire nemmeno il bisogno di piangere. “Non puoi continuare così, non posso vederti così”.
Sasuke volse gli occhi al soffitto non sapendo né cosa dire, né cosa fare. Non lo allontanò, non ricambiò l’abbraccio, non disse nulla. Semplicemente rimase lì, senza fare assolutamente niente. Quasi come se fosse morto fuori e non solo dentro.
“Smettila” disse soltanto, con tono debole.
“Di fare cosa?” domandò allora di rimando l’amico, non capendo cosa intendesse. Si allontanò dalla sua spalla indietreggiando, così da poterlo guardare negli occhi.
“Di continuare a starmi appresso. Fatti una vita.”
Rimase spiazzato dalla risposta di Sasuke, che suonò come una supplica più che un ordine. Aveva lo sguardo incredibilmente vuoto, come se lo ricordava dall’ultima volta che lo aveva visto; le pupille quasi si confondevano con le iridi e lo osservavano come per perforarlo.
“Non lo farò mai” insistette Naruto, senza mai smettere di guardarlo come se potesse infondergli quel poco di speranza che gli era ormai rimasta. “Mai, Sasuke. Lo sai.”
Tutto ciò che ricevette in cambio di quella che avrebbe dovuto essere una promessa fu uno spintone che prontamente lo allontanò dall’amico – più di quanto già non lo fosse spiritualmente – facendogli perdere l’equilibrio sui piedi così da cadere a terra.
“Vattene” sbottò Sasuke mentre si alzava dal pavimento cercando di reggersi sui palmi delle mani. Passò un polso lungo le labbra così da pulirsi e una volta in piedi si appese al lavandino con la poca forza rimastagli in corpo, accese l’acqua e iniziò a sciacquarsi il viso stanco, segnato da occhiaie quasi indelebili.
Naruto rimase a terra, osservandolo. “Non me ne vado, c’è bisogno di te” rispose infatti scoprendo – a malincuore – tutte le proprie carte “e questa volta sul serio, non solo per il mio egoistico bisogno di te.”
Sussultò alle parole di Naruto, mentre si asciugava senza troppa calma il viso. Bisogno?
Fece un sorriso amaro nel voltare le spalle a colui che fino a qualche tempo fa avrebbe definito migliore amico, superando l’uscita del bagno e dirigendosi verso le altre stanze.
“Fatti… fatevi passare il bisogno di me” mormorò andandosene.
Naruto non perse tempo e si alzò subito in piedi, intercettando quelle parole. “Sasuke, la tua…” si bloccò d’improvviso, un’espressione triste in volto. Sasuke si era fermato. “La vostra casa dev’essere venduta. Devi tornare.”
“Perché? Non potete cavarvela da soli?”.
La domanda di Sasuke suonò così sofferta che Naruto non seppe capire quante emozioni – seppur volesse negarle – stessero tormentando la sua mente. Strinse i pugni, cercando un modo per convincerlo a compiere quella scelta che avrebbe potuto cambiare la sua vita, che non era più degna di essere chiamata tale.
“L’intestatario sei tu” rispose, e gli sembrò che fosse passata una vita.
“Non voglio tornare, smettila di cercare stupide scuse”.
Naruto sbatté un pugno contro il muro bianco di casa sua, fulminando con lo sguardo le spalle di Sasuke – che continuava a rivolgergli la schiena, senza il coraggio di fronteggiarlo davvero. “E tu smettila di scappare!” sbottò quasi urlando. “Sei un codardo, Sasuke!”.
Fu un momento, e in pochissimi secondi si ritrovò con le spalle al muro, il colletto della maglia tirato e il viso di Sasuke a pochissimi centimetri dal suo viso contratto in cipiglio infuriato, gli occhi d’alabastro che lo fulminavano.
“Non ti azzardare a chiamarmi così, pezzo di merda”.
Non badò all’insulto, sapeva benissimo che Sasuke era perfettamente capace di insultarlo ogni volta che voleva. Che entrambi ne erano capaci. Che potevano prendersi a pugni, parolacce, bestemmie, ma che alla fine niente riusciva a spezzare l’amicizia che li legava.
