Capitolo undicesimo
Da padre Miguel Barrantes, dell’ Ordine
di Santo Domingo de Guzman al Fraterno Amico Don Gregorio De Almeida, Baron De
Almerida y Caballero de l’Orden de la Cruz
Santander,Venti di Maggio dell’Anno di Grazia
Milleottocento.
Ho
ricevuto, mio ottimo Amico,la vostra missiva e, invocando su di Voi e su chi vi
è caro la Divina Benedizione,mi appresto a rispondere alle Vostre richieste.
Conosco una giovane che indubbiamente possiede i requisiti da Voi richiesti.
Ella proviene da ottima ed onorata famiglia; è fanciulla di belli e costumati
modi, devota e caritatevole, ed ha ricevuto un’educazione convenevole al suo
rango. Iddio le ha donato buona salute ed una figura graziosa e avvenente.
Compirà diciannove anni il prossimo mese. Da me interpellati con la prudenza e
la delicatezza che si conviene al caso, i suoi genitori si sono detti favorevoli alle nozze con il Vostro
figliolo. Il consenso della fanciulla è stato immediato ed entusiasta. A Dio
piacendo, le nozze verranno celebrate quanto prima per procura, dopodiché doña
Flor Ochoa, questo è il nome della Vostra futura nuora, potrà imbarcarsi alla
volta di Cuba e raggiungere quella che diventerà la sua nuova casa.
Gesù, la
Vergine Santissima e Santo Domingo De Guzman veglino su di Voi e su chi vi è
caro.
Padre Miguel.
Non è
opportuno che un uomo di Dio ricorra alle
minacce, o peggio alle bugie, neppure a fin di bene, perché questo non
può sortire dal male, per nessuna ragione. E Cristo stesso aveva disprezzato
ipocriti e bugiardi. Ma se, tra quelle che stava per dire, ci fossero state
delle mezze verità, piuttosto che delle mezze o delle intere bugie, non avrebbe
provato rimorso. Borbottando tra i denti un Atto di Contrizione, si accinse ad
incontrare doña Sofia Ochoa e a dirle tutto quello che doveva.
La
conosceva da anni, in pratica dacché nella testa di don Fabian era balenata la
poco felice idea di sposarsela. E Flor la conosceva anche da prima, in pratica
da sempre. Gli faceva pena, come qualsiasi orfanella in età tenerissima a chi
non abbia una pietra al posto del cuore: la ricordava a due anni neanche fatti,
tutta vestita di nero, dopo la disgrazia. Era una bella bambina, bionda e
paffuta come certe bambole di porcellana, e aveva gli occhi tristi di chi non è
amato abbastanza. A diciannove anni, era cambiata, s’era fatta un gran bella
ragazza, ammesso che ad un uomo di Dio
fosse concesso di notare certe cose. Ma il suo sguardo era lo stesso di allora:
triste, lontano. Doveva salvarla, strapparla ai disegni della sua matrigna,
prima che fosse troppo tardi. Costasse quel che costasse.
-Certo, la via principale per giungere alla
santificazione è quella della totale dedizione a Dio, ma non siamo tutti
uguali. La Chiamata è un privilegio per pochi, il Mondo il destino dei più, ma
ciò non significa peccato, men che meno, poi, dannazione: anche i sacrifici, le
lacrime, le preghiere e le sofferenze di chi è sposa e madre sono doni che il
Signore gradisce. Inoltre non credo sia il caso di ricordare a una suddita
devota di Santa Madre Chiesa quale voi siete che il Matrimonio tra due sposi
cristiani è un Sacramento.
-Flor è
vanitosa, Padre. Del resto, che cosa ci si potrebbe aspettare dalla figlia di
una francese? Solo la preghiera e la penitenza possono correggere queste sue
perverse inclinazioni e portare a salvamento la sua povera anima pericolante.
Solo le regole severe e la dura disciplina del chiostro potrebbero...
