I
giorni si susseguirono con lenta e macabra monotonia.
Persi la
concezione del tempo in maniera totale. Le tacche che avevo iniziato
ad incidere sul muro erano ormai abbandonate da un pezzo,
l’unica
mia fonte di scansione del passare delle ore era il cambio della
guardia, alla sera e verso il mezzogiorno.
La neve era giunta
anche a Gil’ead e il cortile sul quale si affacciava la mia
cella
ne era rimasto velato per una notte intera. Ma poi il marciare dei
soldati sul terreno aveva ridotto il manto candido ad un lago di
fango.
Tolta la poesia del biancore della neve, mi restarono solo
le sue conseguenze. Quindi il freddo che filtrava dalla piccola
finestrina era aumentato, anche se non ero più tanto sicura
che
fosse più caldo dentro che fuori.
Ogni istante della mia vita era
accompagnato da un eterno, totale e soverchiante senso di
terrore.
Sapevo che quando passi lenti e leggeri scendevano le
scale, il mio tormento stava per iniziare.
E quando lui si
affacciava alla porta della cella, il panico si faceva così
forte da
rischiare di sottomettermi alla sua follia.
Durza mi trascinava
con malagrazia fino alla porta nera della stanza delle torture, mi
portava dentro e mi bloccava sul tavolo.
E poi parlava. A
lungo.
Il tono carezzevole e mellifluo della sua voce era letale e
pericoloso. E di giorno in giorno sempre più pericolosamente
attraente.
«Si tratta di poche parole, piccola Elfa. Dimmi
dov’è
e finirà tutto. Non vuoi tornare a casa tua? Tra gli alberi,
i
canti, la pace? Non farai del male a nessuno, vedrai. Non
darò al re
nessuna informazione che possa nuocere ai Varden o alla tua specie,
te lo prometto. Nessuno potrà biasimarti per le tue azioni,
sei
stata brava, sei stata coraggiosa. Ma adesso arrenditi, la tua
resistenza non porterà a nulla se non a farti del male.
Aiutami e
saprò come ricompensarti».
Resistere a tutto quello era sempre
più difficile, specialmente se avevo la piena consapevolezza
che
alle maniere gentili sarebbe subito seguita la violenza.
Quando
Durza smetteva di camminare intorno a me, stanco di parole, ero
sempre totalmente fradicia di sudore gelido. La prova concreta della
mia paura. Era un sentimento che era ormai fuggito al mio controllo,
spinto fuori dagli angoli più reconditi della mia coscienza,
giorno
dopo giorno, ferita dopo ferita.
Lo Spettro si era premurato di
raggiungere con il ferro rovente e con la lama dei suoi pugnali, la
maggior quantità possibile di pelle.
E mi aveva spogliata.
Era
stata una delle esperienze più umilianti della mia vita.
Durza aveva
tirato i lacci della mia camicia nera con lentezza, guardandomi con
freddo disinteresse, come se per lui non fossi altro che un ennesimo
animale da mandare al macello.
«Spettro c-cosa..?» avevo
balbettato, spaesata dalla sua azione, e muovendo le braccia
incatenate nel vano tentativo di fermare l’opera delle sue
dita
agili.
Il mio nemico era scoppiato a ridere, una risata forte e
piena, di gola. Non pensavo che gli Spettri avessero la
capacità di
ridere in quel modo.
«Non vedo il motivo della tua vergogna»,
aveva poi detto, sollevandomi la camicia, «il tuo
è il corpo di un
guerriero, ti fa onore». Le sue dita gelide avevano percorso
l’orlo
della fascia di stoffa che mi copriva il seno. «Questa potrei
concederti di tenerla».
Avevo girato il capo di lato, con gli
occhi lucidi per l’umiliazione e la vergogna di essere
così
esposta sotto lo sguardo indagatore di un mostro.
Le mie labbra
erano spaccate per tutte le volte in cui ci avevo affondato i denti,
nel faticoso tentativo di trattenere un qualsiasi lamento, le palme
delle mie mani non erano graffiate solo perché le mie unghie
erano
troppo corte per riuscire ad affondare nella mia carne. Al termine di
ogni tortura il mio corpo tremava violentemente per la tensione dei
muscoli, che mantenevo per arginare il dolore.