Scosse la testa, e “lo sai che è vero” iniziò a parlare. “Non ho detto niente, quattro anni fa, quando sei venuto qui a Tokyo per il motivo che tutti sappiamo, perché credevo ti sarebbe servito per elaborare e superare il dolore. Ma ora stai perseverando, da quattro fottutissimi anni! E questo è da codardi. Prendi in mano la tua vita senza continuare a scappare da ciò che è successo!”.
Riprese fiato dopo essersi reso conto di non aver mai fatto neanche una minima pausa per respirare, visto il nervosismo che percepiva in tutto il corpo. La risposta di Sasuke, però, arrivò come una lama tagliente dritta nel suo petto.
“Tu non puoi capire niente di quello che ho e di quello che è successo!”.
Quella era una frase sentita così tante volte dalle orecchie di Naruto che lo fece sospirare per noia mista a tanta, troppa rabbia; e gli fece distogliere gli occhi azzurri da quelli furenti di Sasuke a pochi centimetri di distanza, riflettendo per qualche secondo su come controbattere. Tutto ciò che era rimasto da dire era semplicemente la verità, per quanto potesse ferire – ulteriormente – il cuore di Sasuke già fin troppo ammaccato.
“Cosa c’è da capire? Lei è morta e tu l’amavi. In questo cosa c’è da capire, Sasuke?” gli domandò infine con una sfumatura di disprezzo nei confronti dell’ostinazione dell’amico nel continuare ad escluderlo come fosse un estraneo, facendo un sorriso amaro.
A quelle parole vide chiaramente lo sguardo dell’altro cambiare, da furioso che era pochi attimi prima, a spiazzato. La bocca di Sasuke era schiusa, come se avesse voluto dire con tutto se stesso qualcosa, o ribattere in qualche modo a quelle frasi così dolorose, ma alla fine non fu in grado di dire nulla. Abbassò il capo e allentò la presa sulla maglia di Naruto; aggrottò le sopracciglia come trattenendo qualcosa dentro di sé di così pesante che, se solo avesse provato a lasciarlo uscire, probabilmente non sarebbe più riuscito a tornare indietro.
Naruto capì fin troppo bene di essere riuscito nel suo intento – colpire un punto fin troppo dolente in modo da smuoverlo in qualche modo – e prese fiato, pronto a parlargli di nuovo. A cercare in qualsiasi modo di toccare il suo cuore.
La mano di Sasuke tremava impercettibilmente contro la stoffa della sua maglia. Le parole per un momento gli mancarono, nel sentire quella stretta così insicura – quasi quanto lui stesso – e cercò in tutti i modi di trovare la forza necessaria da dentro di sé per tirare su dal baratro anche il suo amico, e per non affondare con lui.
“Ascoltami, Sasuke. Affronta la tua vita. E anche se non vuoi farlo, devi tornare stavolta.”
Fu la volta di Sasuke, stavolta, nel fare un sorriso amaro. Ma, decisamente, quel sorriso esprimeva tutta l’amarezza, la stanchezza e la tristezza di un uomo ormai distrutto. “Io non devo fare proprio un bel niente” rispose, con voce rotta. Lasciò la maglia di Naruto, allontanandosi da lui quasi come se la sua vicinanza scottasse.
“Ah, quindi è così? Il grande Sasuke Uchiha non ha nemmeno il coraggio di tornare per vendere una fottuta casa disabitata a causa della sua fuga?” lo provocò l’altro.
Lo vide stringere i pugni. Le nocche erano ormai lattee per quanta forza stava raccogliendo solo in quella specifica parte del corpo. “Piantala” sibilò.
“Lo sai che ho ragione.”
“Smettila, Naruto” alzò di nuovo il volto in sua direzione, mostrandogli ancora una volta quegli occhi colmi di dolore e rabbia. “Smettila di fare il finto saggio quando non sai nemmeno in che mondo vivi! Quando non sai neanche cosa si prova al posto mio!”
“Perché tu non mi permetti di starti vicino!” gridò di rimando Naruto, spazientito.
Sasuke scosse la testa, come se l’altro avesse detto la cosa più stupida del mondo. “Non ne vale la pena”.
“Bene, non ne vale la pena” acconsentì. “Però non credo ti costi molto tornare solo per fare qualcosa di obbligatorio. Fai quello che devi fare, e quando avrai finito potrai benissimo tornare qui. Non ti fermerò.”
