Buonasera/giorno!
Scusate del ritardo che, indovinate un po', è colpa della Durrie.
[Che
vi manda amore e caramelle e tante gioie calcistiche. Il Real è
ai quarti di finale e il Milan è terzo e lalalalala, Durrie
è felice. :3]
Ecco a voi un nuovo pezzo di casa di Eve, non avete che da leggere!
Un immenso abbraccio a RITA_RBS che non ne manca mezzo.
Condividerai la dedica di questo capitolo con Anna__Ira e LadyVamp, benvenute a bordo girls!
*Durrie abbraccia tutte e distribuisce ghirlande di fiori della serie Benvenuti In Crociera Alle Hawaii*
Buona lettura!
Durrie e Donnie
Anelli di cipolla
Capitolo 7
Tutto
incominciò con un semplice colpo di tosse.
Cough.
Doveva essermi entrata un po’ di polvere in bocca, sentivo qualcosa che
raschiava sulla gola.
Un altro. Cough cough.
Un attimo prima ero lì che ascoltavo musica nella piccola biblioteca nell’ala Est,
i piedi rigorosamente appoggiati sul tavolino da caffè, e quello dopo stavo
letteralmente sputando un polmone.
Mi piegai in due, cercando di fermare gli spasmi al costato, che continuavano a
spingere fuori più aria di quanta ne riuscissi a respirare.
Provai a stringermi la gola reggendomi al bracciolo, per cercare di far passare
il fastidio, annaspando. Ma questo non cessava.
Iniziò a girarmi la testa per la mancanza d’ossigeno, e poco dopo l’attacco
finì d’improvviso, tanto rapidamente come era iniziato.
Ero rossa e senza fiato, sentivo la fronte che mi pulsava terribilmente.
«Stupido, stupido tempo di merda! Pure la tosse adesso…» borbottai, e recuperai
la matita che mi era caduta di mano nell’agitazione del momento.
Mi risistemai sulla poltroncina, riprendendo da dove mi ero fermata, facendo
qualche colpetto con la gola per scacciare gli ultimi residui di fastidio.
Avevo in mano un semplice blocco per appunti ad anelli, aperto su una pagina su
cui campeggiavano tre omini stilizzati che dovevano essere Tosha, Gualty e mio
padre disegnati attorno ad un cerchio.
Stavo pian piano riempiendolo con i pochi e confusi dettagli che mi ricordavo
di quella spastica notte.
Ero a buon punto, e più della metà della pagina era riempita con linee solide e
dritte come fusi davanti a mio padre, e con curve delicate come i giochi di
spuma sul pelo dell’acqua davanti a Gualty.
La terza parte rimaneva vuota, e per quanto mi sforzassi non riuscivo a trovare
cosa ci potesse andare. Rinunciai e ci disegnai un grosso punto di domanda, che
ripassai più volte, sovrappensiero. La Tosha stilizzata sembrava guardarmi con
scherno.
Le cancellai la faccia con il gommino.
Chiusi il blocco e lo tirai di malavoglia sul tavolino, allungandomi
all’indietro, scazzata. Arricciai il labbro superiore all’insù e ci posai la
matita, tenendola in equilibrio tra la bocca e il naso. Mi concessi un sospiro
esasperato e serrai gli occhi, cercando di fare mente locale per la milionesima
volta.
Erano passate quasi due settimane, ma io non avevo ancora trovato una
spiegazione ragionevole per cosa era successo.
La prima cosa che avevo fatto, finita la scuola, era stata prendere il pugnale
e cacciarlo nel profondo del cassetto dei calzini, appallottolandolo dentro una
canottiera.
Meno lo vedevo meglio era.
Tutto era semplicemente, banalmente, troppo strano per avere un
qualsiasi senso.
Dalla mia avevo pochi elementi, quasi nulli: due fratelli e un genitore con un
grosso segreto –che non conoscevo–, un pugnale antico –che non capivo a cosa
servisse-, un simbolo, per di più incompleto –di cui ignoravo il significato– e
strani presagi della mia morte –che mi apriva solo nuovi e più stressanti
dubbi.
Sbuffai di nuovo, passandomi il pollice e l’indice in mezzo alle sopracciglia,
pizzicandomi il naso cercando di alleviare il mal di testa che mi stava
montando dentro. Che immensa rottura di palle.
