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Autore: Il_Club_Delle_Felci    01/03/2013    3 recensioni
Lei è la classica pecora nera, lei è la non voluta.
Lei è una potenza gelida e distruttiva, lei è la non amata.
Lei è sarcasmo allo stato puro, lei è solo una ragazza.
Lei ha un nome, si chiama Eve.
Ma questa lei ha anche dei sentimenti.
E, sorprendentemente, saranno degli anelli di cipolla a costringerla a rivelarli.
Muovendosi in una città fuori dal tempo, riuscirà Eve a scoprire il suo destino trovando finalmente il suo passato?
FF scritta a 4 mani :3
Ci troverete anche l'ammhore e parecchio sarcasmo.
Durrie e Donnie
(questa storia è stata pubblicata su altri siti con account diversi, quindi NON DENUNCIATECI PER PLAGIO, siamo sempre noi due!)
OGNI 100 VISUALIZZAZIONI VI PERVERRA' UN SIMPATICO VIDEO IN CUI DAREMO SFOGO ALLA NOSTRA DEFICIENZA BALLANDO PER IL VOSTRO DILETTO.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Anelli di cipolla 6

Buonsalve!
Ecocci qua con un nuovo capitolo, e io Durrie chiedo tremendamente perdono perchè non sono riuscita a betare prima, T_T
Leggendo scoprirete cosa cavolo stanno tramando i parenti di Eve.
Fateci sapere, pliz!
Un bacione,
Durrie e Donnie

Ah, per RITA_RBS.
C'è un camion di muffin e amore fuori dalla porta di casa tua da parte della Durrie, <3
Capitolo obviamente dedicato a te!