“Mi hai chiesto così tante volte di tornare definitivamente a casa” cominciò a parlare Sasuke “che dovrei crederti adesso?”.
Era vero. Naruto non aveva mai mollato la presa, nonostante fosse stato ignorato più volte da Sasuke durante quegli anni. La sua mano era rimasta sempre tesa aspettando che lui l’afferrasse e che tornasse ad accettare tutto ciò che aveva lasciato indietro. Sasuke spesso e volentieri non rispose alle sue telefonate, lo lasciò fuori di casa quando provava ad andare a trovarlo – e a convincerlo, possibilmente – e non gli mostrò mai un minimo segno d’affetto.
Tutta quella preoccupazione da parte di Naruto, però, lo atterriva. Il suo non arrendersi lo spaventava come non mai.
“Credimi, questa volta non forzerò nulla” rispose l’amico “fai quello che devi fare, poi sarai libero di decidere della tua vita come meglio crederai. Non voglio più fare l’egoista bisognoso del suo migliore amico” snocciolò tutto d’un fiato. “Però, torna. È tuo dovere.”
“Smettila” ripeté per l’ennesima volta Sasuke in risposta “tornatene a casa, smettila di insistere.”
Non appena pronunciò quelle parole vide Naruto, di fronte a sé, cambiare totalmente espressione in meno di un secondo. I suoi occhi zaffiro quasi scintillavano dalla rabbia.
“Cosa credi di fare, eh?” cercò di restare calmo nonostante tutto di lui stesse per esplodere – e Sasuke lo sapeva. Infatti non ci volle molto prima che esplodesse, gridando a tutta voce. “Startene qui per tutta la vita senza affrontare quello che ti è successo? Scappare per sempre? Lasciarti morire?” urlò, e fu la volta di Naruto nell’afferrare il colletto della camicia – ormai quasi sgualcita – dell’altro, sbattendogli finalmente in faccia tutto il marcio che si era tenuto dentro durante la sua dolorosa assenza. A Sasuke per un secondo parve di vedere gli occhi di Naruto diventare in velocità lucidi, ma abbassò lo sguardo prima di poterlo verificare.
E fu allora che Naruto fece luce su ciò da cui Sasuke si stava nascondendo da quattro anni.
Lui sa di te.”
Arrivò chiara e coincisa la voce dell’altro alle sue orecchie. Spalancò gli occhi, capendo all’istante a chi si stesse riferendo in quel momento e sbiancò al solo pensiero, ritrovandosi incapace di fare né dire niente. Naruto lo aveva spiazzato, probabilmente ben consapevole del fatto che se solo avesse provato a tirare fuori quell’argomento la reazione di Sasuke non sarebbe potuta essere controllata come invece lo erano – più o meno – quelle rispetto a tutti gli altri argomenti. Era la prima volta che tirava fuori quella parentesi in quattro anni.
Sasuke, però, non si accorse del dolore che stava provando anche Naruto nel vederlo completamente perso e quasi del tutto privo di ogni maschera fatta da fredde barriere di impassibilità; non si accorse della sua sofferenza nel vedere il suo amico ridotto così senza poter fare nulla. L’impotenza era una delle cose che Naruto più odiava, soprattutto quando si trattava dell’essere impotente nell’aiutare il suo migliore amico. Le spalle di Sasuke si incurvarono mentre borbottò qualcosa che l’altro non fu capace di sentire, ma non disse più nient’altro lasciandosi completamente andare quasi come se fosse in trance. Gli afferrò con forza una spalla facendolo raddrizzare e fece in modo che tornasse con gli occhi nei suoi.
“Vieni con me, parlerò io col tuo datore di lavoro. Sbrighiamo questa faccenda e poi ti riporto qui. Lo giuro.”
Sembrò come se Sasuke avesse perso la forza perfino per rispondere o controbattere, tanto che alle parole dell’altro annuì, semplicemente. Suscitò sorpresa anche in Naruto stesso, non credendo che sarebbe riuscito davvero a convincerlo – anche se quella di Sasuke sembrava più rassegnazione piuttosto che convinzione. Alla fine, toccando il suo vero tallone d’Achille, premendo quel tasto che nessuno si sarebbe permesso di premere, era riuscito a indebolirlo abbastanza da scioglierlo completamente.