Non riuscivo nemmeno a godermi le vacanze di Natale talmente ero ossessionata
da questi pensieri.
«Che streeeeeeeeeees» sussurrai a me stessa, quasi per esorcizzarlo.
Mi tirai in piedi e mi misi ad esplorare tra i libri, per distrarmi, dedicando
ad ognuno di loro una carezza sulla costa con la punta dell’indice.
Mollai la presa sulla matita, e me la feci cadere in mano. Sotto il
polpastrello sentivo ora cuoio, ora pelle, ora semplice carta, ora
sovracopertine plastificate.
Guardai fuori, la neve aveva abbandonato la violenza delle settimane precedenti
e ora cadeva dolcemente, così poca che quasi non attaccava in terra.
La biblioteca
era una deliziosa stanza ottogonale, con un soffitto alto ed arioso con una
copertura di vetro a cupola, divisa in tre anelli concentrici, a loro volta
ciascuno diviso in otto settori che partivano dagli spigoli dei muri e che
arrivavano fino al bordo del pezzo centrale, in un cerchio perfetto. Il tutto
era tenuto insieme da delle barre curve di un qualche metallo, ferro o acciaio.
La biblioteca si estendeva in altezza su due piani e mezzo, ed era la stanza
più alta di tutta la casa, e anzi in assoluto la più alta che avessi mai visto
in un’abitazione privata.
Dava quasi le vertigini osservare gli scaffali di mogano scuro straripanti di
libri che arrivavano in sostanza fino al soffitto, coprendo quasi tutti i lati
dell’ottagono, fermandosi solo sul lato che ospitava una vetrata a tutta parete
stretta e lunga, che fino a pochi anni prima era stata decorata con diverse
orribili raffigurazioni settecentesche di scene della Passione di Cristo.
Fortunatamente, una grandinata estiva particolarmente violenta le aveva
frantumate e danneggiate in diversi punti, e allora il senso estetico di mia
madre –sempre sia lodato– l’aveva voluto far rifare con semplici motivi
geometrici e floreali sui toni del beige e del verde, dando un’aria più felice
a tutto l’ambiente.
Gli scaffali altissimi erano eleganti, dalle forme semplici e poco elaborate,
anche se dal bordo inferiore spuntavano decorazioni a forma di solide zampe di
leone con le unghie intarsiate di avorio, e in cima avevano un piccolo timpano
triangolare contornato da dei delicati ricci d’ebano. Erano una di quelle cose
che quando le vedi pensi che niente potrebbe distruggerle, che danno quell’idea
di solidità assoluta e antica. Il muro sotto quasi non si vedeva, ma da quei
ritagli che si intuivano tra un timpano e l’altro era di un bianco un po’
sporco, che ben si sposava con la morbida moquette panna che ricopriva tutta
l’area. La stanza, da un capo all’altro, misurava circa un 4 metri, e dentro
c’erano quattro poltrone imbottite con lo schienale alto di un elegante color
cuoio rossiccio, disposte intorno ad un tavolino basso, di mogano anch’esso,
impreziosito da intagli di un legno più chiaro che non avevo idea di cosa
fosse.
Non è che mi intenda troppo di legni, oh.
I colori calmi e il silenzio assoluto che si respiravano lì non mi erano mai
piaciuti troppo, trovavo il posto troppo alto, troppo elegante, troppo
pretenzioso e troppo sobrio insieme, ma non mi fidavo più della Tana. Non
sapevo nemmeno io perché, probabilmente era una certa presenza nel cassetto dei
calzini che mi spiava.
Mi sa che avrei fatto meglio a sbarazzarmene e far finta di nulla.
Risospirai. Tirai fuori dallo scaffale il pesante libro su cui la mia mano,
inconsciamente, si era fermata.
Era uno di quelli più vecchi, rilegati in cuoio, a mano probabilmente, un po’
cadente e sgualcito a dire il vero, con il bordo delle pagine spolverato d’oro,
e d’oro erano anche le lettere impresse nella pelle tenera sulla copertina e
sulla costa. Lo presi in mano, seguendo il titolo inciso, con il dito.
Evangeliario de la spectabilissima familia De Cervis.
