Buonsalve!
Ecocci qua con un nuovo capitolo, e io Durrie chiedo tremendamente perdono perchè non sono riuscita a betare prima, T_T
Leggendo scoprirete cosa cavolo stanno tramando i parenti di Eve.
Fateci sapere, pliz!
Un bacione,
Durrie e Donnie
Ah, per RITA_RBS.
C'è un camion di muffin e amore fuori dalla porta di casa tua da parte della Durrie, <3
Capitolo obviamente dedicato a te!
Anelli di cipolla
Capitolo 6: Agente zerozerotette: Mutandafall
Sgranai gli
occhi per la sorpresa, ma non osai muovere un singolo muscolo, forzandomi
all’immobilità più totale.
Visto che stavano parlando di me era meglio che non
mi scoprissero, così cercai di confondermi il più possibile tra le ombre.
La
luna che brillava come un faro sopra di noi non aiutava affatto, ma
fortunatamente nessuno aveva ancora guardato verso il mio albero.
Le parole
“Evelina” e “morte” rimasero sospese nell’aria buia della notte per un lungo,
terribile istante, avviluppandosi al silenzio glaciale che dominava la scena e scomparendo
come condensa, trascinate via dal vento che arrivò spazzando improvviso tra
gli alberi, tanto che mi dovetti stringere un po’ più forte al tronco per non
perdere l’equilibrio. Un po’ di aghi caddero a terra, volteggiando, fino a
posarsi nel dolce sottobosco ghiacciato.
Perché sarei dovuta morire? Cosa dovevo sapere? Di che parlava Tosca?
Ero così
maledettamente curiosa che riuscii a dimenticare la tristezza che avevo provato
poco prima e puntai bene i piedi sul ramo sotto di me, invece di darmela a
gambe come forse avrei dovuto.
Morivo dalla voglia di capire cosa
diamine stava succedendo, nella mia vita avevo sempre avuto la sensazione che
tutti mi nascondessero qualcosa e, finalmente, potevo avere l’occasione,
irripetibile di svelare l’arcano.
Il vento spirava fischiando, muoveva la foglie e rimbalzava tra gli alberi
coprendo persino il rumore del mio respiro raschiante.
Nessuno
parlava.
Tosca doveva aver toccato un argomento delicato, ma la sua espressione
decisa non ammetteva repliche: credeva in quello che aveva detto e non avrebbe
lasciato che nessuno la contestasse.
Avrei solo gradito molto sapere di che cavolo stavano parlando.
«Tosca, dolce Tosca…» mio padre prese la parola, i begli occhi verdi
incredibilmente tristi e pieni di compassione, accarezzandole una guancia con
il dorso delle dita.
Trovai la cosa assursamente viscida.
«Tu daresti
uno zaino pieno di tritolo ad un dinamitardo? Glielo daresti? Magari con le
istruzioni di come posizionarlo in un asilo pieno di bambini...»
La compassione
aveva lasciato il posto ad una durezza senza precedenti, la mano accarezzante
divenne un pugno serrato a pochi centimetri dal suo viso.
«Papà, lo sai benissimo che non è la stess…»
«E invece sì che lo è! Ti rendi conto di che razza di squilibrata è tua
sorella? Hai una vaga idea di cosa potrebbe combinare? Non stiamo parlando di robetta
da poco conto, stiamo parlando di un sangue incredibile, come non è da
generazioni!» ora stava quasi ringhiando, cercando a fatica di usare un tono di
voce basso. Aveva detto la parola “sangue” come se si riferisse ad un nome
proprio, con una maiuscola sottintesa.
Gualtiero annuì concordando con mio padre, muovendo la testa con stizzita violenza,
come un cane fedele o come uno di quei cosi di plastica con il testone ed il
collo a molla che si mettono sul cruscotto delle auto, e che ad ogni buca o curva
iniziano ad ondeggiare come forsennati. Boing
boing.
