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Autore: _Lalli    15/03/2013    3 recensioni
Arya Dröttningu, ambasciatrice degli elfi, protegge l'unico uovo di drago in possesso alla resistenza; Durza lo Spettro attende da anni l'occasione di impossessarsene e finalmente pare esserci riuscito, ma l'elfa riesce a rovinare miseramente i suoi piani. Allo Spettro non rimane che un'unica soluzione: torturare la sua prigioniera senza pietà, fino a che non confessi il luogo in cui l'uovo è stato trasportato.
Ma se, durante la prigionia, qualcosa di inaspettato fosse accaduto ad Arya? Qualcosa di cui nessuno, a parte lei e Durza, è a conoscenza?
Costretta ad un viaggio avventato e ad un'improbabile alleanza, Arya scoprirà lati insospettabili del suo nemico e si lancerà in una ricerca che getterà i semi del suo destino. Coinvolta in segreti incredibili, finirà per svelare alcuni dei molti misteri che ancora oscurano la bellissima terra di Alagaësia.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altri, Arya, Durza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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4. Paura

I giorni si susseguirono con lenta e macabra monotonia.
Persi la concezione del tempo in maniera totale. Le tacche che avevo iniziato ad incidere sul muro erano ormai abbandonate da un pezzo, l’unica mia fonte di scansione del passare delle ore era il cambio della guardia, alla sera e verso il mezzogiorno.
La neve era giunta anche a Gil’ead e il cortile sul quale si affacciava la mia cella ne era rimasto velato per una notte intera. Ma poi il marciare dei soldati sul terreno aveva ridotto il manto candido ad un lago di fango.
Tolta la poesia del biancore della neve, mi restarono solo le sue conseguenze. Quindi il freddo che filtrava dalla piccola finestrina era aumentato, anche se non ero più tanto sicura che fosse più caldo dentro che fuori.
Ogni istante della mia vita era accompagnato da un eterno, totale e soverchiante senso di terrore.
Sapevo che quando passi lenti e leggeri scendevano le scale, il mio tormento stava per iniziare.
E quando lui si affacciava alla porta della cella, il panico si faceva così forte da rischiare di sottomettermi alla sua follia.
Durza mi trascinava con malagrazia fino alla porta nera della stanza delle torture, mi portava dentro e mi bloccava sul tavolo.
E poi parlava. A lungo.
Il tono carezzevole e mellifluo della sua voce era letale e pericoloso. E di giorno in giorno sempre più pericolosamente attraente.
«Si tratta di poche parole, piccola Elfa. Dimmi dov’è e finirà tutto. Non vuoi tornare a casa tua? Tra gli alberi, i canti, la pace? Non farai del male a nessuno, vedrai. Non darò al re nessuna informazione che possa nuocere ai Varden o alla tua specie, te lo prometto. Nessuno potrà biasimarti per le tue azioni, sei stata brava, sei stata coraggiosa. Ma adesso arrenditi, la tua resistenza non porterà a nulla se non a farti del male. Aiutami e saprò come ricompensarti».
Resistere a tutto quello era sempre più difficile, specialmente se avevo la piena consapevolezza che alle maniere gentili sarebbe subito seguita la violenza.
Quando Durza smetteva di camminare intorno a me, stanco di parole, ero sempre totalmente fradicia di sudore gelido. La prova concreta della mia paura. Era un sentimento che era ormai fuggito al mio controllo, spinto fuori dagli angoli più reconditi della mia coscienza, giorno dopo giorno, ferita dopo ferita.
Lo Spettro si era premurato di raggiungere con il ferro rovente e con la lama dei suoi pugnali, la maggior quantità possibile di pelle.
E mi aveva spogliata.
Era stata una delle esperienze più umilianti della mia vita. Durza aveva tirato i lacci della mia camicia nera con lentezza, guardandomi con freddo disinteresse, come se per lui non fossi altro che un ennesimo animale da mandare al macello.
«Spettro c-cosa..?» avevo balbettato, spaesata dalla sua azione, e muovendo le braccia incatenate nel vano tentativo di fermare l’opera delle sue dita agili.
