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Autore: Aleena    14/03/2013    1 recensioni
Shasta, un drow dalle grandi ambizioni, intesse una relazione proibita con Kania che lo porterà davanti al giudizio della sua Dea. La sua condanna all'eterno dolore, però, si trasforma nell'occasione di potere e di libertà che per tutta la vita aveva, inconsapevolmente, atteso.
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1a Classificata al contest "Imprisonment: because there isn't only happiness in our life" indetto da Visbs e Tallu_chan sul forum di EFP.
Genere: Angst, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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VII - DESERTI

 
 
  Quello che successe poi è storia.
Shasta condusse la femmina attraverso vie sicure, evitandole l’imboscata dell’esercito, e lei conquistò la sua vendetta, bruciando il mondo che l’aveva creata. Al riparo nelle retrovie, l’albino osservò il tempio collassare su sé stesso e le sacerdotesse urlare, cercando d’invocare un potere che non rispondeva più loro. Lolth, la regina volubile e bellissima, aveva abbandonato quel luogo, voltando le spalle alla sorte dei suoi figli troppo avidi. Gli schiavi conquistarono le macerie e disseminarono cadaveri prima di riversarsi fuori, verso la superficie, lontano dal calore e dai ragni che, sfuggiti alle fiamme, bevevano avidi il sangue che la battaglia aveva versato per loro. La Dea godeva i frutti della sua vittoria e Shasta quelli del suo tradimento.
Poi, prima che potesse rendersene conto, il maschio si trovò all’esterno, fra correnti d’aria gelida che l’avvolgevano e il peso del cielo stellato che l’opprimeva con la sua vastità, intento a dire addio all’artefice della distruzione del mondo che conosceva.
«Dove andrai?» chiese l’albino alla femmina. L’aveva condotta fuori mentre la battaglia imperversava e lei aveva atteso, nascosta al limitare dello sbocco d’un tunnel, la notte.
«Camminerò nell’ombra e mi abituerò al giorno. Dove, lo deciderà il destino.» rispose l’albina, senza enfasi né gioia, né paura.
«Sei molto poetica, jalil» sospirò Shasta, facendole un breve inchino strafottente.
«La liberà mi fa sentire ispirata» disse lei, piegando appena le labbra, forse a sottintendere un tono scherzoso che non riusciva a trapelare dall’assenza di inflessioni della sua voce.
«Anche a me. Che ne dici di continuare insieme? Verso sud, verso la luna che ci somiglia così tanto, pallida e silenziosa com’è» si sentiva euforico, inebriato dalle possibilità: era libero, veloce come un tempo e più forte, con un mondo davanti e una vittoria alle spalle.
«Non ho bisogno di un’amante.»
«E io non sono ancora caduto così in basso da volere una femmina di così scarso valore fra la nostra genia. Però sai combattere, e io ho avuto frequentazioni ben peggiori di un’albina.» la sfotté Shasta, quel mezzo sorriso appiccicato alle labbra come un tumore irrisorio: inadatto e fastidioso.
«Mi diverti, lo sai? Ma no, io vado a nord. Ho un’illusione da cercare.» la femmina si alzò, raccogliendo il fodero di una sciabola lunga più del suo braccio.
«E sia.» disse Shasta e si voltò, lasciandola ad avvolgersi un mantello rosso sopra la divisa da guardia che ancora indossava, macchiata del sangue dei suoi stessi commilitoni. Aveva percorso diversi passi quando, improvvisamente, si voltò di nuovo verso di lei e disse «Come ti chiami, femmina?»
Lei rispose e Shasta sorrise. Tipico delle nobili, sbandierare al vento il suo nome completo.
Alle spalle del maschio, l’albina si allontanò in silenzio, senza voltarsi mai: non avrebbe rivelato il suo nome che ad altre tre persone in tutti i lunghi anni che le restavano da vivere, ma di questo Shasta non venne mai a sapere. Le loro vite, come le loro strade, furono diverse.
E, mentre Leona e la Guerra attendevano la femmina, i vicoli di Soham, dall’altra parte del mondo, erano il futuro di Shasta. 
 