Quando nella parte
superiore del mio corpo non ci fu letteralmente più spazio
per altre
ferite, i pantaloni di pelle fecero la stessa fine della camicia e
anche in quel caso Durza mostrò la decenza di lasciarmi
almeno
addosso le corte brache che portavo sotto.
A quel punto ogni
singolo pollice della mia pelle era devastato da graffi, ustioni e
ferite che avevano a malapena il tempo di smettere di sanguinare, che
già ero nuovamente nelle mani assassine di Durza, per
ricominciare
daccapo. Talvolta doveva guarirne alcune per impedirmi di morirne o
per potere procurarmele di nuovo.
Quanto tempo passava tra una
sessione di tortura e un’altra? A me non parevano altro che
pochi
minuti.
Quanto tempo passava mentre ero distesa sul tavolo di
pietra? Ore. Giorni. Settimane. Mesi. L’eternità.
Il malefico
anello di ametiste violette era ancora attaccato al mio indice con
un’ostinazione incredibile, sicuramente dovuta alla magia
dello
Spettro. Il bagliore violetto che emanava anche nella totale
oscurità
era un perenne monito. Era come avere sempre una parte di Durza con
me. E non era piacevole.
Avevo provato di tutto, compreso sbattere
la mano contro il muro, avevo cercato di farlo scivolare via con
l’acqua, avevo cercato di rompermi l’osso. Ma con
il solo
risultato di scatenare l’ilarità del mio
carceriere quando se
n’era accorto.
«Credo che cominciare a credere alle mie parole
sarebbe più.. salutare per la tua persona» aveva
detto, spostandomi
il dito rotto.
E poi me lo aveva aggiustato con un
incantesimo.
«Non lo farò una seconda volta» mi
ammonì.
Lo
odiavo.
Non avevo mai odiato nessuno così tanto quanto odiavo
lui.
Durza era spaventoso. Sembrava che la natura avesse voluto
scherzare con lui.
Non mi piacevano i suoi capelli rossi.
Non
mi piaceva il modo in cui i suoi occhi da gatto apparivano sempre
divertiti da ogni mio comportamento e pronti a cogliere ogni mia
reazione non appena me ne fossi lasciata sfuggire una.
Non mi
piaceva la smorfia divertita che avevano sempre le sue labbra crudeli
e pallide, come se farmi del male fosse qualcosa da cui trarre
divertimento.
Non mi piaceva il suo naso aquilino, che gli dava
l’aria di un rapace pronto ad attaccare.
Non mi piaceva il tono
pericolosamente gelido della sua voce.
Mi venne la tosse per il
gelo. E poi la febbre per gli sforzi a cui il mio fisico era
sottoposto.
Ogni movimento minimo scatenava dolori in ogni
terminazione delle mie membra.
E intanto i giorni passavano e le
torture continuavano..
«Dove hai mandato la pietra?»
«Come
ti chiami?»
«Dove si trovano gli elfi?»
La voce era
quella morbida e modulata di Fäolin, ma le domande erano le
stesse
che mi rivolgeva lo Spettro ogni giorno.
E dopo una lunga
insistenza Fäolin sussurrò: «Resisti.
Verrò a prenderti».
Per
poi sparire.
Mi svegliai, sudata fradicia.
Oltre la porta,
il respiro regolare e tranquillo dei quattro uomini appostati davanti
alla mia cella, parve quasi innaturale.
Mi alzai a sedere e
rabbrividii. Poi tossii. Ripetutamente. Fino a che una lancia non
batté sulla mia porta per intimarmi il silenzio.
Nonostante le
sofferenze delle torture fossero per me nuove e molto sentite, quasi
la stessa sofferenza era data dalla noia e dall’inerzia. Gli
elfi
erano famosi per la loro infinita pazienza, caratteristica che
condividevano con i draghi, ma io ero la famosa eccezione alla
regola.
Gli uomini avevano una vita molto breve e quindi
tendevano a sfruttarne al massimo ogni singolo istante, gli elfi
invece, incorruttibili nella carne, avevano a loro disposizione una
vita lunghissima e quindi non conoscevano l’affanno e
l’impazienza.