Doña
Sofia era solita attaccare i suoi avversari a testa bassa, come un toro
navarreno e il buon padre Miguel, il confessore di Flor, non era un avversario
da prendere sottogamba. I piani che tanto sagacemente aveva elaborato, non
potevano andare per aria a causa di un frate troppo sentimentale e cocciuto
quanto lei.
-Sono il
confessore della ragazza dall’epoca della sua Prima Comunione e la conosco
bene, credetemi: posso assicurarvi che non sente né manifesta alcuna
inclinazione per la vita monastica. Ciò naturalmente non significa che sia una
figlia del demonio: è una fanciulla
buona, pia e caritatevole, sarà, ne sono sicuro, un’ ottima moglie e
un’ottima madre.
-Chi
preferisce uno sposo terreno allo Sposo Celeste non è una figlia del demonio,
padre: è il demonio in persona.
-Le
figliole nate dal vostro grembo lo sono, forse? Teresita è sposata da poco,
Conception sta per farlo. Il vostro comportamento, che Dio mi perdoni, mi
induce a sospetti temerari. Mi auguro che di semplici sospetti si tratti e non
di certezze, perché diversamente ne andrebbe di mezzo la felicità di un essere
umano cristiano e battezzato, forse addirittura il destino della sua anima
immortale.
Sospetti
temerari? Macché, le sue erano certezze supportate da prove concrete, si diceva
padre Miguel da sé solo, specchiandosi negli occhietti impenetrabili della sua
interlocutrice. La famiglia Ochoa, a Santander lo sapevano tutti quanti, era
nobile ma mezza rovinata e se una figlia doveva essere sacrificata perché non
era possibile farle una dote decente, meglio Flor, nata dal matrimonio di don Fabian con quella francese
finita sotto le ruote di una carrozza quando la bambina non aveva ancora due
anni, che non Teresita, figlia di primo letto di Doña Sofia, o Conception,
figlia di entrambi.
-Quali
sarebbero questi...sospetti, padre?
Sono una
buona cristiana, doveva aver pensato la donna, mentre gli occhi acquosi di
padre Miguel cercavano di scrutare
aldilà della sua faccia impassibile, per riuscire a leggerle dentro. Che male
c’è, se indirizzo la figlia di mio marito sulla strada più sicura per la
santità? Dovrebbe elogiarmi, invece non mi risparmia i suoi sarcasmi.
-Vi
ricordo che, se è colpa grave ostacolare una vocazione religiosa, altrettanto
grave è imporla forzatamente. Vi conosco come buona cristiana: il solo pensiero
di commettere deliberatamente un peccato mortale, che Santa Madre Chiesa
oltretutto punisce con la scomunica, dovrebbe farvi orrore.
Aveva ingoiato un rospo molto indigesto, Doña Sofia. Sua sola consolazione, chi aveva chiesto per il proprio rampollo la mano di quella stupida, era disposto a prendersela pure senza dote. Inoltre, essendo un coloniale, un cubano, probabilmente gliel’avrebbe tolta da torno per sempre. Una soluzione semplice e pulita. E senza il rischio di commettere peccati mortali.
Capitolo
dodicesimo
Poco
tempo ancora e avrebbe lasciato quella casa. E quella città. E quei ricordi.
Avrebbe provato ansia, forse la paura del futuro, ma di certo non dolore. La
sua vita sarebbe cambiata in meglio, lontano da Santander, dal convento e da
doña Sofia.
Suo padre. Lo rivide con gli occhi della mente, i
capelli completamente bianchi a cinquant’anni neanche fatti, gli occhi, chiari
come i suoi, segnati da pesanti borse viola , come quelli di un vecchio. Non
aveva mai osato imporsi per difenderla, per impedire che doña Sofia pretendesse
d’impadronirsi della sua vita per farne ciò che voleva lei: don Fabian era un
debole, questo l’aveva sempre saputo. E non gliel’aveva mai perdonato.
