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Autore: DewPrincess    06/03/2013    1 recensioni
"Smettila di vivere senza vivere. Smettila di morire. Non è giusto. Non è umano. Non è democratico. Non è rispettoso. Non è educato. Non è normale. Non è nemmeno originale. Sai quanti ne muoiono? MILIONI. "
Storia di un sonno che si scatena all'improvviso.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DORMI
Non immagini quanto sia dolce sfiorare 
dai tuoi incerti sorrisi la felicità. 
Anche solo per pochi secondi capire 
che qualcosa di buono c’è in me. 
Dormi che è meglio pensarci domani 
alla muta distanza che scorre tra noi 
quando non sei vicino a scaldare i miei sogni, 
quando i sogni nemmeno son qui.
(Subsonica)

 
Con una mano ti sfioro le palpebre. Con l'altra ti sistemo i capelli con grazia, con dolcezza. Con lentezza. Come un'eternità. Come una domanda lunga una vita. Ti guardo e cerco di radunare le tue parti, di stabilire nella mia mente un ordine preciso. Parto dalle tue mani grassocce e salgo lungo le braccia ormai pallide. Vedo il collo, il viso, i capelli, una punta di orecchie. Scendo giù, sui tuoi seni nascosti dal camice, sul tuo microscopico ombelico e giù per le tue gambe, le ginocchia, i polpacci, i piedi. E ora che ti ho ricomposto, che ti ho ricostruito, chiudo gli occhi. Prendo la tua mano sinistra, la sollevo e ti rimetto quell'anello, per la seconda volta. Per giurare a me stesso che ci sarai sempre, che non scapperai, che la buona e la cattiva sorte non avranno alcun significato, che consacrerò almeno un'ora della mia giornata alla mia salute e alla tua malattia. Sfioro le scarpe da tennis consumate, rovinate, mi ricordo in dieci secondi tutti i suoli che hanno calpestato. Mi sfilano attorno come frecce, appuntite e letali. Il mio fuoco greco. Sono così disarmato. Il verde della tua t-shirt mi fa male come un pugno, come una verità. I blue jeans mi fanno pensare ad un film, ad una commedia.
 
Istericamente, rido. Riso nichilista. Decostruisco. Annullo, non considero, non esisto. Sono morto. Per me non esiste altro che questo naufragare poco leopardiano e affatto dolce. O peggio. Per me esiste il mio coma, che comincia oggi e durerà per sempre. La mia lenta perdita di funzioni, il lento deterioramento della mia esistenza. Il logorio, la tarma del mio legno che credevo erroneamente consumato.
 
Per me esiste un paesaggio da dipingere con rabbia, a secchiate violente di colori primari. Blu, rosso e giallo, in un miscuglio micidiale e accecante. Per me esiste il cammino lento della formica che fa provviste per quando il regno dei cieli verrà e qualcuno dovrà giudicarmi, vivo o morto che io sia, e io allora potrò levarmi e gridare: Smettila, fottuto pezzo di merda, non puoi permettertelo, non con me, me l’hai portata via.
 
Per me esiste un orologio dal ticchettio lieve e intollerabile, senza lancette, che non indica nessun momento preciso, ma li indica tutti, tutti insieme. Per me esiste un muro alto, di pietra, da grattare fino a consumarmi le mani, fino a vederle sanguinare del mio sangue, fino a raggiungere le ossa. Fino a cercare un perché che non mi è concesso chiedere.
 
Buffo che per avere le risposte fondamentali non sia lecito domandare. Buffo che per le domande più ardue nessuno sia riuscito a dare spiegazioni abbastanza convincenti. Buffo che io sia qui a chiedere disperatamente un rewind impossibile, una grazia retroattiva, un miracolo in slow motion. Da assaporare come l'idea di te nella mia vita. Da assaporare come i tuoi baci lenti. Da assaporare come i tuoi scatti d'ira, le tue voglie, le tue prudenze. Da assaporare come un viaggio, una canzone lenta, note di pianoforte, battiti cardiaci irregolari, il tuo orecchio posato sul mio cuore. Da assaporare come con i sogni, i desideri, gli obiettivi.
 