Oddio.
Dal titolo sembrava un pallosissimo libro di preghiere, abbastanza vecchio da
stare in un museo. Era anche tristemente tipico di mio padre e del suo
nostalgico gusto per il passato. La copertina era un po’ sgualcita e graffiata,
l’angolo in alto a destra sembrava quasi semibruciato. Feci per rimettere il
libro a posto ma qualcosa mi spinse a sfogliarlo, così, per curiosità. Era
ancora più vecchio di quanto le sue condizioni avessero potuto farmi intuire.
Era stato decisamente scritto a mano, in una grafia spigolosa e molto fitta,
con i capilettere miniati; le pagine erano molto più spesse di normali fogli di
carta, erano grosse e ruvide, per cui ebbi il sospetto che fosse pergamena.
Eks.
Quel tomo una volta era stato un gregge di pecore.
Comunque, chiunque l’avesse redatto, aveva fatto un ottimo lavoro: ogni lettera
d’ inizio capitolo era riccamente decorata con inchiostro d’oro, sullo sfondo
di un rettangolo verde, probabilmente per cercare di riprendere i colori
araldici del nostro stemma. Ogni tanto si vedevano scene di santi e madonne a
tutta pagina, catturati in un’espressione serafica, ritratti con colori che un
tempo dovevano essere stati vivaci, ma che col tempo erano sbiaditi molto,
specialmente i blu e i rossi. Da metà in poi, il libro era molto rovinato, e i
segni di bruciature si facevano più evidenti, tanto da coprire in parte il
testo. Quasi in fondo si vedevano i segni di un paio di pagine strappate via
senza troppi riguardi.
Che libro inutile.
Avrebbe avuto molto più senso in un museo, altroché! Lo chiusi di scatto,
scazzata, ma nel farlo mi rimase in mano la copertina, che aveva deciso proprio
in quel momento di divorziare dalle pagine dopo chissà quante centinaia di
anni, facendole cadere e sparpagliare al suolo. In quello stesso preciso
istante sentii dei passi pesanti che riecheggiavano sul parquet del corridoio.
Cazzocazzocazzo, qualcuno stava arrivando.
Spaventata, le raccolsi e le reinfilai dentro al volo, senza nemmeno badare
all’ordine, e lo ributtai così ricomposto alla bell’e meglio nella sua mensola,
sperando che non si notasse che era tutto scompigliato e storto.
O almeno che nessuno se ne accorgesse.
In quel momento la porticciola della biblioteca, incassata tra gli scaffali, si
aprì, e Gualtiero entrò con un libro in mano.
Feci la prima cosa che mi venne in mente, ovvero prendere in mano un libro a
caso, aprirlo e infilarci il naso, fingendo di leggerlo. Mi stavo cagando sotto
così tanto che non riuscivo nemmeno a mettere a fuoco le linee. Se Gualtiero
avesse scoperto che avevo praticamente distrutto un antico libro di famiglia
sarebbero stati cazzi amari.
«Che ci fai qui, Evelina?»
«Sto leggendo, non si vede?» sollevai il libro come ad enfatizzare la verità
innegabile delle mie parole, appoggiandomi allo scaffale con nonchalance, come
se quella fosse stata una posizione comodissima per leggere. Altroché, lo
spigolo che avevo puntato nella schiena mi faceva sentire proprio a mio agio,
davvero.
Sostenni lo sguardo con fierezza.
«Sai leggere al contrario?»
«Eh?»
«Sai leggere al contrario?»
«No, perché me lo chiedi?»
«Perché concordo sul fatto che Il Ritratto di Dorian Gray sia un grande
libro ricco di significati nascosti e di allegorie, che va letto da diverse
prospettive, ma per lo meno nel suo verso giusto, non credi?»
Mi accorsi che nella fretta avevo preso in mano il libro al contrario. Cazzo.
«Uhm…è che…ehm…» cervello, accidenti, lavora, lavora, criceto in prognosi
riservata che corri su una ruota nella mia mente, dì qualcosa, qualsiasi cosa.
«Io…io ecco…stavo…stavo…stavo solo vedendo se era vero che nelle illustrazioni
originali dell’opera Wilde aveva fatto inserire volutamente dei segni fallici
nascosti nei dettagli.»