Forse io, dopo tutti quegli anni passati tra gli
uomini, mi ero lasciata condizionare dal loro modo di vivere, o forse
era semplicemente il fatto che la mia vita fosse pericolosamente in
bilico. Non sapevo per quanto lo Spettro avrebbe sopportato la mia
insistenza, ma di sicuro non per sempre. E quando si sarebbe
rassegnato mi avrebbe uccisa.
E, nonostante fosse ovvio che quello
era il mio destino, non riuscivo ad accettarlo.
Ma del resto, se
non ce l’aveva fatta Fäolin perché avrei
dovuto farcela io? Era
sempre stato così, se falliva uno, falliva
l’altro. Sempre. Da
quando ero bambina. Perché quella volta sarebbe dovuto
essere
diverso?
La mia solitudine fu interrotta da voci sommesse,
provenienti dalla ripida scaletta che portava alle prigioni. Una la
riconobbi immediatamente come quella di Durza, l’altra era
così
bassa che non riuscii nemmeno a distinguere se si trattasse di una
donna o di un uomo.
Durza congedò il suo interlocutore con
evidente irritazione: «Non ti voglio vedere mai
più girare qui
intorno, sono stato chiaro? Sparisci» ordinò
gelido.
Poco dopo i
soldati aprirono la porta della mia prigione, lasciando filtrare un
cono di luce emesso dal braciere che usavano per scaldarsi, e che mi
accecò.
Senza nemmeno intimarmi di uscire o di arrischiarsi a
mandare uno dei suoi soldati a prendermi, lo Spettro entrò,
mi
afferrò per i polsi, e mi trascinò per il
corridoio, fino alla
porta della stanza delle torture. Mantenne uno sguardo assorto,
assente e rabbioso per tutta la durata del breve tragitto. Sembrava
preoccupato.
Ma quello non gli impedì di tenermi saldamente
mentre mi divincolavo disperatamente nel vano tentativo di fuggire al
mio supplizio giornaliero.
Durza mi trascinò in un angolo della
stanza delle torture, lontano dal solito tavolo di marmo e
tirò i
lacci della mia camicia bruscamente, senza troppe
cerimonie.
Praticamente nuda sotto i suoi occhi, incassai le
spalle e feci scivolare i miei capelli lunghi fino quasi alla vita in
avanti, a coprirmi. Ero terrorizzata e dovetti fare uno sforzo immane
per non tremare.
Cosa aveva intenzione di fare?
Lo seppi quando
lo Spettro mi annodò i capelli sporchi sulla testa con un
laccio di
cuoio e mi incatenò con il viso rivolto alla parete.
Uno schiocco
sordo riempì l’aria.
Una frusta.
Chiusi gli occhi e
digrignai i denti così forte da farmi male alla mascella.
Contai
fino a cinquanta frustate, sentendo il sangue caldo che mi scorreva
sulle gambe, poi la vista mi si annebbiò, ma lo Spettro non
pareva
intenzionato a fermarsi. Non ebbe la minima pietà, pareva
semplicemente aspettare che io mi arrendessi. Cercai rifugio nelle
profondità della mia mente, ma il dolore era così
forte che mi
trascinava sempre brutalmente alla realtà.
Quella fu la prima
volta che gridai fino a sputare sangue.
Poi svenni.
Riaprii
gli occhi con la sensazione che qualcosa mi avesse strappato la carne
della schiena a morsi. E forse era veramente così. Con un
gemito, mi
tastai il dorso. Ero nella mia cella, distesa sulla pancia
sull’asse
di legno che era il mio letto. Le mie dita toccarono profonde
scanalature nella mia carne, ma mi affrettai a ritrarle
perché erano
dolorose in maniera indicibile.
Con fatica, mi alzai in piedi.
Barcollai.
Davanti a me c’erano la mia camicia e i miei
pantaloni, gettati con noncuranza a terra. Li raccolsi, rendendomi
conto di stare tremando convulsamente. C’era qualcosa che non
andava.
Mi bruciava la nuca e i miei sensi erano in massima
all’erta. I miei occhi guizzarono lungo le pareti della cella
e poi
verso la porta.