La tua canzone preferita diceva che “We are all so fragile, we are all so scared. So go on and cry, Ophelia, everybody cries.”
Abbi coraggio, nel tuo dolore. Sii fragile, piccolo, insignificante. Sii umile, dolente. Un tuo cristianesimo senza resurrezione. Semplicemente, la modestia e l'umiltà, la dignità anche nel dolore, non potevano che fortificarti e renderti più sensibile. Potrei scrivere anche io una Bibbia e fare le nostre rivelazioni.
Ma cosa scrivo nei Vangeli? Non ho buone novelle. Il Messia non deve arrivare, se ne è già andato e risparmiatemi la storiella della resurrezione in Cristo. Il mio Messia è passato in silenzio, senza fare rumore. Ha vissuto nel terrore di non essere amato, di non poter dare amore abbastanza. Ha solleticato gli altri, alcuni ne ha scossi, altri li ha attirati a sé come se il corpo e la mente non avessero confini. Il Messia non ha potuto lasciare nessun messaggio, non ha avuto una morte in grande stile, non c'è nessuno qui dentro a testimoniare, a parte me. E mi sembra una stanza piena di nulla, ora che lei l’ha lasciata. Ora che lei mi ha lasciato. Così.   
 
Un povero e stupido uomo. Ofelia, puoi piangere. Tutti piangono. Siamo tutti così fragili e spaventati. Il Messia non aveva idea di cosa sarebbe successo a tutti gli altri. Il Messia era allergico alla muffa. Il Messia aveva le dita leggermente storte e un seno meravigliosamente più piccolo dell'altro, come tutte le donne. Il Messia era folle, ma disperatamente bisognoso di quello che tutti fingevano di avere: la più normale delle felicità. E dietro sé ha lasciato una scia di amarezza, di schiuma, di bava alla bocca, di contaminazione, di inquinamento dell'anima. Una scia di fiori, di polvere, di vita vissuta con la punta delle dita.
Una scia di grandezza invisibile, una scia di asteroidi.
Di puntini uniti che formano strane e vincolanti figure, dentro di me.
 
E Laila. Piccola e indifesa, qui, in piedi. Con un viso solenne e disperato. Le donne capiscono al volo. Ti guarda come si guarda un film dell'orrore, un incubo, un brutto voto scritto con la penna rossa in fondo ai suoi temi, un rimprovero, un giocattolo rotto. Leggo rabbia e dolore. Non ha capito perché. Posso forse spiegarglielo io? Non lo so. Siamo qua, tutti e due bambini, figli sconvolti della tua morte, attaccati al tuo corpo con cordoni ombelicali che nessuno si è mai ricordato di recidere. Ti osserviamo con le nostre lenti verdi e non riusciamo davvero a capire che esperimento tu sia stata. Si aggrappa ai miei pantaloni, mi chiede di andare. La afferro e la stringo a me, non dovrei, dovrei essere forte per entrambi. Ma come faccio, se so che sarà lei, con i suoi lunghi capelli neri, la depositaria di tutto ciò che siamo stati? La stringo a me e le affido la missione di tenerti, tenersi, tenermi, tenerci in vita. Di cullarci con le sue ninne nanne. Di ricordare a tutti che sei esistita. Speriamo ti assomigli. La stringo e ti guardo e... non so. Mi sono perso. Questa volta non ho capito. Non ti seguo. Non ho potuto farci niente. Te ne sei andata da sola.
 
 
 
Con un ultimo
stanco
assordante
e lunghissimo
 
 
 
 
 
Bip
 
 
 



NDA: chiedo scusa per aver pubblicato gli ultimi capitoli tutti assieme interrompendo il ritmo creatosi, ma sto partendo per un lungo viaggio e non avrei potuto più pubblicare per un po'.
       
   
 
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