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Autore: JosieBliss    23/09/2007    1 recensioni
Tornando a casa, lungo la collina, un giorno notai una scritta, grande e in nero, scaldata dal sole: FRAGOLA TI AMO ALLA FOLLIA. Ero in pullman, leggevo Il Principe Mezzosangue. E allora mi immaginai una donna, una donna dai capelli color delle fragole, che abitava lì, su quella collina, amata a tal punto da sentirselo gridare dai muri. E che ad amarla, in modo malsano e dolcissimo, fosse Tom Orvoloson Riddle. Nonostante la violenza, il sangue e le lotte, il bianco e il nero, il bene e male e l'umano e il sovraumano, le eterne sfumature tra questi, attratti inesorabilmente l'uno dall'altro. 50 anni di un amore egoista. Ho uno scandalizzante bisogno di recensioni.
Genere: Romantico, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Riddle/Voldermort
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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"L’amore è la meta di tutte le partenze, il punto di eterno ritorno. Lo sguardo più breve, quello verso lo sguardo di chi ci è accanto, è in realtà infinito. Le passioni mortali possono offuscare l’eternità."
V.I


“Il suo nome è…” Perry si fece scivolare gli strani occhialetti obliqui sul naso a patata e scrutò la malsana figura di Josie “…Josephine Wisteria Bliss?”
Josie, legata stretta al trono di pietra del tribunale, gli occhi vacui e sbiaditi, i polsi arrossati da altre catene, e le guance cave, consumate dal digiuno e dall’insonnia, annuì.
“E’ la figlia di Wilhelmina Berenice Harcker e Dorian Thomas Bliss?” continuò l’uomo, arricciando le labbra.
Josie ripetè il gesto con svogliatezza.
“Signorina Bliss, lei è stata accusata da numerose testimonianze di aver passato preziose informazioni segrete del Ministero a Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato, e inoltre di aver avuto…” il giudice si fermò alzando lo sguardo al cielo, corrugando la fronte imbarazzata. Alle sue spalle, la statua di Wilhelmina languiva con occhi lampeggianti al riverbero delle torce.”… un’intima complicità con il suddetto, di essere stata contattata da Esso più volte, e di non averne mai informato le autorità. Come risponde a queste accuse?” Un centinaio di occhi la fissavano nella semioscurità, e il doppio delle palpebre sbattevano, e il millesimo delle ciglia fremevano.
Josie tacque. Mantenne il suo sguardo spento su una pietra davanti al seggio dell’imputato. Un brusio sottile si diffuse per la sala. Il giudice tossì e risuonò di nuovo il silenzio.
“Signorina Bliss, le è stata posta una domanda. Risponda. Come replica alle accuse?”
Josie sfregò la punta dei piccoli tacchi per terra. Li aveva messi prima di uscire una settimana prima. Ricordava di averli cercati dappertutto, ed erano sotto il letto e si era infilata contorcendosi per riuscire a prenderli. Aveva parigine nere e una gonna stretta, fino al ginocchio, di velluto marrone. E una camicetta che sapeva di lavanda.
Josie si fisso le ginocchia sbucciate e le calze strappate. La gonna impolverata e la camicetta sudata e sporca. Non l’avevano nemmeno fatta cambiare. I capelli, nelle loro peggiori condizioni si attorcigliavano come meduse. Con pigra attenzione, si guardò le unghie.

”… ricordi, Josie, l’età dell’innocenza?”