Fece come
per aprire la bocca per dire qualcosa ma poi la chiuse di scatto, e lasciò che
fosse mio padre a continuare.
Finalmente qualcosa di vagamente intelligente da
parte sua.
«Saresti dovuta essere tu quella incaricata di portare questo fardello! Mi
ricordo il giorno preciso in cui sei nata, oh sì, quel bel giorno di primavera,
quasi vent’anni fa... Eri piccola nella tua tutina bianca e verde, con quegli occhioni
enormi, verdi come un pascolo, con le pagliuzze dorate... Come aveva detto
tua nonna? Un prato verde pieno di fiori gialli, ecco cosa aveva detto, vero. E
quell’infinito amore che hai sempre avuto, eri tu la predestinata… Eri
perfetta, saresti dovuta essere te, cazzo!»
Il suo sguardo era perso, perso in
un passato oramai perduto.
Non ci stavo capendo proprio un emerito e candido nulla, davvero, ma
mio padre, Raffaele Maria De Cervis, aveva detto una parolaccia.
Qundi le cose
dovevano essere più gravi di quanto pensassi,
«Colpa mia
non è, non sono stata io a fidarmi della vasectomia e ad accidentalmente procreare
per la terza volta!»
Ahia.
Tosh, quell’”accidentale” fa male, molto male.
«E comunque, lei esiste e io le voglio bene in quanto tale, per quanto la sua
nascita vi stia sulle palle. Lei è sangue del nostro sangue e per questo non
possiamo che cercare di salvarla, in primis da sé stessa. Vi riempite la bocca
con parole sull’importanza della famiglia, ma poi quando si tratta di
difendere ogni suo singolo componente agite così. Ipocriti.»
Sarei voluta volare giù volentieri dall’albero per abbracciarla, ma mi trattenni, limitandomi a rivolgerle
un silenzioso ringraziamento mentale.
«Nessuno
poteva prevedere che quel cavolo di chirurgo svizzero pagato fior di franchi
per i suoi servizi e il suo silenzio avrebbe finito per rivelarsi un
incompetente totale! Cosa ne potevo io »
«Ma fammi il favore, papà, lo sai anche tu che »
Gualtiero, oramai
rimasto zitto e buono troppo a lungo per i suoi standard, esplose sovrastando
ogni voce.
«Preservativi, papyno, preservativi!
Sono cose che insegnano al più basilare corso di educazione sessuale, Dio! Con tutta la testa quadra che mi fai perché il
mio primo figlio non venga da quella zoccola di Gessika, avresti potuto
pensarci un po’ di più anche te! Accidenti, non avresti, anzi, non avremmo, avuto
nessun tipo di problema! Se avessi saputo tenerti il cazzo nelle mutande ora io
e Tosca saremmo stati una bellissima coppia di amorevoli fratelli, saremmo
stati il brillante futuro del Gruppo Farmaceutico
De Cervis, avremmo portato avanti il nostro destino, le nostre intere vite
senza intoppi, e pensa ad una casa senza Evelina che rompe i coglioni
tutto il giorno con la sua cazzo di stramberia e quella sua merda di fissazione
ad essere un’emarginata sociale! No, dovevi condannare la famiglia alla
sconfitta e a congelarsi il culo a discutere di lei qua fuori stanotte!»
Ero così disgustata dall’idea di sesso tra genitori –brrrr, sesso tra genitori–
che non sentii quasi i suoi insulti stizziti,
e li ignorai classificandoli nell’archivio “offese
fratelliche” (perchè dire fraterne significherebbe
indicare quegli insulti detti con amore tra fratello o sorella, e
quelli non erano di certo amorevoli). Un cassetto
nell’archivio della mente che oramai straripava mogiamente di
roba.
Ma c’era una cosa che non potevo ignorare.
Il tema di fondo della discussione.
Che a quanto pareva nessuno voleva pronunciare, che doveva essere un piano che a quanto pare io nascendo avevo rovinato.