Il mio nemico era scoppiato a ridere, una risata forte e piena, di gola. Non pensavo che gli Spettri avessero la capacità di ridere in quel modo.
«Non vedo il motivo della tua vergogna», aveva poi detto, sollevandomi la camicia, «il tuo è il corpo di un guerriero, ti fa onore». Le sue dita gelide avevano percorso l’orlo della fascia di stoffa che mi copriva il seno. «Questa potrei concederti di tenerla».
Avevo girato il capo di lato, con gli occhi lucidi per l’umiliazione e la vergogna di essere così esposta sotto lo sguardo indagatore di un mostro.
Le mie labbra erano spaccate per tutte le volte in cui ci avevo affondato i denti, nel faticoso tentativo di trattenere un qualsiasi lamento, le palme delle mie mani non erano graffiate solo perché le mie unghie erano troppo corte per riuscire ad affondare nella mia carne. Al termine di ogni tortura il mio corpo tremava violentemente per la tensione dei muscoli, che mantenevo per arginare il dolore.
Quando nella parte superiore del mio corpo non ci fu letteralmente più spazio per altre ferite, i pantaloni di pelle fecero la stessa fine della camicia e anche in quel caso Durza mostrò la decenza di lasciarmi almeno addosso le corte brache che portavo sotto.
A quel punto ogni singolo pollice della mia pelle era devastato da graffi, ustioni e ferite che avevano a malapena il tempo di smettere di sanguinare, che già ero nuovamente nelle mani assassine di Durza, per ricominciare daccapo. Talvolta doveva guarirne alcune per impedirmi di morirne o per potere procurarmele di nuovo.
Quanto tempo passava tra una sessione di tortura e un’altra? A me non parevano altro che pochi minuti.
Quanto tempo passava mentre ero distesa sul tavolo di pietra? Ore. Giorni. Settimane. Mesi. L’eternità.
Il malefico anello di ametiste violette era ancora attaccato al mio indice con un’ostinazione incredibile, sicuramente dovuta alla magia dello Spettro. Il bagliore violetto che emanava anche nella totale oscurità era un perenne monito. Era come avere sempre una parte di Durza con me. E non era piacevole.
Avevo provato di tutto, compreso sbattere la mano contro il muro, avevo cercato di farlo scivolare via con l’acqua, avevo cercato di rompermi l’osso. Ma con il solo risultato di scatenare l’ilarità del mio carceriere quando se n’era accorto.
«Credo che cominciare a credere alle mie parole sarebbe più.. salutare per la tua persona» aveva detto, spostandomi il dito rotto.
E poi me lo aveva aggiustato con un incantesimo.
«Non lo farò una seconda volta» mi ammonì.
Lo odiavo.
Non avevo mai odiato nessuno così tanto quanto odiavo lui.
Durza era spaventoso. Sembrava che la natura avesse voluto scherzare con lui.
Non mi piacevano i suoi capelli rossi.
Non mi piaceva il modo in cui i suoi occhi da gatto apparivano sempre divertiti da ogni mio comportamento e pronti a cogliere ogni mia reazione non appena me ne fossi lasciata sfuggire una.
Non mi piaceva la smorfia divertita che avevano sempre le sue labbra crudeli e pallide, come se farmi del male fosse qualcosa da cui trarre divertimento.
Non mi piaceva il suo naso aquilino, che gli dava l’aria di un rapace pronto ad attaccare.
Non mi piaceva il tono pericolosamente gelido della sua voce.
Mi venne la tosse per il gelo. E poi la febbre per gli sforzi a cui il mio fisico era sottoposto.
Ogni movimento minimo scatenava dolori in ogni terminazione delle mie membra.
E intanto i giorni passavano e le torture continuavano..

«Dove hai mandato la pietra?»
«Come ti chiami?»
«Dove si trovano gli elfi?»

La voce era quella morbida e modulata di Fäolin, ma le domande erano le stesse che mi rivolgeva lo Spettro ogni giorno.
E dopo una lunga insistenza Fäolin sussurrò: «Resisti. Verrò a prenderti».
Per poi sparire.

Mi svegliai, sudata fradicia.