*

 
  Il ricordo del deserto era cancellato dalle sue notti.
Shasta aveva vagato senza una meta, sicuro che prima o poi sarebbe arrivato all’orizzonte e, quando la luna fosse calata, l’avrebbe potuta toccare. Camminava protetto dalla luce dell’astro notturno e, quando le nubi per la prima volta gli si addensarono intorno, l’albino non capì cosa fossero. Luci all’orizzonte stampavano fili incandescenti sulla retina, e il rumore sordo del ribollire nei cieli lo rendeva sordo, incapace di capire i pericoli. Dunque rimase fermo e, quando il temporale lo investì, la ragione vacillò e un terrore cieco lo colse, spingendolo a terra, a pregare per la sua vita. L’acqua lo colpiva, ferendogli la pelle con una gelida morsa, e luci e rumori crescevano tutto intorno a lui, alimentate dal vento tagliente. Venne il giorno ma Shasta non se ne rese conto: il nero inghiottiva ogni cosa, la pioggia negli occhi era fastidiosa come lacrime. Poi tutto finì e tornò il cielo, ancora più terso e vasto.
Le proporzioni l’uccidevano: per quanto vasta fosse stata Che’el Phish – e lo era, una delle maggiori città del sottosuolo e, per sicuro, la più popolosa di quella regione – l’albino non era abituato all’orizzonte e agli spazi aperti che gli si presentarono quando, dopo notti di cammino e giorni di fuga dalla luce, gli alberi s’erano diradati e la terra spaccata.
Il Soha non era un vero e proprio deserto, quanto una distesa di rocce e suolo bruciati dal sole che, come un anello, circondavano la zona di sabbie e tempeste; il terreno più arduo per un’Ilythiiri, anche per uno dalla pelle meno delicata come lui stesso era divenuto.
Dalle nebbie che avvolgevano quel periodo riemergeva il ricordo di giornate trascorse all’ombra di un sasso, il mantello stretto attorno al corpo e la pelle che bruciava come se qualcuno vi avesse appiccato un incendio, mentre dagli occhi scendevano lacrime salate che bruciavano la pelle dove si era spaccata.
Shasta non avrebbe saputo dire come era sopravvissuto. Vagava nella notte gelida cercando la via per tornare indietro, tutta l’euforia scemata e abbattuta dagli stenti, mentre nel giorno il sole lo uccideva lentamente giocando col dolore della sua natura, accerchiandolo e donandogli visioni attraverso la nebbia che gli velava gli occhi sensibili. Poi giorno e notte si erano fusi in un biancore omogeneo e, quando s’era accasciato al suolo rovente, completamente cieco e assetato, aveva saputo di essere vicino alla morte. Allora aveva invocato la salvezza.
E le streghe avevano risposto.
Dovevano averlo trascinato via e accudito, forse prendendosi cura di lui alla stessa maniera in cui, un secolo prima, una vecchia l’aveva risanato dalla trasformazione. Dormiva accanto al fuoco di notte e all’ombra di tende spesse di giorno, ma erano i periodi di veglia a essere carichi di sogni e visioni. Ricordava l’odore delle erbe che bruciavano, il sapore degli infusi con cui lo nutrivano e la sensazione dei loro canti sulla pelle, il brivido vibrante che provava vedendole danzare, figure senza età avvolte in veli color della sabbia e del fuoco che roteavano al ritmo di arpe e tamburi.
Alcune notti gli era vietato uscire, altre sedeva all’interno del cerchi mentre mani sapienti lo guidavano, insegnandogli a tracciare i segni nella terra e nell’acqua, a soffiare fumo e vedere il passato nelle fiamme.
Ricordava ogni simbolo, ma non un solo nome, non una singola fisionomia. Non c’erano volti indosso a quelle femmine, né colori: solo suoni, movimenti e risate, solo profumi di spezie e incenso, solo il frusciare delle vesti e il sibilo dei fuochi.
Qualcuna chiedeva in cambio un ricordo, qualcuna un bacio, altre ancora volevano giacere con lui sotto la luna piena, circondate dalle danze. Shasta non ricordava quali richieste avesse accettato e quali rifiutato.
Sapeva per certo di aver tracciato con l’inchiostro il simbolo della morte su una femmina dalla pelle chiara come latte ma non rammentava perché – la puntura di uno scorpione, forse, o il Morbo, che qualche anno dopo avrebbe decimato intere popolazioni?
Una notte s’era destato e aveva trovato una donna china su di lui, che gli toccava la fronte e il petto con gli indici. Shasta le chiese cosa voleva e lei disse che era la sua ricompensa, poi scomparve come vento, lasciandolo solo col dolore; e poi il giorno era sorto quando non avrebbe dovuto, e una lama di luce ed elettricità aveva squarciato il cielo, distendendosi come un velo a coprire le stelle – allora Shasta, per la prima volta nella sua vita, aveva sentito il tocco dolce della luce come dovevano sentirlo gli esseri che non avevano lasciato la superficie. Le donne danzavano, nude eccetto che per una cintura di pietre levigate che tintinnava al ritmo dei fianchi e delle arpe prima, della passione che consumavano l’una con l’altra poi. Qualcuna disse che quella era la notte dei piaceri, altre che l’orgasmo era la loro preghiera.
Poi vennero le sabbie e infine il vento caldo. Le donne si coprirono, celando il capo con veli e il corpo con sete leggere. Una di loro – capelli rossi, lentiggini, fiamme negli occhi – disse a Shasta che era il tempo del riposo. Le femmine gravide si chiusero nelle tende e le altre fecero festa, ringraziandolo per il dono che aveva fatto ad alcune di loro; e l’albino capì che le meraviglie che aveva visto e imparato erano la controparte di un patto che implicava la sopravvivenza della tribù. Allora, sentendosi usato, corse nella sua tenda e, infilato il mantello, sollevò il cappuccio e si diresse a ovest con una nuova sicurezza.
Sapeva cosa vi avrebbe trovato.

  
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