L’avevo detto davvero? Per favore, ditemi di no.
«Falli? Intendi…peni?» Gualtiero alzò un sopracciglio.
Merda, l’avevo detto davvero.
«Ah-a.» In quel momento desideravo ardentemente che il pavimento si aprisse e
m’inghiottisse nelle viscere della terra, per poi non sputarmi fuori mai più.
«Peni nascosti nell’edizione originale di un libro di Wilde?»
«Esatto. Sai che Wilde era uno strano, no?»
«E dove hai saputo questa cosa?»
«Internet.»
«Tu ti fidi di Internet?»
«No, per questo controllavo. Giravo il libro per vedere se al rovescio ne
individuavo uno, guarda, tipo qui, in questo fogliame.»
Nella sfiga, la mia buona stella aveva fatto sì che io aprissi il libro proprio
su una pagina con un’illustrazione, così potei fare il gesto plateale di
indicare a caso in un punto particolarmente intricato della stampa ottocentesca.
«Ah, trovato nulla?»
«No, niente peni. Se ne trovo ti avviso, ok?»
«Sei strana forte. Hey..»
«Sì?»
«Nah, nulla.» mise a posto il libro che aveva in mano –Carrie, di
Stephen King– su uno degli scaffali a mezz’altezza, inerpicandosi sulla scala
di ferro battuto.
Mi affrettai a girare il libro e a fingere assoluto interesse per un’altra
pagina, facendo scudo all’Evangelario rovinato con il mio corpo e non
perdendo d’occhio i movimenti di mio fratello, che con tutta tranquillità scese
dalla scala e si avvicinò alla porta, guardandomi come se fossi pazza.
Cosa che poi probabilmente ero.
All’ultimo momento si fermò, appoggiando una mano sullo stipite e dandomi la
schiena.
«Evelina, ti aspettiamo a pranzo tra poco, ok?»
«’kay…»
Stranamente gentile da parte sua.
«Quindi non fare tardi, per una volta sii educata e arriva in orario!» aggiunse
sbattendo la porta.
Come volevasi dimostrare. Certe cose non cambiano mai.
Aspettai un attimo, trattenendo il respiro, giusto per non rischiare che
tornasse indietro per qualche motivo nella stanza, poi non resistetti più e mi
ributtai sul codice miniato.
Ok. I danni sembravano meno gravi ora che non avevo più il fiato di nessuno sul
collo.
La colla, che Dio sa solo di che parte schifosa di animale era fatta, aveva
ceduto totalmente dalla costa, e il sottile filo che legava i pezzi tra loro si
era praticamente disintegrato col tempo.
Fortunatamente i singoli fascicoletti cuciti insieme nel mezzo sembravano
reggere ancora, e ciò mi avrebbe risparmiato dal riordinare tutto pagina per
pagina.
Ovviamente non c’era un indice o dei numeri vicino ai bordi, così cercai di
ricostruire l’ordine valutando il grado delle abbruciacchiature sull’angolo
destro.
Fortunatamente erano solo sette pacchi di fogli, di cui uno, il primo, era
rimasto miracolosamente incollato alla copertina, per cui alla fine riuscii a
risistemare tutto in fretta. Mi frugai nei pantaloni e guardai il mio orologio
da taschino, pensando che dopo pranzo probabilmente avrei avuto il tempo
necessario di recuperare un ago, del filo e tanto SuperAttack per dare il tocco
finale al mio improvvisato restauro. Superata la fase dell’ansia, tornai alla
poltrona e mi sedetti, perché mi stava iniziando a girare la testa.
Mi succedeva spesso in quei giorni, supportando la mia teoria che diceva che di
lì a poco mi sarebbe venuta un’influenza coi fiocchi.
Avevo ancora un bel po’ di tempo prima di pranzare, così presi in mano il
blocco, girai pagina e iniziai a fare uno schizzo. Ne sentivo il bisogno.
Ci misi dentro tutto quello che avevo dentro, in una specie di trance.
C’erano la rabbia che mi accompagnava da quando ricordavo, la paura, la
tristezza, ma anche la grande gioia dei piccoli momenti.
Tosca, sette anni, che mi tira una palla di neve, fa una faccia buffa, ride e
scappa via.