Non si curò di prendere i cambi di vestiti – c’erano ancora quelli vecchi nella sua ex casa – e lo trascinò in fretta al di fuori del suo appartamento prima che potesse cambiare idea – e sapeva che, prima o dopo, lo avrebbe fatto.
Sasuke passò il viaggio in macchina dormendo, in preda alla nausea e ai giramenti di testa tipici di – quasi – tutti i giorni. Era steso sui sedili posteriori, senza nemmeno trovare la forza di dure qualcosa a Naruto, senza neanche trovare la voglia di urlargli addosso che – fin da quando era salito su quella benedetta macchina – voleva tornare indietro.
Il viaggio durò due ore interminabili, in cui nessuno dei due parlò se non per il fatto che Sasuke chiese – o meglio, ordinò – più di una volta a Naruto di fermarsi per vomitare, il quale naturalmente acconsentì tutte quante.
Nel momento in cui Sasuke sentì la macchina fermarsi sentì un fremito lungo tutta la spina dorsale. Solo allora si alzò a sedersi e vide la sua vecchia casa. Sembrava tutto così uguale ad allora.
 

“Sasuke-kun.”

 
Gli parve di sentire.
Sgranò gli occhi neri, cercando di capire cosa gli stesse succedendo e stupidamente si guardò intorno per verificare che realmente non ci fosse. Non prestò nemmeno attenzione a Naruto che intanto lo osservava dallo specchietto retrovisore con una sfumatura di preoccupazione negli occhi. Posò lo sguardo sulla struttura dell’edificio, e lo spostò infine sulla finestra in alto a sinistra, quella che casualmente era la più piccola fra tutte ma che a lui era sempre parsa la più grande. Si era sempre affacciata al suo mondo.
 

“Sasuke-kun, okaeri*.”
 

Disse ancora quella voce. Sussultò, nonostante stesse pian piano scemando dalla sua mente. Credette di essere diventato pazzo, per sentirla anche solo guardando la sua… loro casa. Abbassò il capo e chinò la propria schiena, poggiando i gomiti sulle ginocchia e prendendosi la nuca fra le mani; dandosi dello stupido, dell’idiota, del pazzo. Voleva tornare indietro, subito.
Naruto non aveva smesso di guardarlo. Non ci fece caso.
In un momento vide la portiera al suo fianco aprirsi, facendo entrare il vento gelido all’interno della macchina. Rabbrividì, voltando di poco il viso giusto per verificare chi fosse.
“Siamo arrivati, Sasuke. Io devo sbrigare due o tre cose, tu intanto entra.”
Era un tono dolce, quello che usò Naruto. Era stranamente dolce, e fu strano per Sasuke afferrare questa consapevolezza; entrambi erano abituati a insulti, pugni e affetto dimostrato indirettamente. Per un solo secondo gli venne da ringraziarlo, ma non fu in grado di farlo sul serio. Non gli andava, dopotutto.
Non lo guardò nemmeno negli occhi mentre si fece strada per scendere dalla macchina e si fece dare in mano il mazzo di chiavi di casa, quello che non prendeva in mano da così tanto.
Lo girò fra le mani, notando che c’era ancora il portachiavi che aveva messo lei. Schioccò la lingua contro il palato, ignorando la stretta allo stomaco che sentì nel notarlo.
“Tu entra. Ti raggiungo tra un po'” aggiunse poi Naruto mentre rimontava in macchina.
“E che cosa dovrei fare?”.
Aspettò a chiudere la portiera. “Sistemati lì, dopodiché chiameremo l’agenzia immobiliare”.
A Sasuke, in quel momento, sembrò tutta una grandissima scusa montata soltanto per riportarlo a casa, e sentì piano piano salire la voglia di prenderlo a botte pur non avendo la certezza che fosse tutto inventato al solo scopo di farlo ritornare. Possibile che, in caso, ci fosse cascato anche lui?