E’
peccato. Peccato mortale. Dio, abbi pietà di me. Non è facile, la vita di un
giovane vedovo con una bambina che ha appena imparato a camminare da tirar su,
questo Flor lo sapeva. Ma doña Sofia da chiamare mamma, doña Sofia che aveva
pianificato il futuro di una bambina di nemmeno due anni, doña Sofia dalla
testa di civetta e dagli occhi di serpente non poteva perdonargliela, e nemmeno
giustificarla con la scusa della disperazione. “Una monaca che preghi per le
anime dei suoi parenti dovrebbe esserci
in ogni casata che si rispetti.” E la monaca sarebbe stata lei. Nel nome
della tradizione, della devozione, della rispettabilità. E del denaro. In casa
ce n’era poco, e, con due ragazze da sposare e un giovanotto da mandare
all’università, non lo si poteva sperperare per far la dote alla” figlia della
francese”. Lei li odiava, i francesi, diavoli senza Dio e senza morale, che erano stati capaci di tagliare
la testa al loro re e di mettere il mondo a soqquadro.
“Sarai la
sposa di Gesù”. Era abituata a farsi ubbidire senza ascoltare discussioni, doña
Sofia. “Sarai la sposa di Gesù, perché così ho deciso, Flor (che razza di nome
frivolo ti ha messo, quella donnaccia di tua madre, Dio abbia misericordia
della sua anima peccatrice)”.
Pronuncerai i voti. Le porte del convento si chiuderanno in faccia al
mondo e tu, che hai sempre sognato l’amore senza nemmeno sapere cosa fosse, tu
che hai sempre sognato una nidiata di bambini, tu che invidiavi le compagne più
grandi quando, sposate, tornavano al convento per far conoscere alle Madri le
loro creature, sarai prigioniera per sempre. Ti infagotteranno dentro un saio,
ti raseranno a zero i capelli. Vivrai pentendoti dei peccati che non hai
commesso e rimpiangendo i sogni che non hai realizzato. E’ certo che soffrirai,
perché quello che poteva essere non è stato. La vita è spesso cattiva, e gli
uomini lo sono ancora di più. Gli uomini, e le donne invidiose come doña Sofia
e le sue brutte figliole, due creature dal colorito anemico, dal personale
allampanato e dalle gambe pelose.
“Nel
quinto Mistero Glorioso, si contempla Maria, Regina del Cielo e della Terra,
nella Gloria degli Angeli e dei Santi...Pater noster qui es in Coelis...”
Le
ginocchia le facevano male, piegate quasi da un’ora sul legno duro del banco.
Ma la Madre Santa aveva ascoltato le sue disperate preghiere, aveva esaudito i
suoi desideri e andava ringraziata. Tre giorni ancora, le aveva detto Padre
Miguel, e si sarebbe sposata. Tutte le ragazze sognano un lungo velo bianco e
una cerimonia solenne: lei avrebbe avuto un matrimonio per procura con uno
sconosciuto, quindi sarebbe partita. Ma che avrebbe potuto pretendere di più?
“Sei nelle mani di Dio”, le aveva detto Padre Miguel. Al sicuro dalla tua
matrigna, al sicuro da un destino che gli altri pretendevano di cucirti addosso
anche senza il tuo consenso. Andrai lontano, in un Paese dove l’aria che si
respira ha la consistenza appiccicosa della melassa di canna, dove non ci sono
inverni, e sarai l’artefice del tuo futuro. Bacerai tuo padre, prima di
lasciarlo per sempre, e lo perdonerai.
Doña
Sofia non l’avrebbe perdonata, nemmeno quando l’inverno si fosse fatto estate
per sempre. Ma forse l’avrebbe dimenticata. Il suo futuro marito aveva
venticinque anni, le aveva detto Padre Miguel. Si chiamava Javier, ed era molto
ricco: le aveva detto solo quello.
“Bando a
certi pensieri, sei nella Casa di Dio.” Ma è difficile riuscire a contenere la
propria felicità: era quasi estate, il sole splendeva e il cielo era sereno.