Anelli di cipolla

Capitolo 6: Agente zerozerotette: Mutandafall 

Sgranai gli occhi per la sorpresa, ma non osai muovere un singolo muscolo, forzandomi all’immobilità più totale.
Visto che stavano parlando di me era meglio che non mi scoprissero, così cercai di confondermi il più possibile tra le ombre.
La luna che brillava come un faro sopra di noi non aiutava affatto, ma fortunatamente nessuno aveva ancora guardato verso il mio albero.
Le parole “Evelina” e “morte” rimasero sospese nell’aria buia della notte per un lungo, terribile istante, avviluppandosi al silenzio glaciale che dominava la scena e scomparendo come condensa, trascinate via dal vento che arrivò spazzando improvviso tra gli alberi, tanto che mi dovetti stringere un po’ più forte al tronco per non perdere l’equilibrio. Un po’ di aghi caddero a terra, volteggiando, fino a posarsi nel dolce sottobosco ghiacciato.
Perché sarei dovuta morire? Cosa dovevo sapere? Di che parlava Tosca?
Ero così maledettamente curiosa che riuscii a dimenticare la tristezza che avevo provato poco prima e puntai bene i piedi sul ramo sotto di me, invece di darmela a gambe come forse avrei dovuto.
Morivo dalla voglia di capire cosa diamine stava succedendo, nella mia vita avevo sempre avuto la sensazione che tutti mi nascondessero qualcosa e, finalmente, potevo avere l’occasione, irripetibile di svelare l’arcano.
Il vento spirava fischiando, muoveva la foglie e rimbalzava tra gli alberi coprendo persino il rumore del mio respiro raschiante.
Nessuno parlava.
Tosca doveva aver toccato un argomento delicato, ma la sua espressione decisa non ammetteva repliche: credeva in quello che aveva detto e non avrebbe lasciato che nessuno la contestasse.
Avrei solo gradito molto sapere di che cavolo stavano parlando.
«Tosca, dolce Tosca…» mio padre prese la parola, i begli occhi verdi incredibilmente tristi e pieni di compassione, accarezzandole una guancia con il dorso delle dita.
Trovai la cosa assursamente viscida.
«Tu daresti uno zaino pieno di tritolo ad un dinamitardo? Glielo daresti? Magari con le istruzioni di come posizionarlo in un asilo pieno di bambini...»
La compassione aveva lasciato il posto ad una durezza senza precedenti, la mano accarezzante divenne un pugno serrato a pochi centimetri dal suo viso.
«Papà, lo sai benissimo che non è la stess…»
«E invece sì che lo è! Ti rendi conto di che razza di squilibrata è tua sorella? Hai una vaga idea di cosa potrebbe combinare? Non stiamo parlando di robetta da poco conto, stiamo parlando di un sangue incredibile, come non è da generazioni!» ora stava quasi ringhiando, cercando a fatica di usare un tono di voce basso. Aveva detto la parola “sangue” come se si riferisse ad un nome proprio, con una maiuscola sottintesa.
Gualtiero annuì concordando con mio padre, muovendo la testa con stizzita violenza, come un cane fedele o come uno di quei cosi di plastica con il testone ed il collo a molla che si mettono sul cruscotto delle auto, e che ad ogni buca o curva iniziano ad ondeggiare come forsennati. Boing boing.
Fece come per aprire la bocca per dire qualcosa ma poi la chiuse di scatto, e lasciò che fosse mio padre a continuare.
Finalmente qualcosa di vagamente intelligente da parte sua.
«Saresti dovuta essere tu quella incaricata di portare questo fardello! Mi ricordo il giorno preciso in cui sei nata, oh sì, quel bel giorno di primavera, quasi vent’anni fa... Eri piccola nella tua tutina bianca e verde, con quegli occhioni enormi, verdi come un pascolo, con le pagliuzze dorate... Come aveva detto tua nonna? Un prato verde pieno di fiori gialli, ecco cosa aveva detto, vero. E quell’infinito amore che hai sempre avuto, eri tu la predestinata… Eri perfetta, saresti dovuta essere te, cazzo!»
Il suo sguardo era perso, perso in un passato oramai perduto.
Non ci stavo capendo proprio un emerito e candido nulla, davvero, ma mio padre, Raffaele Maria De Cervis, aveva detto una parolaccia.
Qundi le cose dovevano essere più gravi di quanto pensassi, l’ultima volta che l’avevo sentito dire “cazzo” era stato quando aveva scoperto che il suo segretario era riuscito a trafugare dei documenti compromettenti dalla sua cassaforte nel suo ufficio in azienda e stava per consegnarli alla polizia. Di quel tizio non si aveva avuto più nessuna notizia.
«Colpa mia non è, non sono stata io a fidarmi della vasectomia e ad accidentalmente procreare per la terza volta!»
Ahia.
Tosh, quell’”accidentale” fa male, molto male.
«E comunque, lei esiste e io le voglio bene in quanto tale, per quanto la sua nascita vi stia sulle palle. Lei è sangue del nostro sangue e per questo non possiamo che cercare di salvarla, in primis da sé stessa. Vi riempite la bocca con parole sull’importanza della famiglia, ma poi quando si tratta di difendere ogni suo singolo componente agite così. Ipocriti.»
Sarei voluta volare giù volentieri dall’albero per abbracciarla, ma mi trattenni, limitandomi a rivolgerle un silenzioso ringraziamento mentale.
«Nessuno poteva prevedere che quel cavolo di chirurgo svizzero pagato fior di franchi per i suoi servizi e il suo silenzio avrebbe finito per rivelarsi un incompetente totale! Cosa ne potevo io »