E questo l’avevo lievemente
intuito.
Ma esattamente quale piano? Cosa avevo rubato a Tosca?
Interrogativi su interrogativi, e io ci capivo sempre di meno. La cosa era a
dir poco frustrante.
Mio padre era rosso di rabbia, la barbetta triangolare brizzolata che fremeva
sul mento, come la vela di una nave in mezzo alla tempesta. Potevo contare i
battiti del suo cuore guardando la vena pulsare sulla tempia sinistra.
«Ragazzi, non stiamo qui a discutere. Siamo qui per un motivo, e
come ha detto
giustamente Gualty, ci stiamo congelando il deretano. Per cui facciamo
ciò che
siamo venuti a fare e torniamocene nei nostri letti»
Cosìrispose mio padre, con un briciolo di quello che se fossi
stata
parte del gruppetto avrei definito buonsenso.
All’idea di un letto caldo tutti deposero le armi, abbandonando
ogni litigio, gli sguardi colpevoli che evitavano apposta di
incrociarsi solo per un istante.
«Tosca,
l’hai portato?»
«Eccerto che l’ho portato.»
Tosca estrasse dalla tasca interna della giacca qualcosa avvolto dentro un
panno (o forse una maglia) e glielo porse. Mio padre lo svolse, rivelando un
pugnale con l’elsa scintillante e il fodero di cuoio.
Il mio pugnale.
La mia mente recuperò l’ultima immagine della libreria in
camera mia che avevo
in memoria, risalente a prima di scendere a fare il mio spuntino
di mezzanotte che mezzanotte non era. E no, il pugnale non c’era.
Inconsciamente avevo
registrato la sua mancanza, ma ero troppo sconvolta e affamata per
notare un
dettaglio di così poca importanza. Prima nel sogno, ora nella
realtà: quel
pugnale era sempre stato presente nella mia quotidianità, da
quando mi era
stato regalato, ma non aveva mai avuto una così grande
importanza nella mia
vita. Era sempre stato solo un bel soprammobile molto affilato, ma nel
giro di poche
ore tutto sembrava aver preso a ruotargli intorno. Il ricordo di Tosca
che mi
pugnalava a morte era ancora vivido, ma non potevo certo collegare
quella
figura esile tremante di freddo con quella mostruosità che mi
aveva assalito in
sogno. In ogni caso, restai guardinga, osservando ogni suo movimento,
aspettandomi quasi che me lo potesse lanciare contro da un momento
all’altro.
Altre
domande: ora, che cosa ci volevano fare? Perché proprio il mio? Mi era stato
donato per un motivo preciso?
Mi stavo
seriamente stancando di tutti quei quesiti ai quali non sapevo rispondere, mi
sentivo come durante l’ultima interrogazione di greco per cui avevo studiato
tutto per filo e per segno, ma durante la quale la profe era andata a
chiedermi quel paragrafetto secondario che avevo ignorato. Avevo rimediato un 6
tirato.
No, non c’entra niente con ora, ma era stata una delle mie più grandi
realizzazioni di vita. E boh, era un ricordo felice.
Il pugnale
dominava ancora la scena, nella grande mano di mio padre che nel frattempo si era
chinato a passare la lama nel fuocherello creato poco prima da Gualty.
Lo passò e ripassò finché i
fili di questa non iniziarono a brillare di una tenue luce rossastra,
appena accennata. Soddisfatto della lama rovente, si spostò al centro del
cerchio di pietre e, tenendolo con due mani con la punta rivolta verso il
basso, con un gran fare cerimonioso si era inginocchiato a terra e aveva
disegnato una figura strana e complicata sul terreno.
Si trattava di una specie
di cerchio arabescato con un doppio bordo, decorato da tacche e segni, con
dentro una specie di glifo dalle linee massicce, contornato da altri due segni
più piccoli. Non riuscii distinguere bene così lontana com’ero, erano forse
delle spirali, o dei cerchi con dentro qualcosa.