Alzò un braccio come per richiamarlo, ma vide Naruto chiudere la portiera e mettere in moto la macchina, uscendo dal cancello rimasto ancora aperto. Aggrottò le sopracciglia prendendo seriamente in considerazione l’idea di inseguirlo e prenderlo a calci, ma poi non se ne curò – sapendo che lo avrebbe rivisto dopo poco e avrebbe potuto dargli la lezione che si meritava – e posò nuovamente lo sguardo sulla propria ex casa. Qualche persiana era alzata, ma era comunque tutto spento e il cielo plumbeo rendeva l’atmosfera vagamente inquietante.
Prese un profondo respiro, mentre si avvicinava al portone. Fu sollevato dal solo fatto di essere lì da solo, così nessuno avrebbe visto la sua reazione nell’entrare in casa. Infilò la chiave nella serratura e, dopo qualche minuto di autoconvincimento, la girò due volte e la porta si aprì.
La sorpresa lo colse quando vide che era tutto come quattro anni prima. Nulla era cambiato e tutti i mobili – e soprammobili annessi – erano rimasti esattamente dov’erano. Si chiuse la porta alle spalle e avanzò verso il salone, accendendo la luce. L’interno, a differenza di come immaginava, era riscaldato. Si concesse un giro per tutto il piano nel totale silenzio. Osservò la cucina, il salone – con il suo vecchio pianoforte posto nell’angolo a destra –, lo studio e perfino il bagno, verificando che fosse davvero rimasto tutto come una volta.
D’improvviso si fermò, sentendo dei piccoli passi provenire dal piano di sopra. Aggrottò le sopracciglia e decise di prendere le scale per verificare se davvero aveva sentito bene, ma una volta arrivato al corridoio si fermò ad osservare la porta della loro camera da letto con sguardo malinconico, senza dare importanza ad altro.
“Tu…” sussurrò flebilmente – quasi come se quella stanza potesse sentirlo, quasi come ci fosse lei al suo interno –, prima di voltarsi di scatto verso le scale appena percorse nel sentire ancora quel rumore di passi. Intravide soltanto una capigliatura nera svoltare l’angolo del piano di sotto, e scese nuovamente le scale inseguendola.
“Chi c’è?”. Nessuna risposta.
Entrò in cucina controllando che fosse lì, ma girandosi verso la porta che dava al salotto la vide ancora di spalle. Era di bassa statura, indossava un completino blu. Uscì dalla cucina e arrivò in salotto, cominciando a spazientirsi nel non vedere nessuno nemmeno lì.
“Fatti vedere” esclamò ad alta voce.
Si voltò di scatto non appena sentì un minuscolo verso provenire dalla porta del corridoio che conduceva allo studio e al bagno e si sentì il mondo crollare addosso, tutto d’un colpo. Si rivelò essere un bambino piccolo, intorno ai quattro anni. Teneva le piccole mani sullo stipite della porta, come per nascondersi, e sbucava soltanto il viso che lo osservava con un’espressione tra lo spaventato e il curioso. Aveva i capelli nerissimi, color pece e corti; le labbra fine e il naso all’insù. Mentre lo guardava gli parve di specchiarsi in un altro lui e qualsiasi parola morì nella sua gola.
Era vero, i loro occhi erano proprio uguali.


























*okaeri significa "bentornato a casa" in giapponese.

Note:
Questo capitolo mi ha dato un sacco di problemi. E' stato molto difficile scriverlo, e non ne sono ancora convinta, sembra manchi qualcosa (introspezione?) non lo so. Per il resto, non ho molto da dire... solo, grazie per l'affetto che avete dimostrato recensendo questa storia. Non pensavo sarebbe riuscita a ottenere così tanti consensi, anzi, mi aspettavo l'esatto contrario. Spero vi piaccia anche questo capitolo, e che non vi deluda! Come si può vedere, siamo arrivati alla resa dei conti per Sasuke. Non so quando potrò postare il prossimo visto che lo studio si sta facendo sentire parecchio, ma spero il prima possibile, lavorerò quanto più potrò! Ah, se ci sono errori o vedete che qualcuno è OOC, ditemelo subito e lo scrivo ;_;
(Ricordo che i personaggi non mi appartengono e la storia non è a scopo di lucro.)
Alla prossima!

   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: u s h i o