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Autore: Aleena    05/03/2013    2 recensioni
Shasta, un drow dalle grandi ambizioni, intesse una relazione proibita con Kania che lo porterà davanti al giudizio della sua Dea. La sua condanna all'eterno dolore, però, si trasforma nell'occasione di potere e di libertà che per tutta la vita aveva, inconsapevolmente, atteso.
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1a Classificata al contest "Imprisonment: because there isn't only happiness in our life" indetto da Visbs e Tallu_chan sul forum di EFP.
Genere: Angst, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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Piccolo spazio-me: Mi scuso per il ritardo nel postare e, sopratutto, per non aver ancora risposto ai commenti =_=' perdonatemi, è un periodo in cui non sto mai a casa :D Grazie per le recensioni, scusatemi per la brevità dei capitoli e buona lettura (sperando di non aver fatto un disastro nei capitoli finali di questa storia! )


VI – CAMBIAMENTI

 
 
  Cento anni trascorsero e, mentre nella Capitale la sabbia nera scorreva lenta all’interno della gigantesca clessidra che li scandiva, il Fantasma attendeva pazientemente l’occasione che aveva profetizzato.
Del piccolo gruppo che aveva conosciuto quando era stato destinato a quel lavoro privo di dignità, solo Alaric era sopravvissuto. Alcuni erano morti a causa degli stenti, pochi erano stati uccisi dal tempo o dai veleni dell’aria, molti erano stati divorati dai crolli o dalle bestie che si annidavano nell’oscurità. Alaric aveva perso una mano a causa di un drider che era sconfinato e che, prima di andarsene, aveva preteso la vita di una guardia e d’una femmina nanica appena arrivata. Il Fantasma aveva rischiato infine volte di precipitare nelle voragini che si aprivano dopo le danze della terra.
Gli schiavi che venivano destinati al lavoro nei tunnel inferiori erano per la maggior parte nani come Alaric, esseri coriacei abituati ad estrarre vita dalla roccia. Non sapevano nulla di Che´el Phish se non che lì avevano perso la propria libertà, divorata dalle catene pesanti che impedivano a tutti i prigionieri il libero movimento. Eppure, ogni tanto capitava che qualche schiavo umano, troppo vecchio per servire o morire nelle fosse di combattimento, o perfino qualche sorvegliante, giungesse in quella tetra monotonia con notizie dalla Capitale – pettegolezzi, per la maggiore, resoconti di battaglie, l’elenco delle casate sorte o decadute, le condanne e i sacrifici. Il Fantasma aveva prestato attenzione alle storie dapprima con una brama innaturale e, via via, sempre con meno entusiasmo, come il resto dei prigionieri. Semplicemente, cominciava a perdere interesse in una vita che non sentiva più come sua, in una città in cui non era uno schiavo dai polsi coperti di sangue rappreso e terra nera.
Delle volte lo jaluk si domandava se non fosse per via delle storia che raccontava sulle sue origini – la stessa che, un tempo, aveva inventato per la vecchia. Credeva forse davvero di essere un bastardo e non un maledetto?
Sarebbe così facile, si diceva. Poi, appena dieci anni dopo aver abbandonato il suo nome e la sua genia  - dieci lustri durante i quali aveva avuto il tempo di salvare tanti compagni di prigionia quanti ne aveva lasciati morire per mettersi in salvo; tempo durante il quale aveva assaggiato la pelle di Dagnal e l’aveva trovata ripugnante; anni che aveva trascorso rimpiangendo un essere dalla pelle più scura e sognando la vendetta - arrivò la notizia che si era stancato di aspettare. Dapprima sussurrata da guardia a guardia con fastidio, poi raccontata con divertita soddisfazione da una schiava di piacere sfigurata e infine sfumata, un pettegolezzo su cui ridere e indignarsi, una sventura apparentemente senza gravi conseguenze per tutti. Tutti, tranne il Fantasma.
Quando la bambina nacque, lo stesso fatto che fosse stata lasciata vivere fu uno scandalo, le cui propaggini arrivarono nei tunnel inferiori mitigate. A quel tempo, ancora due dei cinque nani che componevano il gruppo di schiavi originario erano vivi e il Fantasma, superato l’iniziale disagio, aveva stabilito con loro un primitivo rapporto di amicizia che gli consentiva di non dover subire anche le loro ire, oltre quelle dei carcerieri.
«Che cazzo me ne frega di una maledetta drow nata scolorita?» aveva commentato Dagnal, la compagna di letto di Alaric in quel tempo e unica femmina del gruppo, se tale non si considerava anche il mezzelfo cui una jalil aveva tagliato le palle. Una nana rossa dall’aspetto consumato quasi quanto doveva esserlo il suo corpo, un tronco tozzo dalle forme abbondanti da cui spuntavano braccia e gambe muscolose come quelle di un maschio, più adatto a scavare a terra che non a dare piacere.
«Per quelli è segno di sventura.» aveva commentato Bhor-hok, il nano tozzo senza un occhio che di lì a due giorni sarebbe stato trovato con la testa aperta da una stalattite. “Un vero colpo di fortuna” avrebbe commentato una guardia prima di ordinar loro di gettare il cadavere in una fossa.
Il Fantasma, che sentiva su di sé l’unico occhio di Alaric, era rimasto in silenzio. Aveva continuato a tacere anche quando, anni dopo, aveva saputo che quella jalil nata scolorita – maledetta, diceva la sua mente, non senza una sfumatura compiaciuta – aveva sfidato le Matrone e la società; e poi, quando le sue trasgressioni erano diventate un pettegolezzo troppo diffuso, aveva accolto la notizia della sua fuga nei tunnel direttamente dalla voce di lei.