«Ma fammi il favore, papà, lo sai anche tu che »
Gualtiero, oramai rimasto zitto e buono troppo a lungo per i suoi standard, esplose sovrastando ogni voce.
«Preservativi, papyno, preservativi! Sono cose che insegnano al più basilare corso di educazione sessuale, Dio!  Con tutta la testa quadra che mi fai perché il mio primo figlio non venga da quella zoccola di Gessika, avresti potuto pensarci un po’ di più anche te! Accidenti, non avresti, anzi, non avremmo, avuto nessun tipo di problema! Se avessi saputo tenerti il cazzo nelle mutande ora io e Tosca saremmo stati una bellissima coppia di amorevoli fratelli, saremmo stati il brillante futuro del Gruppo Farmaceutico De Cervis, avremmo portato avanti il nostro destino, le nostre intere vite senza intoppi, e pensa ad una casa senza Evelina che rompe i coglioni tutto il giorno con la sua cazzo di stramberia e quella sua merda di fissazione ad essere un’emarginata sociale! No, dovevi condannare la famiglia alla sconfitta e a congelarsi il culo a discutere di lei qua fuori stanotte!»
Ero così disgustata dall’idea di sesso tra genitori –brrrr, sesso tra genitori– che non sentii quasi i suoi insulti stizziti, e li ignorai classificandoli nell’archivio “offese fratelliche” (perchè dire fraterne significherebbe indicare quegli insulti detti con amore tra fratello o sorella, e quelli non erano di certo amorevoli). Un cassetto nell’archivio della mente che oramai straripava mogiamente di roba.
Ma c’era una cosa che non potevo ignorare.
Il tema di fondo della discussione.
Che a quanto pareva nessuno voleva pronunciare, che doveva essere un piano che a quanto pare io nascendo avevo rovinato.
E questo l’avevo lievemente intuito.
Ma esattamente quale piano? Cosa avevo rubato a Tosca?
Interrogativi su interrogativi, e io ci capivo sempre di meno. La cosa era a dir poco frustrante.
Mio padre era rosso di rabbia, la barbetta triangolare brizzolata che fremeva sul mento, come la vela di una nave in mezzo alla tempesta. Potevo contare i battiti del suo cuore guardando la vena pulsare sulla tempia sinistra.
«Ragazzi, non stiamo qui a discutere. Siamo qui per un motivo, e come ha detto giustamente Gualty, ci stiamo congelando il deretano. Per cui facciamo ciò che siamo venuti a fare e torniamocene nei nostri letti» Cosìrispose mio padre, con un briciolo di quello che se fossi stata parte del gruppetto avrei definito buonsenso.
All’idea di un letto caldo tutti deposero le armi, abbandonando ogni litigio, gli sguardi colpevoli che evitavano apposta di incrociarsi solo per un istante.
«Tosca, l’hai portato?»
«Eccerto che l’ho portato.»
Tosca estrasse dalla tasca interna della giacca qualcosa avvolto dentro un panno (o forse una maglia) e glielo porse. Mio padre lo svolse, rivelando un pugnale con l’elsa scintillante e il fodero di cuoio.
Il mio pugnale.
La mia mente recuperò l’ultima immagine della libreria in camera mia che avevo in memoria, risalente a prima di scendere a fare il mio spuntino di mezzanotte che mezzanotte non era. E no, il pugnale non c’era. Inconsciamente avevo registrato la sua mancanza, ma ero troppo sconvolta e affamata per notare un dettaglio di così poca importanza. Prima nel sogno, ora nella realtà: quel pugnale era sempre stato presente nella mia quotidianità, da quando mi era stato regalato, ma non aveva mai avuto una così grande importanza nella mia vita. Era sempre stato solo un bel soprammobile molto affilato, ma nel giro di poche ore tutto sembrava aver preso a ruotargli intorno. Il ricordo di Tosca che mi pugnalava a morte era ancora vivido, ma non potevo certo collegare quella figura esile tremante di freddo con quella mostruosità che mi aveva assalito in sogno. In ogni caso, restai guardinga, osservando ogni suo movimento, aspettandomi quasi che me lo potesse lanciare contro da un momento all’altro.
Altre domande: ora, che cosa ci volevano fare? Perché proprio il mio? Mi era stato donato per un motivo preciso?
Mi stavo seriamente stancando di tutti quei quesiti ai quali non sapevo rispondere, mi sentivo come durante l’ultima interrogazione di greco per cui avevo studiato tutto per filo e per segno, ma durante la quale la profe era andata a chiedermi quel paragrafetto secondario che avevo ignorato. Avevo rimediato un 6 tirato.
No, non c’entra niente con ora, ma era stata una delle mie più grandi realizzazioni di vita. E boh, era un ricordo felice.
Il pugnale dominava ancora la scena, nella grande mano di mio padre che nel frattempo si era chinato a passare la lama nel fuocherello creato poco prima da Gualty.
Lo passò e ripassò finché i fili di questa non iniziarono a brillare di una tenue luce rossastra, appena accennata. Soddisfatto della lama rovente, si spostò al centro del cerchio di pietre e, tenendolo con due mani con la punta rivolta verso il basso, con un gran fare cerimonioso si era inginocchiato a terra e aveva disegnato una figura strana e complicata sul terreno.
Si trattava di una specie di cerchio arabescato con un doppio bordo, decorato da tacche e segni, con dentro una specie di glifo dalle linee massicce, contornato da altri due segni più piccoli. Non riuscii distinguere bene così lontana com’ero, erano forse delle spirali, o dei cerchi con dentro qualcosa.