Oltre la porta, il respiro regolare e tranquillo dei quattro uomini appostati davanti alla mia cella, parve quasi innaturale.
Mi alzai a sedere e rabbrividii. Poi tossii. Ripetutamente. Fino a che una lancia non batté sulla mia porta per intimarmi il silenzio.
Nonostante le sofferenze delle torture fossero per me nuove e molto sentite, quasi la stessa sofferenza era data dalla noia e dall’inerzia. Gli elfi erano famosi per la loro infinita pazienza, caratteristica che condividevano con i draghi, ma io ero la famosa eccezione alla regola.
Gli uomini avevano una vita molto breve e quindi tendevano a sfruttarne al massimo ogni singolo istante, gli elfi invece, incorruttibili nella carne, avevano a loro disposizione una vita lunghissima e quindi non conoscevano l’affanno e l’impazienza.
Forse io, dopo tutti quegli anni passati tra gli uomini, mi ero lasciata condizionare dal loro modo di vivere, o forse era semplicemente il fatto che la mia vita fosse pericolosamente in bilico. Non sapevo per quanto lo Spettro avrebbe sopportato la mia insistenza, ma di sicuro non per sempre. E quando si sarebbe rassegnato mi avrebbe uccisa.
E, nonostante fosse ovvio che quello era il mio destino, non riuscivo ad accettarlo.
Ma del resto, se non ce l’aveva fatta Fäolin perché avrei dovuto farcela io? Era sempre stato così, se falliva uno, falliva l’altro. Sempre. Da quando ero bambina. Perché quella volta sarebbe dovuto essere diverso?
La mia solitudine fu interrotta da voci sommesse, provenienti dalla ripida scaletta che portava alle prigioni. Una la riconobbi immediatamente come quella di Durza, l’altra era così bassa che non riuscii nemmeno a distinguere se si trattasse di una donna o di un uomo.
Durza congedò il suo interlocutore con evidente irritazione: «Non ti voglio vedere mai più girare qui intorno, sono stato chiaro? Sparisci» ordinò gelido.
Poco dopo i soldati aprirono la porta della mia prigione, lasciando filtrare un cono di luce emesso dal braciere che usavano per scaldarsi, e che mi accecò.
Senza nemmeno intimarmi di uscire o di arrischiarsi a mandare uno dei suoi soldati a prendermi, lo Spettro entrò, mi afferrò per i polsi, e mi trascinò per il corridoio, fino alla porta della stanza delle torture. Mantenne uno sguardo assorto, assente e rabbioso per tutta la durata del breve tragitto. Sembrava preoccupato.
Ma quello non gli impedì di tenermi saldamente mentre mi divincolavo disperatamente nel vano tentativo di fuggire al mio supplizio giornaliero.
Durza mi trascinò in un angolo della stanza delle torture, lontano dal solito tavolo di marmo e tirò i lacci della mia camicia bruscamente, senza troppe cerimonie.
Praticamente nuda sotto i suoi occhi, incassai le spalle e feci scivolare i miei capelli lunghi fino quasi alla vita in avanti, a coprirmi. Ero terrorizzata e dovetti fare uno sforzo immane per non tremare.
Cosa aveva intenzione di fare?
Lo seppi quando lo Spettro mi annodò i capelli sporchi sulla testa con un laccio di cuoio e mi incatenò con il viso rivolto alla parete.
Uno schiocco sordo riempì l’aria.
Una frusta.
Chiusi gli occhi e digrignai i denti così forte da farmi male alla mascella.
Contai fino a cinquanta frustate, sentendo il sangue caldo che mi scorreva sulle gambe, poi la vista mi si annebbiò, ma lo Spettro non pareva intenzionato a fermarsi. Non ebbe la minima pietà, pareva semplicemente aspettare che io mi arrendessi. Cercai rifugio nelle profondità della mia mente, ma il dolore era così forte che mi trascinava sempre brutalmente alla realtà.
Quella fu la prima volta che gridai fino a sputare sangue.
Poi svenni.