Dalla finestra dello spioncino, un grande occhio
dall’iride bianca mi scrutava nel buio.
Gridai e caddi
nuovamente a sedere sul letto, terrorizzata da quella visione
agghiacciante.
L’uomo proprietario dell’occhio non si
scompose, sempre che si trattasse di un uomo in effetti. Aguzzando le
orecchie, scoprii con orrore che non percepivo il respiro di quella
cosa, e tanto meno il battito del cuore.
Quell’occhio pareva
essere sospeso nel vuoto, avrebbe potuto essere finto se solo la
palpebra, ornata di lunghe ciglia, non si stesse abbassando a ritmo
regolare.
Cercai la mia voce, ma quello che mi uscì fu solo un
rantolo nervoso. «Chi sei?»
La situazione non si smosse, tanto
che mi rassegnai a rimanere immobile come una statua di pietra e
lasciarmi scrutare dall’occhio indagatore, che si muoveva in
tutte
le direzioni, osservandomi interamente, quasi a volersi accertare che
fossi proprio io.
I miei muscoli si tesero e rilassarono
ritmicamente, scatenando fitte di dolore lungo la schiena. Cercai
istintivamente le parole nell’antica lingua che mi avrebbero
potuta
salvare, ma il bagliore violetto al mio dito mi informò che
non ne
sarebbe valsa la pena.
Mi diedi uno schiaffo per accertarmi di
essere sveglia, ma effettivamente il dolore diffuso in tutto il corpo
era sufficiente come garanzia.
Dov’erano le guardie? Non
percepii i loro respiri. Semplicemente non c’erano, ero sola
con
quella strana apparizione. Una morsa di tensione mi strinse lo
stomaco.
L’essere al di là della porta parve riscuotersi
dopo
un lungo sonno. Sentii d’improvviso una voce sottile, quasi
sicuramente contraffatta con la magia, scivolare nell’aria.
Non
capii nulla di quello che stava dicendo ma ebbi l’improvvisa
intuizione che si trattasse di un incantesimo.
«VATTENE!»
gridai, alzandomi di scatto dalla branda, ignorando la protesta delle
ferite della mia schiena, e correndo a sbattere i pugni contro lo
spesso portone di legno e metallo.
Ma quando guardai attraverso la
finestrina quadrata che costituiva lo spioncino, non vidi nessuno.
Il
fatto mi sconvolse. Attonita, rimasi immobile, capendo che doveva per
forza essersi trattato di uno scherzo della mia mente.
Sto
diventando pazza? O era una visione provocata da qualcuno?
Scossi
la testa. La mia mente era sempre stata talmente salda che riuscire a
procurarmi visioni doveva essere escluso. Questo prima
che il
mio corpo venisse sottoposto a sforzi indicibili, però.
In quello
stato di riflessione e profonda inquietudine, non udii i veloci e
leggeri passi che si avvicinavano.
E quando un viso pallido,
labbra crudeli e occhi rossi come braci riempirono il vuoto del
corridoio fuori dallo spioncino, sussultai.
«Ho sentito la tua
voce» proferì Durza con espressione seria e
indagatrice.
Scossi
lentamente la testa. «Non io Spettro» mentii.
Con poca
convinzione, socchiuse gli occhi da gatto, gettando un rapido ma
accurato sguardo intorno a sé.
La tensione che mi soffocava
raggiunse un livello insostenibile, se anche uno Spettro mostrava
palese ansia, doveva essere successo veramente qualcosa.
A
confermare la mia teoria venne la domanda di Durza.
«Hai visto
per caso qualcuno di insolito passare di qui da ieri notte,
Elfa?»
chiese con un tono di voce così morbido che ebbi la
tentazione di
scoppiare a piangere e confessargli tutto.
Analizzai rapidamente
la faccenda dell’occhio. Non poteva essere successo
veramente,
doveva essere stato uno scherzo della mia mente stanca, e io non
volevo assolutamente dare soddisfazioni di alcun tipo
all’uomo
davanti a me.