Lavorava all’estrazione di minerali d’aragonite – un lavoro che, nonostante gli anni, continuava a considerare inadatto alla sua natura – quando aveva sentito il trambusto e le grida; e poi, anticipata dall’odore di sangue ancora caldo, era arrivata lei, una figura pallida e grigia come il vapore avvolta in una veste da soldato nera che la fasciava dal mento alle gambe, facendo spiccare ancor più i capelli bianchi, la pelle candida; era poco più alta del nano che le stava accanto e terribilmente mediocre, comune, nonostante la sua natura.
Si era arrestata di colpo, fermando con un cenno la piccola folla armata che la seguiva, un gruppo di prigionieri fra i quali il Fantasma riconobbe alcuni dei suoi compagni più recenti.
«Jaluk» l’aveva chiamato lei, e il Fantasma si era sentito portare indietro, al tempo in cui era ancora Shasta. Almeno, fino a che lei non gli aveva puntato la lana alla gola. «Amico o nemico?»
«Se mi togli le catene sarò quello che vorrai.» aveva risposto il Fantasma, e l’ombra del sorriso derisorio di Shasta era affiorata sul suo viso. Lei non aveva risposto nulla, solo un cenno del capo a beneficio del suo seguito. Qualcuno si era avvicinato e aveva infranto le catene che gli impedivano da anni d’allargare le braccia e le gambe, ma il Fantasma non l’aveva degnato d’attenzione. Guardava lei, la gelida compostezza del suo viso, la furia che le ribolliva nel fondo degli occhi e la durezza con la quale la reprimeva. Era bellissima, come una statua, e altrettanto fredda. Marmorea e albina, come lui.
«I carcerieri sono morti. Se sei ancora in grado, scegli: combatti con me o striscia dove preferisci.» aveva detto lei. La sua voce non aveva inflessioni: scivolava come ghiaccio su una roccia, emettendo lo stesso stridente, anonimo suono basso. Una voce senza pietà, senza emozioni, senza scampo.
«Combattere... chi? I miei nemici sono già morti.»
«Che’el Phish. Ho giurato di distruggerla.»
«E poi?»
«Poi la superficie. Ognuno per le sue strade.»
Il Fantasma tacque. Da un tunnel Alaric si fece avanti, seguito da cinque maschi che l’albino non conosceva. Reggevano un assortimento di armi malandate di fattura Ilythiiri, chiaramente sottrarre all’armeria delle guardie. Alaric - i capelli scuri ancora sporchi di terra e sudore al pari della tuta da lavoro - che pareva aver trovato confortevole il ruolo di guida, si fece di un passo avanti e puntò lo sguardo risoluto in volto alla jalil.
«Non mi fido, te lo dico chiaramente. La tua razza… ladri e assassini, tutti lo sanno. Ma non è questo. Non mi resta niente se non la mia vita, e non mi va di sprecarla nel tentativo di farti prendere la tua rivalsa. Questa… merdaia, mi ha convinto che non ci sia nulla di più prezioso della mia vita. Neppure la vendetta. E sono anni che aspetto. Voglio tornare fra la mia gente.» disse Alaric, l’accento delle tribù naniche dell’est accentuato dalla veemenza delle parole, e alle sue spalle i cinque schiavi annuirono come animali ammaestrati.
«Non hai nessuno prigioniero altrove?» domandò la jalil, e Alaric scosse il capo. «Benissimo. Andatevene. Trovate l’uscita o precipitatevi nella bocca di qualche drago, non mi interessa.» commentò la femmina e si girò a guardare il suo seguito «Ho un esercito di schiavi che mi aspetta. Chi vuole combattere venga con me, gli altri con loro.» concluse; dunque si volse verso una delle gallerie che si aprivano nel passaggio, imboccandola con calma.
«Aspetta!» disse Shasta, alzandosi con un movimento fluido – come un tempo, la stessa agilità… - per afferrare un polso alla femmina. «Posso indicarti i tunnel più veloci. Ho lavorato per anni qui intorno. E… prima… ero una guardia esterna. Dubito che tu abbia molta dimestichezza con la parte nobile della città e i turni di guardia, vero?»
«Fui militare» rispose la femmina, come se questo bastasse a spiegare ogni cosa. Shasta abbozzo un mezzo sorriso.
«Già. Le voci corrono anche qui, jalil. Fosti militare e nobile, prima ancora. Ma hai dato il peggio di te sui campi di battaglia. Tu conosci le arene, i tribunali e la superficie, io conoscevo la Capitale. E non ho molta simpatia per quella che fu la mia razza» concluse Shasta. Dietro di lui, Alaric contrasse il volto e tacque. Lo sapevo, si stava dicendo, ma questa faccenda non mi interessa. Non più.
«Vieni, se vuoi. Ma ricordati questo: prova a tradirmi e rimpiangerai di non essere finito nella pancia di qualche creatura del buio prima di conoscermi» disse la jalil, un sussurro appena accennato, senza enfasi, senza tono, senza rancore o minaccia o gioia; allora Shasta, che aveva per tutta la vita considerato simili frasi solo una retorica vuota, sentì nascere nel petto una consapevolezza: ognuna di quelle parole era vera. Quella femmina aveva il cuore di ghiaccio e non avrebbe avuto pietà di nessuno, perché nessuno aveva più valore della sua vendetta. Era una statua, fredda, bellissima e glaciale; e l’albino per un attimo rivide, oltre il volto di lei, quello d’ossidiana dell’idolo sotto il quale, una vita prima, era stato sparso il sangue del suo servo e amante. 

  
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