Riaprii gli occhi con la sensazione che qualcosa mi avesse strappato la carne della schiena a morsi. E forse era veramente così. Con un gemito, mi tastai il dorso. Ero nella mia cella, distesa sulla pancia sull’asse di legno che era il mio letto. Le mie dita toccarono profonde scanalature nella mia carne, ma mi affrettai a ritrarle perché erano dolorose in maniera indicibile.
Con fatica, mi alzai in piedi. Barcollai.
Davanti a me c’erano la mia camicia e i miei pantaloni, gettati con noncuranza a terra. Li raccolsi, rendendomi conto di stare tremando convulsamente. C’era qualcosa che non andava.
Mi bruciava la nuca e i miei sensi erano in massima all’erta. I miei occhi guizzarono lungo le pareti della cella e poi verso la porta.
Dalla finestra dello spioncino, un grande occhio dall’iride bianca mi scrutava nel buio.
Gridai e caddi nuovamente a sedere sul letto, terrorizzata da quella visione agghiacciante.
L’uomo proprietario dell’occhio non si scompose, sempre che si trattasse di un uomo in effetti. Aguzzando le orecchie, scoprii con orrore che non percepivo il respiro di quella cosa, e tanto meno il battito del cuore. Quell’occhio pareva essere sospeso nel vuoto, avrebbe potuto essere finto se solo la palpebra, ornata di lunghe ciglia, non si stesse abbassando a ritmo regolare.
Cercai la mia voce, ma quello che mi uscì fu solo un rantolo nervoso. «Chi sei?»
La situazione non si smosse, tanto che mi rassegnai a rimanere immobile come una statua di pietra e lasciarmi scrutare dall’occhio indagatore, che si muoveva in tutte le direzioni, osservandomi interamente, quasi a volersi accertare che fossi proprio io.
I miei muscoli si tesero e rilassarono ritmicamente, scatenando fitte di dolore lungo la schiena. Cercai istintivamente le parole nell’antica lingua che mi avrebbero potuta salvare, ma il bagliore violetto al mio dito mi informò che non ne sarebbe valsa la pena.
Mi diedi uno schiaffo per accertarmi di essere sveglia, ma effettivamente il dolore diffuso in tutto il corpo era sufficiente come garanzia.
Dov’erano le guardie? Non percepii i loro respiri. Semplicemente non c’erano, ero sola con quella strana apparizione. Una morsa di tensione mi strinse lo stomaco.
L’essere al di là della porta parve riscuotersi dopo un lungo sonno. Sentii d’improvviso una voce sottile, quasi sicuramente contraffatta con la magia, scivolare nell’aria. Non capii nulla di quello che stava dicendo ma ebbi l’improvvisa intuizione che si trattasse di un incantesimo.
«VATTENE!» gridai, alzandomi di scatto dalla branda, ignorando la protesta delle ferite della mia schiena, e correndo a sbattere i pugni contro lo spesso portone di legno e metallo.
Ma quando guardai attraverso la finestrina quadrata che costituiva lo spioncino, non vidi nessuno.
Il fatto mi sconvolse. Attonita, rimasi immobile, capendo che doveva per forza essersi trattato di uno scherzo della mia mente.
Sto diventando pazza? O era una visione provocata da qualcuno?
Scossi la testa. La mia mente era sempre stata talmente salda che riuscire a procurarmi visioni doveva essere escluso. Questo prima che il mio corpo venisse sottoposto a sforzi indicibili, però.
In quello stato di riflessione e profonda inquietudine, non udii i veloci e leggeri passi che si avvicinavano.
E quando un viso pallido, labbra crudeli e occhi rossi come braci riempirono il vuoto del corridoio fuori dallo spioncino, sussultai.
«Ho sentito la tua voce» proferì Durza con espressione seria e indagatrice.
Scossi lentamente la testa. «Non io Spettro» mentii.
Con poca convinzione, socchiuse gli occhi da gatto, gettando un rapido ma accurato sguardo intorno a sé.
La tensione che mi soffocava raggiunse un livello insostenibile, se anche uno Spettro mostrava palese ansia, doveva essere successo veramente qualcosa.
A confermare la mia teoria venne la domanda di Durza.
«Hai visto per caso qualcuno di insolito passare di qui da ieri notte, Elfa?» chiese con un tono di voce così morbido che ebbi la tentazione di scoppiare a piangere e confessargli tutto.