Fuori dalla chiesa, Flor si tolse la mantiglia e i lunghi capelli biondi, lisci
e morbidi come seta, le inondarono la schiena. Non glieli avrebbero più
tagliati, e a Javier sarebbe piaciuto accarezzarli.
All’angolo del portale secondario, una vecchia tendeva la mano chiedendo
l’elemosina ai passanti. Nonostante il sagrato fosse spesso occupato dai
mendicanti e Flor li conoscesse quasi tutti, quella non l’aveva mai vista. Era
coperta di stracci sudici che puzzavano
da lontano di urina, sudore stantio e pesce secco e un fazzoletto calcato fin
quasi agli occhi le nascondeva la testa. Aveva i lineamenti aguzzi e la pelle
scura e grinzosa delle vecchie zingare.
Flor
cavò dalla borsa una moneta d’argento, lasciandogliela cadere sul palmo e
l’occhio buono della zingara s’illuminò, avido, alla vista di quel tesoro.
-Dio ti
benedica e la fortuna non ti manchi mai, ragazza.
Non
avrebbe voluto che la toccasse, sudicia e puzzolente com’era, ma quando la
vecchia le afferrò la mano e iniziò a scrutarle il palmo con un’attenzione degna
della miglior causa, Flor non si oppose.
-Stai per sposarti. Il destino ti porterà
lontano. Conoscerai...Conoscerai una grande passione...
Lo sguardo
di quell’unico occhio bruciava come il sole alto nel cielo. La vecchia aveva
letto la verità, sul palmo della sua mano: la sola che Flor volesse conoscere, in quel momento. Se
avesse continuato, forse le avrebbe detto di dolore e di morte e lei preferì
sgattaiolare via.
Capitolo tredicesimo
Il
viaggio era andato come aveva previsto. Lungo, tedioso, spesso disagevole. Il mal di mare l’aveva tormentata,
costringendola a rinchiudersi nell’angusta cuccetta condivisa per quasi
cinquanta giorni con due anziane religiose che i tormenti del viaggio li avevano
patiti ancor più di quanto non li avesse patiti lei. Specialmente suor Brigida.
Al momento dello sbarco, la povera donna aveva la faccia più verde delle palme
che, a ciuffi, spuntavano un po’ dappertutto, ma la terra sotto i piedi e
l’aria balsamica che soffiava dal mare, magari un buon pranzo a base di pane
fresco e pesce arrostito, l’avrebbero rimessa a posto in un batter d’occhio.
Faceva
parecchio caldo, notò Flor appena sbarcata; ma non era una sensazione
spiacevole e non avrebbe durato troppa fatica ad abituarcisi, specialmente dopo
aver potuto rinnovare il suo sfornito
guardaroba, sostituendolo con qualcosa di più adatto a quel clima. Non avrebbe
avuto problemi, aveva sposato un uomo ricco. Un uomo che l’avrebbe accontentata
in tutto. E che l’avrebbe resa felice, a sentire le due parole che Padre Miguel
aveva speso per lei nel corso della
squallida cerimonia, con la chiesa
vuota, il fratellastro Luis dall’aria annoiata a sostituirsi al promesso
sposo e il vestito di tutti i giorni indosso. Aveva sognato qualcosa di
diverso, per il momento più bello della sua vita, pensava. Ma non si può avere
tutto.
L’Avana
era una piccola città fatta di case bianche, strade strette, cumuli di
immondizie e odore misto di putrefazione, frutta troppo matura, sudore stantio
e petali di fiori. La gente aveva pelle scura e vestiti leggeri ed era come se
l’aria fosse impregnata della consistenza greve e appiccicaticcia dello
zucchero: erano sensazioni strane, ma si sarebbe abituata, come al sole che le
accaldava le guance e che, a lungo andare, avrebbe finito col cuocerle la
pelle. In fondo, che m’importa? Pensava. Un colorito sano era molto meglio del
pallore anemico ostentato dalle gentildonne e non c’era niente di più grazioso
delle belle gitane dalla pelle dorata. Lui avrebbe trovato attraenti il suo viso dalla bocca troppo larga, gli
occhi troppo grandi, gli zigomi troppo alti e marcati? Il seno, splendido a
detta delle sue compagne, troppo grosso a parer suo, e da occultare come
qualcosa di vergognoso sotto camicioni lunghi e informi a sentire doña Sofia?