Passò l’arma a Gualtiero, il quale aggiunse un'altra parte alla figura, con segni di diversa natura, linee curve e sinuose. Fu subito imitato da Tosca, ma non vidi bene cosa tracciò perché, dalla mia posizione, la schiena di mio fratello copriva in parte il suo lavoro. Notai che lei fece molta più fatica degli altri, perché il coltello si era un po’ raffreddato. Dovevano aver scaldato la lama per riuscire ad incidere più facilmente il terreno ghiacciato, conclusi.
Ma in ogni caso a cosa gli serviva? La gente non ruba pugnali per incidere terreni ghiacciati di notte. O almeno la gente normale. La cosa era totalmente fuori di testa, ma aveva un che di inquietantemente serio e composto che mi fece tenere i sensi all’erta per tutta la durata di quella specie di cerimonia.
Terminato il disegno, Tosca si passò la lama sul palmo sinistro, ovviamente dopo averla pulita dal terriccio incrostato, aprendo una strada cremisi tra il pollice e l’indice. Fece gocciolare un po’ di sangue sopra il segno che aveva tracciato, e poi passò l’arma a mio padre, che fece lo stesso, e poi a finire a mio fratello, che li imitò e conficcò con violenza il pugnale nel centro del cerchio, dove i tre glifi si incontravano.
Si presero per mano intorno a quella specie di altare improvvisato, rimanendo in silenzio per cinque minuti abbondanti, gli occhi serrati e la fronte corrucciata, come se stessero sollevando un carico pesante. Respiravano affannosamente.
Stavo giusto per decidere che probabilmente si erano congelati in quella bizzarra posizione quando improvvisamente mia sorella cacciò un mugolio soffocato, di gola, e i tre si riscossero dal torpore tutti insieme, come se avessero preso la scossa.
Giurerei di aver visto, nello stesso istante, l’ematite del pomolo spandere una luce rossastra tutt’intorno.
Probabilmente era stato solo il riflesso della fiamma.
Gualtiero fu il primo ad allontanarsi, ciondolante, tenendosi lo stomaco attraverso la giacca come se stesse per rimettere, ed effettivamente ne aveva tutto l’aspetto. Aveva le guance scavate e gli occhi cerchiati di rosso, la pelle orribilmente pallida e una generale aria malsana che non gli vedevo addosso dai tempi di quell’influenza intestinale particolarmente violenta che si era preso in seconda media.
Gli altri non erano messi meglio, persino Tosca aveva perso le sue solite guance color pesca matura, anche se sembrava stare un po’ meglio degli altri due. Si chinò, aiutata gentilmente da mio padre che la sospingeva con una mano sulla schiena, strappò il pugnale da terra e lo pulì di nuovo, facendolo risplendere alla luna, prima di rimetterlo nel panno, che ora avevo identificato con una vecchia maglia che era solita usare per fare ginnastica al liceo. Spensero il fuoco buttando i resti a casaccio in mezzo agli alberi e spargendo le ceneri coi piedi, cancellando  rapidamente ogni segno di quel bizzarro rituale in modo da non lasciare tracce, e si diressero verso casa, camminando piano come se fossero stanchi morti.
E probabilmente lo erano.
Erano quasi le quattro di notte oramai!
Quando furono a distanza di sicurezza, scesi tranquilla dall’albero con un piccolo salto e mi fermai a pulirmi le mani sporche di corteccia sui pantaloni, riflettendo e cercando di interpretare ciò che avevo appena visto.
Ovviamente non trovai una singola spiegazione logica.
Stavo per avvicinarmi al punto dove avevano fatto quella cosa strana di incidere, tagliarsi e prendersi per mano quando un pensiero mi folgorò, e meno male: se Tosca aveva preso il mio pugnale nella maniera più furtiva possibile, ovvero mentre dormivo, altrettanto furtivamente l’avrebbe rimesso a posto, non appena ne avesse avuto l’occasione.
E quale modo più furtivo di riportarlo mentre la tua inconsapevole sorellina sta ronfando, ignara di ciò che le succede intorno? Se poi si sa che ho il sonno pesante...
Le mie gambe iniziarono a correre ancora prima di finire di formulare il pensiero. Corsi come una dannata, evitando la loro strada girando intorno alla casa, sperando che nessuno dalle finestre mi potesse vedere mentre balzavo oltre i nani da giardino, pericolosamente esposta alle luci del vialetto. Sperai che la mia velocità sostenuta sulla via più lunga battesse la loro camminata tranquilla sulla strada più corta. Mi fiondai su per la scala di corda, tirandomela dietro, e mi infilai sotto le coperte ancora completamente vestita, scarponi e tuta.
Appena in tempo.
La porta si aprii e io assunsi l’espressione dormiente più rilassata che riuscii a trovare. Senti il tocco leggero che poggiava qualcosa sulla libreria, e un fruscio quando si diresse verso di me. Resistetti alla tentazione di aprire gli occhi. Mi sforzai di rimanere immobile, calcando appena il respiro in modo da produrre un russare lieve. Non dovetti nemmeno fingere troppo, avevo ancora il fiatone per la fuga precipitosa.
Tosca mi accarezzò e mi baciò la fronte, e sentii le sue labbra fredde e morbide sfiorarmi la pelle mentre sussurrava una frase, quasi impercettibilmente.
«Non ti meriti nulla di tutto ciò, oh no…»
Ma forse me l’ero solo immaginato.
Chiuse la porta, e rimasi finalmente sola.