Analizzai rapidamente la faccenda dell’occhio. Non poteva essere successo veramente, doveva essere stato uno scherzo della mia mente stanca, e io non volevo assolutamente dare soddisfazioni di alcun tipo all’uomo davanti a me.
«No» dissi. E subito mi staccai dalla finestrella e retrocedetti nella mia cella, non riuscendo a sostenere un istante in più gli occhi penetranti di Durza. Mi inquietavano, sembravano leggermi dentro, facevano sembrare vano ogni mio tentativo di nascondergli la verità, di qualunque natura essa fosse.
La pelle d’oca sulle braccia mi informò che non avevo ancora indossato i miei vestiti e che mi stavo letteralmente congelando.
«Non disturbarti a metterla» mi fermò lo Spettro, ancora affacciato dallo spioncino, quando presi in mano la camicia. «È ora di rinnovare quei graffietti, da ieri sera sono già migliorati parecchio» aggiunse da dietro alla porta.
Da ieri sera? «Ho dormito un giorno intero?»
Per quello le guardie non c'erano: era l'ora del cambio serale.
«Sei svenuta» specificò. «Quello delle frustate non è un dolore dal quale ci si riprende così in fretta. Temo che tuttavia dovrai farci l'abitudine».
Distolsi lo sguardo, umiliata.
Lo vidi scostarsi da davanti alla porta quando sopraggiunsero i soldati con la chiave della mia cella ed entrarono per tirarmi fuori.
Il dolore alla schiena mi rese cosciente del fatto che non volevo farmi torturare di nuovo, non volevo che altre frustate si sovrapponessero a quelle. Avrebbe fatto male, un male indicibile. E io non volevo, non ero pronta, non mi ero ancora ripresa dal dolore della sessione precedente e nemmeno dal terrore causato dall’occhio bianco.
Un tremito di paura mi scosse le membra e, quando i quattro soldati si avvicinavano a me sospettosi, le lance alla mano, capii che sarei stata disposta a tutto pur di non subire ancora le torture di Durza.
E fu quello che mi spinse a correre incontro alle guardie, sfilare la spada dal fodero di uno, scivolare tra di loro e raggiungere in un attimo lo Spettro sulla soglia.
Ebbi il tempo di registrare l’espressione sorpresa di Durza prima che la lama si abbattesse su di lui..
..sfiorandogli a malapena la spalla sinistra.
Lo Spettro si era spostato con una prontezza e una velocità ammirevoli persino per un elfo e in quel momento mi fronteggiava con un’espressione piuttosto irata e un fiore di sangue che andava formandosi dove l’avevo a malapena ferito.
Con il solito ritardo di riflessi, gli uomini mi corsero dietro gridando. Alzai la spada, ma un colpo violento me la fece volare via di mano.
Durza stringeva tra le mani una spada pallida, con un sottile graffio sulla lama e mi stava letteralmente uccidendo con gli occhi. Deglutendo, fissai la sua arma, quella che Ajihad aveva scalfito durante il suo famoso duello con Durza, duello che il capo dei Varden non si faceva riserve di raccontare a destra e manca.
Del resto era forse l’unico umano in tutta la storia di Alagaësia ad essere sopravvissuto ad un combattimento contro uno Spettro. Peccato che lui in quel momento fosse al sicuro nella sua inaccessibile montagna, incurante della mia situazione, mentre io ero in balia di un mostro alleato del re che pareva avere esaurito la sua debole riserva di pazienza.
«Questa me la pagherai» sibilò lo Spettro, con un tono che mi fece balzare il cuore in gola.
Mi avvolse il braccio con le sue lunghe dita, stringendo la presa al punto di farmi perdere la sensibilità dal gomito alla mano.
Mi dibattei disperata, come un animale in gabbia. Non volevo tornare in quella stanza, non volevo sentire ancora dolore. Non ne potevo più. E lui era troppo, terribilmente spaventoso, temevo quello che mi sarebbe aspettato una volta varcata la soglia di quella camera maledetta.