Agli uomini piace guardare il seno delle donne, accarezzarlo...Anche baciarlo.
Il cuore le salì in gola, un lungo brivido le passò sotto la pelle. Cose
sporche, peccati infami, indegni di una donna timorata e benpensante, avrebbe
tagliato corto doña Sofia. Mi avessi dato retta e ti fossi fatta
monaca...Invece era lì, miglia e miglia lontana dalla terra dov’era nata, a
fantasticare su quello che l’aspettava. Come sarà, l’uomo che ho sposato senza
conoscerlo? Biondo? Bruno? Sarà alto o...Lei era molto alta. Più di quanto non
lo fossero parecchi uomini. Una pertica come te non troverà mai marito, le
ripeteva spesso, gentile come al solito, doña Sofia, maledetto serpente.
-Benvenuta a Cuba, Señora.
L’uomo,
smontato da cavallo, si era tolto rispettosamente il cappello a larghe tese e
inchinato con grazia al suo cospetto. Aveva una bella testa, coperta da una
capigliatura corta e ricciuta come la lana di un agnello e più nera
dell’inchiostro. Era scuro perfino per un cubano, scuro quanto una tazza di
cioccolato, e bello da togliere il respiro: indossava un’impeccabile camicia di
batista bianca, calzoni lunghi di cotone pesante infilati dentro stivali alti
di cuoio greggio e un giacchino corto bordato di spighetta. Un abbigliamento
semplice ma di buona qualità e di buon taglio, che valorizzava al meglio la
prestanza della sua stupenda figura. Gli occhi sarebbero stati dello stesso
nero intenso dei capelli, se la luce del sole non li avesse riempiti di
pagliuzze dorate. Erano grandi, tirati all’ insù, e frangiati da ciglia lunghe
come quelle di una donna. Il naso era appena un po’ schiacciato sulla punta ma
dritto e regolare e la bocca grande, larga, dalle labbra piene e morbide si
apriva su una doppia chiostra di magnifici denti.
-Al
vostro servizio adesso e per sempre,Señora: il mio nome è Javier Almeida.
Le aveva
sorriso, pronunciando quelle parole, mentre le apriva la portiera di una
carrozza dall’aria vecchia, austera e scomoda. E a Flor il cuore era salito su
su fino alla gola, quando quegli occhi neri e dorati avevano catturato i suoi.
Doveva essere quello, l’amore. Lui avrebbe cavalcato a fianco della carrozza
fino alla proprietà, chissà quanto era distante, e poi... Ripensò a doña Sofia,
alle sue parole acide e risentite. “ Non hai voluto ascoltarmi, e io cercavo
solo il tuo bene. Se lui è un gentiluomo, cosa di cui dubito perché un vero
gentiluomo non avrebbe preso in moglie una perfetta sconosciuta per giunta
senza la dote, si limiterà a farti ciò che è necessario fare per generare figli:
qualcosa di talmente osceno e ripugnante, oltre che doloroso, da farti
rimpiangere per la vita quello che hai osato rifiutare. Se poi un gentiluomo
non è, pretenderà di vederti nuda, vorrà toccarti, ti tratterà peggio di una
sgualdrina. Potrebbe anche piacerti…E
in quel caso tremerei per il destino della tua anima immortale. Tuo marito
vorrà da te dei figli, e ti accorgerai presto di cosa significhi star male per
nove mesi, poi partorire urlando di dolore e rischiando di morire ogni volta.