Passò l’arma a Gualtiero, il
quale aggiunse un'altra parte alla figura, con segni di diversa natura, linee curve
e sinuose. Fu subito imitato da Tosca, ma non vidi bene cosa tracciò perché,
dalla mia posizione, la schiena di mio fratello copriva in parte il suo lavoro.
Notai che lei fece molta più fatica degli altri, perché il coltello si era un
po’ raffreddato. Dovevano aver scaldato la lama per riuscire ad incidere più
facilmente il terreno ghiacciato, conclusi.
Ma in ogni caso a cosa gli serviva?
La gente non ruba pugnali per incidere terreni ghiacciati di notte. O almeno la
gente normale. La cosa era totalmente fuori di testa, ma aveva un che di inquietantemente
serio e composto che mi fece tenere i sensi all’erta per tutta la durata di quella
specie di cerimonia.
Terminato il disegno, Tosca si passò la lama sul palmo
sinistro, ovviamente dopo averla pulita dal terriccio incrostato, aprendo una
strada cremisi tra il pollice e l’indice. Fece gocciolare un po’ di sangue
sopra il segno che aveva tracciato, e poi passò l’arma a mio
padre, che fece lo stesso, e poi a finire a mio fratello, che li imitò e conficcò
con violenza il pugnale nel centro del cerchio, dove i tre glifi si incontravano.
Si presero per mano intorno a quella specie di altare improvvisato, rimanendo
in silenzio per cinque minuti abbondanti, gli occhi serrati e la fronte
corrucciata, come se stessero sollevando un carico pesante. Respiravano
affannosamente.
Stavo giusto per decidere che probabilmente si erano congelati
in quella bizzarra posizione quando improvvisamente mia sorella cacciò un mugolio
soffocato, di gola, e i tre si riscossero dal torpore tutti insieme, come se
avessero preso la scossa.
Giurerei di
aver visto, nello stesso istante, l’ematite del pomolo spandere una luce
rossastra tutt’intorno.
Probabilmente
era stato solo il riflesso della fiamma.
Gualtiero
fu il primo ad allontanarsi, ciondolante, tenendosi lo stomaco attraverso la
giacca come se stesse per rimettere, ed effettivamente ne aveva tutto l’aspetto. Aveva le
guance scavate e gli occhi cerchiati di rosso, la pelle orribilmente pallida e
una generale aria malsana che non gli vedevo addosso dai tempi di
quell’influenza intestinale particolarmente violenta che si era preso in seconda
media.
Gli altri non erano messi meglio, persino Tosca aveva perso le sue
solite guance color pesca matura, anche se sembrava stare un po’ meglio degli
altri due. Si chinò, aiutata gentilmente da mio padre che la sospingeva con
una mano sulla schiena, strappò il pugnale da terra e lo pulì di nuovo,
facendolo risplendere alla luna, prima di rimetterlo nel panno, che ora avevo
identificato con una vecchia maglia che era solita usare per
fare ginnastica al liceo. Spensero il fuoco buttando i resti a casaccio in
mezzo agli alberi e spargendo le ceneri coi piedi, cancellando rapidamente ogni segno di quel bizzarro
rituale in modo da non lasciare tracce, e si diressero verso casa, camminando
piano come se fossero stanchi morti.
E probabilmente lo erano.
Erano quasi
le quattro di notte oramai!
Quando furono a distanza di sicurezza, scesi tranquilla dall’albero con un
piccolo salto e mi fermai a pulirmi le mani sporche di corteccia sui pantaloni,
riflettendo e cercando di interpretare ciò che avevo appena visto.
Ovviamente non trovai una singola spiegazione logica.