Mentre puntavo i piedi per fare resistenza alla forza di Durza, non notai il giovane soldato con i capelli e gli occhi castani, passarmi accanto e andare a posizionarsi davanti allo Spettro, costringendolo a fermarsi.
«Cosa vuoi Rohat?» ringhiò Durza, con un tono che prometteva guai.
Il soldato si inchinò e poi rimase a fissarsi la punta dei piedi, pallido come un cencio. «Mio signore non dovresti torturarla oggi» disse.
Gli uomini dietro di me sussultarono, io sgranai gli occhi per la sorpresa e lo Spettro emise una risatina spaventosa.
«Perché non dovrei ragazzino? Non ti impicciare in faccende che non ti riguardano, non ho proprio tempo da perdere con te. Togliti prima che mi venga voglia di punirti per la tua sfacciataggine».
Rohat si dimenò, decisamente spaventato, ma non si allontanò. Scrutandolo con attenzione, realizzai che non doveva avere più di diciassette-diciotto primavere e che era molto più giovane rispetto ai suoi compagni, tutti uomini fatti.
«V-vedi padrone le ferite che ha sulla schiena sono gravi, se oggi gliele rifai, lei muore. E non penso che lei deve morire no?»
Con poche parole borbottate, Durza lo mandò a schiantarsi contro la parete.
«D’ora in poi ti occuperai di fare la guardia nel castello» disse, riprendendo a strattonarmi verso la porta nera della stanza delle torture. «Non ho bisogno di soldati che hanno pietà dei prigionieri qui. E sono stato fin troppo magnanimo con te, non farmene pentire».
Prima che la porta si richiudesse alle mie spalle, ebbi il modo di incontrare lo sguardo atterrito del ragazzo, con le sopracciglia sollevate, quasi mi stesse chiedendo scusa per non essere riuscito a fare di più per me.
Mi si inumidirono gli occhi per la commozione, era il primo e probabilmente ultimo esempio di pietà umana che avevo incontrato da quando ero imprigionata a Gil’ead. Sperai con tutto il cuore che il suo signore non meditasse alcuna punizione nei suoi confronti per il comportamento che aveva mostrato, non lo meritava.
L’unico che avrebbe dovuto essere punito era l’uomo dai capelli rossi che mi stava incatenando con malagrazia alla parete, con gli spaventosi occhi cremisi assottigliati per la rabbia e l’irritazione e una scura macchia di sangue che si espandeva sul tessuto altrimenti blu notte della sua giubba. Almeno potevo tenermi la soddisfazione di averlo ferito.
Una mano fredda mi sfiorò la spalla, facendomi tremare.
«Cos’è questo?» chiese Durza seccamente.
Lo Yawë, probabilmente stava parlando dello Yawë.
Le sue dita percorsero crudelmente le ferite ancora profonde della sera precedente, mandandomi fitte di dolore in tutto il corpo e facendomi singhiozzare.
«Parla Elfa e tutto questo finirà» mormorò lui con voce suadente.
Ne fui tentata, davvero. E nello stesso istante mi maledissi per la mia debolezza. Non l’avrei fatto, non l’avrei mai e poi mai fatto. Il mondo meritava ancora di essere salvato. Me lo aveva dimostrato il soldato che pochi minuti prima aveva messo a repentaglio la propria vita per quella di una sconosciuta. Finché persone come lui calpestavano il suolo di Alagaësia, si poteva ancora sperare in un futuro che non fosse di morte e distruzione, e per quel futuro io avrei combattuto, fino a che avessi avuto vita.
«Mai Spettro» dissi, la voce spezzata per il dolore. «Da me non saprai mai nulla».
Decretata la mia condanna, subii il prezzo che i miei ideali richiedevano.
Persi i sensi così tante volte che ne persi il conto, ma Durza mi risvegliò ogni volta con un incantesimo. La mia pelle fu dilaniata da ferri roventi, uncini, pugnali, frustate.
Urlai fino a perdere la voce.
Il dolore era così intollerabile che desiderai morire. Raggiungere il nulla, la pace, il silenzio. Fäolin.
Probabilmente passarono delle ore.
Alla fine lo Spettro mi sciolse dalle catene e mi spinse verso il centro della stanza. Le gambe mi cedettero e caddi a terra senza riuscire in alcun modo ad attutire la caduta.
