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Autore: Ivan_    14/03/2013    1 recensioni
Tralala, Valhöll perché il Walhalla è un posto bellissimo.
Storia di un ragazzo qualsiasi che non aveva niente da fare, a voi
"Mi chiamo Ivan e questa è la storia della ragazza che amo e di come mi piacesse far annegare le formiche nel bianchetto."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il fatto che abbia il mio nome è solo perchè mi piace, non perchè sia io o cose simili

 

Chapter One.

 

 

Era un giorno di Maggio ed io e il mio vicino di banco sbriciolavamo merendine sul davanzale della finestra della classe, per attirare le formiche, sapete.

Avevamo preparato un foglio a quadretti piegato a metà ed ogni formica catturata aveva già pronto il suo ring di bianchetto. Un piccolo cerchietto bianco su un foglio bianco in attesa che un puntolino nero andasse lì a conciliarsi con la sua prematura morte.

La prof era in classe, credo, ma era quella di quell'inutile materia -se così vogliamo chiamare l'opzione due dopo religione- che è Alternativa. Se ne stava là alla cattedra a leggere per se stessa chissà che libro noioso, noi inscenavamo nel frattempo una mini strage di quelli che chiamavamo soldati.

È curioso fare caso a come le formiche siano bersagliate da tutti i ragazzini, si vede che attirano la malvagità infantile con le loro antennine e quelle zampette fragili.

Comunque sta di fatto che Ciccio, così lo chiamavo, prendeva su una formichina la piazzava sul foglio e io avevo il compito di indirizzarla nel suo cerchio predestinato senza che si facesse prendere dal panico e poi cominciavo a riempire in fretta spremendo il bianchetto liquido. Per il povero insetto sarà stato terrificante: una gigantesca bolla bianca che incombe su di te e poi ti avvolge non dev'essere il massimo, specie se tossica.

E incitato dai miei amici radunati attorno al banco dell'esecuzione riempivo tutto il cerchietto di melma biancastra e tutti insieme, soddisfatti, la guardavamo indurirsi e pietrificare l'insetto.

La cosa si è ripetuta una dozzina di volte prima che cominciassimo a sentirci in colpa e prima che Ciccio si facesse beccare a sventolare il trofeo a pois, il cimitero di statue di formiche.

Questo mi torna in mente ora che sono sdraiato su una panchina in un parco anonimo, con lo sguardo rivolto ad un cielo terso di Maggio, sei anni dopo quelle furbate, sulla mano mi cammina una formichina con la testa rossa diretta verso casa sua.

Si sta tranquillamente senza giacca, i raggi del sole scaldano perfettamente, tranne i rari momenti in cui una di quelle nuvole grosse, bianche e morbide ci passano davanti.

Che ci faccio qui? Nulla, mi faccio coccolare dall'aria tiepida e da quella manina gentile che mi liscia i capelli regolamente con ritmo calmo.

Ve l'ho detto no? Della ragazza che amo dico. Ecco a lei piace carezzarmi la testa e io adoro i grattini sulla nuca, non la fermo di certo ora che ci troviamo in questa bolla temporale.

Lontano da tutti e da tutti i problemi, io, lei e la formica.

Da questa posizione, con la testa su una sua coscia -perchè lei è seduta e io sdraiato no?- vedo uno stralcio del suo sorriso, una ciocca della sua chioma rossiccia, una fetta della sua spalla sinistra minuta e dalla pelle un poco rovinata da un graffio.

Si chiama Elena, la mia ragazza, e ho l'impulso di tirarmi su e schioccarle un bacio su quella porzione scoperta di carne.

Ma mi trattengo e le racconto di me, Ciccio e le formiche.

Per vederla sorridere.

  
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