***

Troppi eventi senza spiegazione.

L’amore infinito di mia sorella.
La mia furia sconosciuta. 
Porte che sbattono.
Qualcosa di antico.
Una via buia.
Sangue.
Coltelli.
Luce.
Eve.

Io.

***

 

La sveglia mi riportò alla realtà. Rotolai fuori dal letto, trascinandomi dietro il piumone, e atterrai sul parquet agitando un braccio a tentoni per spegnere quella stramaledetta sveglia che da quasi cinque anni mi svegliava ogni santa mattina alle 6:30 per andare a scuola.
Santo Iddio.
Inutile dire che la odiavo, ma quella mattina specialmente. Avevo dormito sì e no due ore e mezza.
Guardai verso le mie gambe e realizzai che alla fin fine mi ero addormentata mentre avevo ancora su la mia improvvisata tenuta da agente segreto. Me la strappai di dosso, lottando con la zip incastrata, e subito i miei muscoli protestarono, provati dalla mancanza di sonno. Alla fine mi liberai, e cercai di prepararmi il più in fredda possibile. Vidi che la cartella era rimasta sfatta e, brontolando, ci buttai dentro qualche libro a casaccio. Era un sabato, e ovviamente non avevo idea di che cavolo di materie avrei avuto. Quasi tre mesi di scuola e non avevo ancora ben capito l’orario.
Andai sul sicuro, latino certamente, greco pure.
Il classico era una grande ed immensa palla. Ah, fisica, giusto!
Oh. Santa. Merda. La verifica di fisica. Quella verifica che valeva la differenza tra il quattro e il cinque-e-mezzo-ma-dai-ti-metto-sei.
Non avevo aperto libro, ero fisicamente fottuta. (E nonostante questo riuscivo comunque a pensare battute penose nella mia testa.)
Però sorrisi.
Sorrisi del mio solito e sclerato dialogo interiore, delle mie preoccupazioni.

A volte era bello essere normale.

 

  
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