Durza mi si inginocchiò accanto e mi schiaffeggiò con furia. Non ebbi nemmeno la forza di difendermi e crollai come morta tra le sue mani quando mi afferrò le spalle.
«Perché non puoi essere come una qualsiasi donna sana di mente, Elfa?» latrò lo Spettro con voce stridula e gli occhi incupiti per la frustrazione. «Diamine, non capisci che ho bisogno di quelle maledette informazioni! Cosa devo fare per farti parlare? Cosa? COSA?» Mi scosse violentemente.
Un gemito di dolore scivolò tra le mie labbra, ma quello fu l’unico suono che la mia gola arida riuscì ad emettere. Ero un grumo di carne maciullata, ero distrutta. Non avrei retto ad un solo altro istante in quella condizione, ne ero certa. Eppure lo feci. Perché le ferite che mi erano state inflitte erano troppo precise per permettermi di morire.
Mi accasciai su un fianco e vomitai bile.
Con la vista appannata, riuscii ad individuare la mano bianca di Durza che si avvicinava al mio volto, che era forse la parte più integra che era rimasta nel mio corpo, a parte un paio di lividi dovuti agli schiaffi.
Mi scostò una ciocca di capelli dagli occhi e seguì con le dita il profilo del mio viso.
Deglutii. «Cosa stai facendo?» riuscii a gracchiare.
«Sto pensando a quanto falliti siamo entrambi» rispose lentamente.
Gli diedi mentalmente ragione. Ma, mentre per il momento ero stata di un paio di passi avanti a lui, ero certa che prima o poi mi avrebbe spezzata. Avrebbe vinto.
«Dovresti uccidermi» e le mie parole parvero quasi una supplica.
Finse di non avermi sentito e mi sollevò da terra, per poi depositarmi distesa sul tavolo di pietra.
Cominciò a pronunciare incantesimi di guarigione, sfiorando con le dita le parti del mio corpo che stava lentamente, parzialmente rimettendo in sesto.
La vista mi tornò più limpida e respirare non fu più così faticoso.
Durza si puntellò con le mani sul bordo della lastra di pietra e mi fissò negli occhi. «Non perdevo la pazienza da decenni» disse.
Trovai la sua affermazione vagamente stupida, ma gli risposi: «Abbiamo appena cominciato, giusto?»
Ridacchiò sinistramente, snudando la punta dei suoi denti aguzzi. «Chi te lo fa fare, piccola Elfa? Ti stai lasciando massacrare. E per cosa? Pensi che i Varden riusciranno mai a sconfiggere il re? Non basterebbero dieci nuovi cavalieri dei draghi per contrastarlo. Ha dalla sua parte le creature più pericolose di Alagaësia, oltre che un regolare esercito imperiale. E poi lui stesso è invincibile, potrebbe spazzarvi via tutti senza troppo sforzo. Perché lo fai?»
«Se il mio popolo scendesse in battaglia non se la caverebbe tanto bene» ribattei.
«Hai detto “se”. Il tuo popolo è rintanato chissà dove da ormai un secolo. Il re non vi teme, e ne ha tutte le ragioni. Non uscirete mai allo scoperto contro di lui e se anche lo faceste.. non sarebbe sufficiente».
Chiusi gli occhi. «Non mi importa».
«Morirai se continui così».
«Non mi importa».
«Bugiarda».
«Non pretendo che un servo di Galbatorix capisca».
Rise. «Allora può darsi che con il tempo riuscirò a capire».
Riaprii gli occhi e lo guardai con sospetto, ma il mio carceriere si limitò a farmi alzare in silenzio e a ricondurmi nella mia cella.
Non ebbi il coraggio di indossare camicia e pantaloni perché nonostante mi avesse guarita dalle piaghe più gravi, molte ferite erano ancora profonde e sanguinanti.
Non riuscii a mangiare perché il mio stomaco rigettò tutto.
Non riuscii a dormire perché ero troppo agitata e stordita dal dolore.
Non riuscii a smettere di pensare alle ultime parole di Durza perché non le avevo capite.

  
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