«No» dissi. E subito mi staccai dalla finestrella
e retrocedetti nella mia cella, non riuscendo a sostenere un istante
in più gli occhi penetranti di Durza. Mi inquietavano,
sembravano
leggermi dentro, facevano sembrare vano ogni mio tentativo di
nascondergli la verità, di qualunque natura essa fosse.
La pelle
d’oca sulle braccia mi informò che non avevo
ancora indossato i
miei vestiti e che mi stavo letteralmente congelando.
«Non
disturbarti a metterla» mi fermò lo Spettro,
ancora affacciato
dallo spioncino, quando presi in mano la camicia.
«È ora di
rinnovare quei graffietti, da ieri sera sono già migliorati
parecchio» aggiunse da dietro alla porta.
Da ieri sera? «Ho
dormito un giorno intero?»
Per quello le guardie non c'erano: era
l'ora del cambio serale.
«Sei svenuta» specificò.
«Quello
delle frustate non è un dolore dal quale ci si riprende
così in
fretta. Temo che tuttavia dovrai farci l'abitudine».
Distolsi lo
sguardo, umiliata.
Lo vidi scostarsi da davanti alla porta quando
sopraggiunsero i soldati con la chiave della mia cella ed entrarono
per tirarmi fuori.
Il dolore alla schiena mi rese cosciente del
fatto che non volevo farmi torturare di nuovo, non volevo che altre
frustate si sovrapponessero a quelle. Avrebbe fatto male, un male
indicibile. E io non volevo, non ero pronta, non mi ero ancora
ripresa dal dolore della sessione precedente e nemmeno dal terrore
causato dall’occhio bianco.
Un tremito di paura mi scosse le
membra e, quando i quattro soldati si avvicinavano a me sospettosi,
le lance alla mano, capii che sarei stata disposta a tutto pur di non
subire ancora le torture di Durza.
E fu quello che mi spinse a
correre incontro alle guardie, sfilare la spada dal fodero di uno,
scivolare tra di loro e raggiungere in un attimo lo Spettro sulla
soglia.
Ebbi il tempo di registrare l’espressione sorpresa di
Durza prima che la lama si abbattesse su di lui..
..sfiorandogli
a malapena la spalla sinistra.
Lo Spettro si era spostato con una
prontezza e una velocità ammirevoli persino per un elfo e in
quel
momento mi fronteggiava con un’espressione piuttosto irata e
un
fiore di sangue che andava formandosi dove l’avevo a malapena
ferito.
Con il solito ritardo di riflessi, gli uomini mi corsero
dietro gridando. Alzai la spada, ma un colpo violento me la fece
volare via di mano.
Durza stringeva tra le mani una spada pallida,
con un sottile graffio sulla lama e mi stava letteralmente uccidendo
con gli occhi. Deglutendo, fissai la sua arma, quella che Ajihad
aveva scalfito durante il suo famoso duello con Durza, duello che il
capo dei Varden non si faceva riserve di raccontare a destra e
manca.
Del resto era forse l’unico umano in tutta la storia di
Alagaësia ad essere sopravvissuto ad un combattimento contro
uno
Spettro. Peccato che lui in quel momento fosse al sicuro nella sua
inaccessibile montagna, incurante della mia situazione, mentre io ero
in balia di un mostro alleato del re che pareva avere esaurito la sua
debole riserva di pazienza.
«Questa me la pagherai» sibilò lo
Spettro, con un tono che mi fece balzare il cuore in gola.
Mi
avvolse il braccio con le sue lunghe dita, stringendo la presa al
punto di farmi perdere la sensibilità dal gomito alla mano.
Mi
dibattei disperata, come un animale in gabbia. Non volevo tornare in
quella stanza, non volevo sentire ancora dolore. Non ne potevo
più.
E lui era troppo, terribilmente spaventoso, temevo quello che mi
sarebbe aspettato una volta varcata la soglia di quella camera
maledetta.
Mentre puntavo i piedi per fare resistenza alla forza
di Durza, non notai il giovane soldato con i capelli e gli occhi
castani, passarmi accanto e andare a posizionarsi davanti allo
Spettro, costringendolo a fermarsi.
«Cosa vuoi Rohat?» ringhiò
Durza, con un tono che prometteva guai.
Il soldato si inchinò e
poi rimase a fissarsi la punta dei piedi, pallido come un cencio.