Meredith contorse i polsi arrossati, afferrò un lembo della tunica nera di Mangiamorte cominciando a torturarla tra le dita.
Buttando i riccioli sporchi all’indietro, rise.
“Me l’hanno lasciata addosso apposta.” squittì ad un interlocutore immaginario, gli occhi umidi e folli fissi contro la parete.
“Guarda!” con le mani tirò la tunica scura, come per indicarla. Tremava di freddo, sotto era nuda come un verme, le avevano tolto tutto, bacchetta, vestiti, dignità, spogliandola come una prostituta, sotto luci vivide e accecanti, così bianche che le impedivano di vedere i suoi seviziatori. Urlando e scalciando come una baccante, trattenuta da mani forti, schifosamente sudate, che l’avevano tenuta ferma, mentre altre la spogliavano, violentemente, per lasciarla nuda e umiliata su un pavimento gelido, rannicchiata, a mordersi le ginocchia. Potevano tramortirla per farlo. Invece no, la volevano veder urlare, mordere, bestemmiare. Ma piangere no. Non aveva versato una lacrima. Non quella soddisfazione.
“Ecco, vedi? L’hanno fatto apposta, i bastardi” si raggomitolò contro il muro, dondolando sui talloni. ”E’ per fare scena, sai. Per far vedere quello che sono. Per far paura. Temetemi!” urlò l’ultima parola, che rimase ad echeggiare per la stanza, stretta, ma col soffitto alto. Alcune catene scendevano ossidate e arrugginite dai vecchi muri, sfregiati da infinite suppliche, da unghie conficcate, da giorni contati con sottili segni bianchi. Gli sembrò che dondolassero al suo urlo.
Un’ombra passò alla sua destra. Mery si tappò le orecchie.
“Non pensare, non pensare, non pensare…” ripetè la litania un centinaio di volte, mentre immagini lontane si affacciavano tra le tempie e la fronte. C’era una donna, stesa e bianca come un cencio, gli occhi aperti rivolti al soffitto, un bicchiere di vetro pesante rotolava di lato, il brandy sparso per terra. Una sigaretta ancora fumava tra le sua dita. Poteva essere l’immagine di una propaganda particolarmente sadica contro il fumo e l’alcol. Invece la donna aveva i capelli bianchi, attraversati da venature rossastre.
“Mina!” urlò quel nome strappandolo dal cuore.
Il Dissenatore ondeggiava oltre le grate, sibilando minaccioso
E poi le venne in mente il castello bruciato, e suo padre che zoppicava e rideva, e muoveva la bacchetta incessantemente, con piccoli aggraziati movimenti del polso e luci verde smeraldo che lampeggiavano come fari, e quelli che cadevano a terra uno dopo l’altro, senza una parola, un addio, suoi compagni di scuola, persone che per anni aveva visto entrare e uscire con una tazza di tè dal salotto di Mina, che le facevano sorrisi allegri, e le conosceva una per una, e ora cadevano come birilli, gli occhi pieni di terrore, altri di coraggio. E suo padre rideva.