E, se non sarai in grado di dargli dei figli, lui potrebbe sentirsi in diritto
di abbandonarti, anche se l’uomo non può sciogliere ciò che Dio ha unito in
Cielo. Beh, adesso che fai, piangi? Ormai te lo sei sposato, il tuo cubano, e
non è più possibile tornare indietro. Per quel che mi riguarda, il mio dovere
l’ho fatto e la mia coscienza è leggera. In quanto a te, hai rifiutato le
profferte dello Sposo Celeste per nozze terrene e più che arrangiati non posso
dirti. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.”
A Teresita,
alla sua Teresita verde come un cespo di cavolo e dalle labbra ombreggiate di
peluria scura, non doveva aver parlato così, la vigilia delle sue nozze. Ma
lei, Flor, non era sua figlia. E questo faceva la differenza per quella strega
meschina e invidiosa.
Il tuo
passato è alle spalle, sono brutti ricordi che dimenticherai, si diceva da sé
sola, dentro la carrozza che la conduceva alla felicità. Quale felicità? La
tenerezza, l’affetto, la comunanza di
vita e d’ideali ? O i gemiti e i sospiri che, quando non era ancora
uscita dall’infanzia, le era capitato di cogliere spiando, non vista, la
sguattera e il giardiniere che facevano all’amore? Javier l’avrebbe spogliata,
guardata, accarezzata e baciata dappertutto. Avrebbe sentito parecchio male,
quando le fosse entrato dentro, ma le sue carezze avrebbero lenito il dolore
della prima volta, e lei le avrebbe ricambiate, senza soggezione e senza
vergogna: perché il destino le aveva riservato una lunga felicità accanto a un
uomo meraviglioso, ne era certa.
-Ecco,
siamo entrati nella proprietà di don Gregorio. Tra poco sarete a casa vostra.
Aveva una
voce morbida che andava giù come una cucchiaiata di miele scuro, modi cortesi e
formali. Modi spagnoli. Un francese avrebbe detto “mio padre”, non “don Gregorio”.
Chissà se era bianco, si ritrovò a pensare, o nero anche lui come suo figlio.
Niente di strano che fosse bello come Javier
e altrettanto distante. Flor, cresciuta in convento e poco edotta circa le cose del mondo, sapeva tuttavia
che gli spagnoli, peninsulari o creoli che essi fossero, non avevano i modi
disinvoltamente eleganti dei francesi, o quelli rudi e spicci degli uomini del
Nord. Erano sempre così ampollosi e formali perfino nella comune conversazione
familiare e neppure suo marito costituiva un’ eccezione.
-E’ molto
grande, la proprietà?
-La più
grande di Cuba. Per percorrerla tutta, bisognerebbe trascorrere un giorno e una
notte a cavallo. Sapete cavalcare?
-I miei
familiari non hanno ritenuto opportuno curare questo aspetto della mia
educazione, men che meno le suore che si sono occupate di me fino a pochi mesi
fa. Ma desidererei imparare.
-Provvederemo. E... Avete altri desideri da esprimere?
Il tono
della sua voce aveva perso buona parte della sua freddezza e gli occhi la
scrutavano, acuti e dolci. Erano bellissimi, neri e dorati come quelli degli
zingari. Occhi capaci di rubarti l’anima.
-Per
adesso, mi accontenterò di riposarmi del viaggio. Sono molto stanca. In
seguito, beh...Mi piace dipingere e suonare il pianoforte: non sono un granché
né con i pennelli né con la musica, ma traggo gioia da queste cose. Non ho
grandi pretese, non amo la mondanità e ho a cuore la salvezza della mia anima.
Sarò...Sarò la migliore delle mogli.
Le
sorrise, facendo lampeggiare i denti bianchi tra le labbra livide. Era un
bellissimo uomo, aldilà del fatto che fosse scuro, pensava Flor, ma nel suo
sorriso c’era qualcosa che la inquietava. Forse erano i suoi grandi canini
appuntiti come quelli di un animale feroce. Forse semplicemente il fatto che
Flor non avesse mai visto un negro e
ignorasse che tutti quanti i negri hanno grossi denti bianchi e
appuntiti.