«Mio signore non dovresti torturarla oggi» disse.
Gli uomini
dietro di me sussultarono, io sgranai gli occhi per la sorpresa e lo
Spettro emise una risatina spaventosa.
«Perché non dovrei
ragazzino? Non ti impicciare in faccende che non ti riguardano, non
ho proprio tempo da perdere con te. Togliti prima che mi venga voglia
di punirti per la tua sfacciataggine».
Rohat si dimenò,
decisamente spaventato, ma non si allontanò. Scrutandolo con
attenzione, realizzai che non doveva avere più di
diciassette-diciotto primavere e che era molto più giovane
rispetto
ai suoi compagni, tutti uomini fatti.
«V-vedi padrone le ferite
che ha sulla schiena sono gravi, se oggi gliele rifai, lei muore. E
non penso che lei deve morire no?»
Con poche parole borbottate,
Durza lo mandò a schiantarsi contro la parete.
«D’ora in poi
ti occuperai di fare la guardia nel castello» disse,
riprendendo a
strattonarmi verso la porta nera della stanza delle torture.
«Non ho
bisogno di soldati che hanno pietà dei prigionieri qui. E
sono stato
fin troppo magnanimo con te, non farmene pentire».
Prima che la
porta si richiudesse alle mie spalle, ebbi il modo di incontrare lo
sguardo atterrito del ragazzo, con le sopracciglia sollevate, quasi
mi stesse chiedendo scusa per non essere riuscito a fare di
più per
me.
Mi si inumidirono gli occhi per la commozione, era il primo e
probabilmente ultimo esempio di pietà umana che avevo
incontrato da
quando ero imprigionata a Gil’ead. Sperai con tutto il cuore
che il
suo signore non meditasse alcuna punizione nei suoi confronti per il
comportamento che aveva mostrato, non lo meritava.
L’unico che
avrebbe dovuto essere punito era l’uomo dai capelli rossi che
mi
stava incatenando con malagrazia alla parete, con gli spaventosi
occhi cremisi assottigliati per la rabbia e l’irritazione e
una
scura macchia di sangue che si espandeva sul tessuto altrimenti blu
notte della sua giubba. Almeno potevo tenermi la soddisfazione di
averlo ferito.
Una mano fredda mi sfiorò la spalla, facendomi
tremare.
«Cos’è questo?» chiese Durza
seccamente.
Lo Yawë,
probabilmente stava parlando dello Yawë.
Le sue dita percorsero
crudelmente le ferite ancora profonde della sera precedente,
mandandomi fitte di dolore in tutto il corpo e facendomi
singhiozzare.
«Parla Elfa e tutto questo finirà»
mormorò lui
con voce suadente.
Ne fui tentata, davvero. E nello stesso istante
mi maledissi per la mia debolezza. Non l’avrei fatto, non
l’avrei
mai e poi mai fatto. Il mondo meritava ancora di essere salvato. Me
lo aveva dimostrato il soldato che pochi minuti prima aveva messo a
repentaglio la propria vita per quella di una sconosciuta.
Finché
persone come lui calpestavano il suolo di Alagaësia, si poteva
ancora sperare in un futuro che non fosse di morte e distruzione, e
per quel futuro io avrei combattuto, fino a che avessi avuto
vita.
«Mai Spettro» dissi, la voce spezzata per il
dolore. «Da
me non saprai mai nulla».
Decretata la mia condanna, subii il
prezzo che i miei ideali richiedevano.
Persi i sensi così tante
volte che ne persi il conto, ma Durza mi risvegliò ogni
volta con un
incantesimo. La mia pelle fu dilaniata da ferri roventi, uncini,
pugnali, frustate.
Urlai fino a perdere la voce.
Il dolore era
così intollerabile che desiderai morire. Raggiungere il
nulla, la
pace, il silenzio. Fäolin.
Probabilmente passarono delle
ore.
Alla fine lo Spettro mi sciolse dalle catene e mi spinse
verso il centro della stanza. Le gambe mi cedettero e caddi a terra
senza riuscire in alcun modo ad attutire la caduta.
Durza mi si
inginocchiò accanto e mi schiaffeggiò con furia.