Il sapore della cioccolata con la panna.
La prima volta che avevo visto il mare.
Il sorriso di mio zio Michelangelo e i suoi dolci occhi marroni, la sua
barbetta ispida che mi solleticava le guance, poco prima di morire.
I tramonti solitari nel boschetto, intrecciando coroncine di fiori da regalare
al fiume, e tante altre piccole cose, che, semplicemente, erano valse la pena
di essere vissute.
Posai la
matita.
Una singola lacrima mi solcò la guancia. Una sola, che valse mille battiti di
cuore.
Stavo guardando
un mio ritratto, perfettamente diviso a metà. Da un lato avevo i capelli
lunghi, mossi, come non li portavo più da anni.
Sorridevo, l’occhio mi sembrava fuori proporzione, troppo grande, ma non
importava, perché il mio sguardo contava più di tutto il resto. Le mie iridi
erano profondità chiare e limpide, senza nessun’ombra in agguato. Capii che le
proporzioni in realtà erano perfette, perché mi ero disegnata com’ero quando
ero ancora una bambina. Mi ero disegnata com’ero quando ero ancora felice, prima
di cadere nel pozzo della disperazione e nell’odio. Mi ero disegnata nella mia
innocenza perduta.
La parte destra era speculare e a dir poco spaventosa. Così maledettamente
precisa da sembrare uno specchio.
I capelli quasi rasati, le borse sotto gli occhi, la bocca che disegnava una
piega dura e amara.
E poi c’era quello sguardo, un risucchio di dolore e…
«Wow, certo che disegni bene!»
Mi riscossi. Giulia mi era spuntata da dietro la spalla, appoggiandosi col
mento allo schienale dalla poltroncina.
«Oh, ciao Jay.»
Mi asciugai rapidamente gli occhi con la manica, felice che non potesse
guardarmi in faccia. Mi girai e le rivolsi un sorriso sincero.
Ovviamente indossava quella sua deliziosa uniforme e aveva un piumino per la
polvere vecchio stile in mano, nascosto dietro la schiena, come se fosse la
coda di una papera.
«Ti ho disturbato? Scusami…» disse sbatacchiando le ciglia lunghe, ma intanto
sorrideva maliziosa. Dio, era dannatamente tenera quando faceva così.
«No no, tranquilla, stavo solo…scarabocchiando.»
«A me non sembra uno scarabocchio, sai? Hai talento.» mi appoggiò una mano
sulla spalla, timidamente. Mi guardò dritto negli occhi, chiedendo la mia
approvazione per quel gesto un po’ troppo personale. Mantenni il sorriso, il
suo tocco mi andava bene, anzi.
Rimanemmo a guardarci per un po’, senza dire una parola. Più mi perdevo nei
suoi occhi ambrati, più vedevo il suo sorriso allargarci, e sapevo che il mio
faceva lo stesso.
«Beh, però io devo lavorare, non ho tutto il tuo tempo da perdere!» esclamò di
scatto, tirandosi su e facendomi il solletico sotto il naso con il piumino.
«Ti da fastidio se rimango qui? Ho altri scarabocchi da fare, se
vossignoria concede!»
Scherzare con lei era semplicemente così facile…
«Al massimo se devi passare l’aspirapolvere alzo i piedi, non ti preoccupare!»
«Allora mi sa che non hai visto abbastanza bene il fantastico piumino
anteguerra che mi ha dato Mildred!»
A sottolineare il fatto, me lo passò di nuovo in faccia.
«Con questo non ci pulisci i pavimenti, ma i mobili e le facce di ragazzine
sfrontate!»
Ridendo, si staccò dalla poltrona e si arrampicò sulla scala, arrivando fino in
cima per iniziare a pulire il bordo superiore.
Salendo, i suoi fianchi ancheggiavano ritmicamente, e, dal mio punto di vista,
la gonna nera lasciava ben poco all’immaginazione.
Deglutii forte. Avevo la gola incredibilmente secca.
Radunai velocemente le mie cose e scappai via senza dire una parola,
chiudendomi la porta alle spalle.
Mi strinsi il blocco al petto, appoggiandomi per un attimo alla porta chiusa.
Una pendola lontana nella casa suonò l’una.