Nel novembre 1981 furono catturati quattordici Mangiamorte.
Furono stanati nei loro covi di vipere o alla luce del sole, nomi già macchiati di infamia o altri immacolati e impensabili si andarono ad aggiungere alla lista dei servi di Voldemort.
Alcuni confessarono con orgoglio e folle luce negli occhi la loro cieca devozione all’Oscuro Signore, molti piansero e si contorsero prostrandosi a terra, negando e spergiurando, che non erano stati loro, che erano innocenti, che Lui li aveva costretti con mille terribili maledizioni, il loro cuore era onesto e quel Marchio ancora pulsante di vita e di gloria non significava nulla.
Mai nella storia della magia venne preparato più Veritaserum per sciogliere la lingua agli imputati. Confessarono tutto, gli omicidi, le stragi, le crudeli cacce ai Babbani, le violenze e i progetti segretissimi del loro Signore, fecero nomi su nomi, portando all’arresto di altri fedeli, inerti come bambole di pezza sopra il trono degli Ultimi.
Ma, sotto qualsiasi tipo di incantesimo o pozione della verità, quattordici bocche giurarono sul nome di quel Dio che forse c’è che Josephine Wisteria Riddle era innocente, casta e purissima, che mai l’avevano vista in compagnia del loro Signore, che osare soltanto pensare che la figlia di Wilelmina Harcker aveva a che fare con Lord Voldemort era una bestemmia, che Tu-sai-chi in persona aveva fatto tacere quella serpe dai capelli rossi, uccidendola mentre si alcolizzava come al solito in quella villa di babbanofili.
Questo e qualche sapiente orazione di Albus Silente bastarono a far scarcerare Josephine, che, dimagrita e stanca, tornò in quella casa vuota di babbanofili a piangere tutte le lacrime che aveva, stesa su un tappeto persiano in compagnia della migliore amica di sua madre: la vodka.
E pianse per Wilelmina e per il suo assassinio, del ricordo tanto lieve, color seppia, di quando la domenica pomeriggio sua mamma e Tom duettavano con il pianoforte a coda nella sala da ballo, mentre lei li guardava un po’ invidiosa, mancando di qualsiasi talento musicale.
E pianse per la sua bambina in quella prigione di matti, la sua dolce, piccola Meredith, che parlava da sola ad un muro sgualcito, dondolandosi sui talloni, che la graffiava sul viso quando lei le baciava le mani, durante i rarissimi giorni di visita, che si impiccava con una striscia di corda la notte di carnevale, i capelli ingrigiti nonostante i suoi trent'anni scarsi sciolti sulle spalle ossute, quei capelli che dovevano essere rossi, che portavano fortuna, che scaldavano come una trapunta di mantelli, ma che erano neri come la pece e la perspicace notte. La seppellì sotto un faggio, senza più lacrime da versare, a Villa Bliss, un funerale modesto, con un corteo di cinque persone armate di viole e di fresie.
E poi pianse per Tom, quel Tom umano e sepolto ed andato, andato per sempre, e non importa che undici anni dopo sarebbe tornato, perché Tom Riddle, quello vero, quello che la stringeva con abbracci disperati, che si aggrappava al loro amore profondo di radici, impalpabile di vento, lo avevano ammazzato, ucciso, sterminato, massacrato per mille buoni motivi.
Ma Josie era stupida, stupida perché l’amore è così forte, l’amore è così denso di pazzia, che ti rende cieco e sordo e muto, e quando Tom era un mostro, l’aborto di un’anima violata, lei lo guardò negli occhi e pianse, perché la bella amava la bestia e tutti marciavano su Babilonia e quando Tom morì per la seconda volta, in modo totale e definitivo, per mano di quel bambino sopravvissuto che ci è tanto caro, quando Tom morì possedendo soltanto una bacchetta ed un anello di oro bianco, Josie sparì come era arrivata, nel nulla, come l’estate.
Al suo posto, in quella villa antica, che certi vecchi dicevano fosse abitata un tempo dalla strega più bella del regno, che di notte volando cavalcava un verro sulle strade di Londra, nuda e bianca come un’ostrica d’oro e faceva impazzire i Babbani con una risata, al suo posto, addormentata su un pianoforte a coda, trovarono un’anziana signora, dai riccioli bianchi come la neve, il volto addormentato nel dolce abbraccio della morte fatto mappa di molti e molti anni e portatore di una remota grande bellezza.
Nessuno conosceva quella signora, che stringeva forte nel pugno una piccola vera di oro bianco.
La seppellirono nel cimitero di Little Devon, su di una lapide senza nome, all’ombra di un faggio, e una bambina bionda posò sulla terra fresca una margherita.
La primavera successiva, una domenica mattina, gli abitanti del villaggio, come riscossi da un sogno, guardavano increduli e immobili dal cancello di ferro il terreno sul quale avrebbero dovuto riposare i loro cari. Ma il cimitero di Little Devon era sparito, e così tutte le lapidi, le croci e i sentieri di erba curata: al suo posto fioriva un campo di fragole.



Dedicata a me e a te, a Loro, al mio aspettare gufi al balcone in quell'estate di otto anni fa, a tutto quello che sai, alla fine e all'inizio, a Peter e a tutti quelli che crederanno per sempre all'isola che non c'è.
  
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