Non ebbi nemmeno
la forza di difendermi e crollai come morta tra le sue mani quando mi
afferrò le spalle.
«Perché non puoi essere come una qualsiasi
donna sana di mente, Elfa?» latrò lo Spettro con
voce stridula e
gli occhi incupiti per la frustrazione. «Diamine, non capisci
che ho
bisogno di quelle maledette informazioni! Cosa devo fare per
farti parlare? Cosa? COSA?» Mi scosse violentemente.
Un gemito di
dolore scivolò tra le mie labbra, ma quello fu
l’unico suono che
la mia gola arida riuscì ad emettere. Ero un grumo di carne
maciullata, ero distrutta. Non avrei retto ad un solo altro istante
in quella condizione, ne ero certa. Eppure lo feci. Perché
le ferite
che mi erano state inflitte erano troppo precise per permettermi di
morire.
Mi accasciai su un fianco e vomitai bile.
Con la vista
appannata, riuscii ad individuare la mano bianca di Durza che si
avvicinava al mio volto, che era forse la parte più integra
che era
rimasta nel mio corpo, a parte un paio di lividi dovuti agli
schiaffi.
Mi scostò una ciocca di capelli dagli occhi e
seguì
con le dita il profilo del mio viso.
Deglutii. «Cosa stai
facendo?» riuscii a gracchiare.
«Sto pensando a quanto falliti
siamo entrambi» rispose lentamente.
Gli diedi mentalmente
ragione. Ma, mentre per il momento ero stata di un paio di passi
avanti a lui, ero certa che prima o poi mi avrebbe spezzata. Avrebbe
vinto.
«Dovresti uccidermi» e le mie parole parvero quasi
una
supplica.
Finse di non avermi sentito e mi sollevò da terra, per
poi depositarmi distesa sul tavolo di pietra.
Cominciò a
pronunciare incantesimi di guarigione, sfiorando con le dita le parti
del mio corpo che stava lentamente, parzialmente rimettendo in
sesto.
La vista mi tornò più limpida e respirare non fu
più
così faticoso.
Durza si puntellò con le mani sul bordo della
lastra di pietra e mi fissò negli occhi. «Non
perdevo la pazienza
da decenni» disse.
Trovai la sua affermazione vagamente stupida,
ma gli risposi: «Abbiamo appena cominciato, giusto?»
Ridacchiò
sinistramente, snudando la punta dei suoi denti aguzzi. «Chi
te lo
fa fare, piccola Elfa? Ti stai lasciando massacrare. E per cosa?
Pensi che i Varden riusciranno mai a sconfiggere il re? Non
basterebbero dieci nuovi cavalieri dei draghi per contrastarlo. Ha
dalla sua parte le creature più pericolose di
Alagaësia, oltre che
un regolare esercito imperiale. E poi lui stesso è
invincibile,
potrebbe spazzarvi via tutti senza troppo sforzo. Perché lo
fai?»
«Se il mio popolo scendesse in battaglia non se la
caverebbe tanto bene» ribattei.
«Hai detto “se”. Il tuo
popolo è rintanato chissà dove da ormai un
secolo. Il re non vi
teme, e ne ha tutte le ragioni. Non uscirete mai allo scoperto contro
di lui e se anche lo faceste.. non sarebbe sufficiente».
Chiusi
gli occhi. «Non mi importa».
«Morirai se continui così».
«Non
mi importa».
«Bugiarda».
«Non pretendo che un servo di
Galbatorix capisca».
Rise. «Allora può darsi che con il tempo
riuscirò a capire».
Riaprii gli occhi e lo guardai con sospetto,
ma il mio carceriere si limitò a farmi alzare in silenzio e
a
ricondurmi nella mia cella.
Non ebbi il coraggio di indossare
camicia e pantaloni perché nonostante mi avesse guarita
dalle piaghe
più gravi, molte ferite erano ancora profonde e sanguinanti.
Non
riuscii a mangiare perché il mio stomaco rigettò
tutto.
Non
riuscii a dormire perché ero troppo agitata e stordita dal
dolore.
Non riuscii a smettere di pensare alle ultime parole di
Durza perché non le avevo capite.