Stavo per avvicinarmi al punto dove avevano fatto quella cosa strana di
incidere, tagliarsi e prendersi per mano quando un pensiero mi folgorò, e meno
male: se Tosca aveva preso il mio pugnale nella maniera più furtiva possibile, ovvero
mentre dormivo, altrettanto furtivamente l’avrebbe rimesso a posto, non appena
ne avesse avuto l’occasione.
E quale modo più furtivo di riportarlo mentre la
tua inconsapevole sorellina sta ronfando, ignara di ciò che le succede intorno?
Se poi si sa che ho il sonno pesante...
Le mie gambe iniziarono a correre ancora prima di finire di formulare
il pensiero. Corsi come una dannata, evitando la loro strada girando
intorno alla casa,
sperando che nessuno dalle finestre mi potesse vedere mentre balzavo
oltre i
nani da giardino, pericolosamente esposta alle luci del vialetto.
Sperai che la
mia velocità sostenuta sulla via più lunga battesse la
loro camminata
tranquilla sulla strada più corta. Mi fiondai su per la scala di
corda, tirandomela
dietro, e mi infilai sotto le coperte ancora completamente vestita,
scarponi e
tuta.
Appena in tempo.
La porta si aprii e io assunsi l’espressione dormiente più rilassata che
riuscii a trovare. Senti il tocco leggero che poggiava qualcosa sulla libreria,
e un fruscio quando si diresse verso di me. Resistetti alla tentazione di
aprire gli occhi. Mi sforzai di rimanere immobile, calcando appena il respiro
in modo da produrre un russare lieve. Non dovetti nemmeno fingere troppo, avevo
ancora il fiatone per la fuga precipitosa.
Tosca mi accarezzò
e mi baciò la fronte, e sentii le sue labbra fredde e morbide sfiorarmi la
pelle mentre sussurrava una frase, quasi impercettibilmente.
«Non ti meriti nulla di
tutto ciò, oh no…»
Ma forse me
l’ero solo immaginato.
Chiuse la porta, e rimasi finalmente sola.
***
Troppi
eventi senza spiegazione.
L’amore
infinito di mia sorella.
La mia
furia sconosciuta.
Porte che
sbattono.
Qualcosa di
antico.
Una via
buia.
Sangue.
Coltelli.
Luce.
Eve.
Io.
***
La sveglia
mi riportò alla realtà. Rotolai fuori dal letto, trascinandomi dietro il
piumone, e atterrai sul parquet agitando un braccio a tentoni per spegnere
quella stramaledetta sveglia che da quasi cinque anni mi svegliava ogni santa
mattina alle 6:30 per andare a scuola.
Santo Iddio.
Inutile dire che la odiavo,
ma quella mattina specialmente. Avevo dormito sì e no due ore e mezza.
Guardai
verso le mie gambe e realizzai che alla fin fine mi ero addormentata mentre avevo ancora su la
mia improvvisata tenuta da agente segreto. Me la strappai di dosso, lottando con la zip incastrata, e subito i miei
muscoli protestarono, provati dalla mancanza di sonno. Alla fine mi liberai, e
cercai di prepararmi il più in fredda possibile. Vidi che la cartella era
rimasta sfatta e, brontolando, ci buttai dentro qualche libro a casaccio. Era
un sabato, e ovviamente non avevo idea di che cavolo di materie avrei avuto. Quasi
tre mesi di scuola e non avevo ancora ben capito l’orario.
Andai sul sicuro,
latino certamente, greco pure.
Il classico era una grande ed immensa palla. Ah,
fisica, giusto!
Oh. Santa. Merda. La verifica di fisica. Quella verifica che valeva la
differenza tra il quattro e il cinque-e-mezzo-ma-dai-ti-metto-sei.
Non avevo
aperto libro, ero fisicamente
fottuta. (E nonostante questo riuscivo comunque a pensare battute penose nella
mia testa.)
Però sorrisi.
Sorrisi del
mio solito e sclerato dialogo interiore, delle mie preoccupazioni.
A volte era bello essere normale.