-Non
avrete difficoltà a ottenere quello che vi occorre o che desiderate, Señora. In
quanto ai bisogni dell’anima... La domenica e le feste comandate c’è un frate
che viene a dir messa nella cappella della Casa Grande e che amministra i
Sacramenti. La città non è molto lontana e potrete recarvici ogni volta che lo
riterrete opportuno. Comunque, contate su di me per qualsiasi vostra esigenza:
sarò per la vita il più fedele e devoto dei vostri servitori...Flor.
Aveva
abbassato quelle sue incredibili ciglia di seta sopra gli occhi neri e dorati
da zingaro, cupi e impenetrabili come la notte, come il fondo di un pozzo,
mentre pronunciava il suo nome con un soffio di voce. Forse era solo timidezza,
la sua, anche se, bello, alto, muscoloso e risoluto com’era, tutto sembrava
fuorchè un uomo timido: ma spesso le apparenze ingannano.
-Siamo
arrivati, Señora.
Capitolo
quattordicesimo
La sposa
che, alla Casa Grande, don Javier e don Gregorio stavano attendendo con
impazienza, era bella, con un corpo da statua e occhi azzurri come il cielo
appena lavato dal temporale. Bella, innocente e fiduciosa come un cucciolo in
attesa delle carezze, curiosa di tutto quanto, come un bambino di fronte a
novità mai viste. All’ingresso del viale, gli aveva domandato come si
chiamassero quegli stupendi alberi carichi di fiori violetti. Jacaranda, le
aveva detto lui. Poco ancora, e gli avrebbe domandato chi fossero i due uomini
che, sul fondo del viale, sembrava aspettassero proprio lei. Uno era anziano,
corpulento, la testa canuta. L’altro molto più giovane, magro, curvo di spalle.
La carrozza si avvicinava, e Flor doveva aver notato l’eleganza ricercata e un
po’ fuori moda del loro abbigliamento, forse anche la guancia gonfia di don
Javier. Erano tre o quattro giorni che quell’ascesso lo torturava, rovinandogli
il sonno e l’appetito; per causa di quell’inopportuno malanno, non si era potuto
neppure recare di persona all’Avana per accogliere degnamente la sua giovane
sposa che arrivava da tanto lontano.
Javier
smontò da cavallo, aprì la portiera della carrozza e aiutò Flor a scendere. Era
bella, maledetto fosse il destino. Alta, con le spalle larghe e il petto
florido. Rassomigliava alla statua della Madonna nella cappella della Casa
Grande: stessi occhi azzurri, stessi capelli biondi e lisci che le ricadevano
lungo la schiena come un manto, stessa espressione serena e fiduciosa dipinta sul
viso. E quello sguardo adorante... Si può anche morire, per una donna come
questa, pensava Javier, per un suo sguardo, un suo sorriso, una sua carezza.
Doveva essere innocente come una bambina, se non aveva capito che non era lui,
l’uomo che le era stato destinato. Uno stupido caso di omonimia aveva
ingenerato tutto quanto l’equivoco, ma era possibile che quella ragazza dagli
zigomi alti e dalla splendida pelle dorata fosse così ingenua da credere che, a
Cuba come da qualsiasi altra parte, qualcuno potesse anche solo pensare di dare
in moglie una gentildonna bianca a uno schiavo di colore?
-Vostro
suocero, don Gregorio De Almeida, Baron de Almerida y Caballero de l’Orden de
la Cruz. E... Vostro marito, don Francisco Javier De Almeida.
Javier
non osò voltarsi verso Flor per cercare di leggerle i sentimenti dentro lo
sguardo. Don Gregorio appariva soddisfatto, per quel poco che il grasso e le
palpebre cascanti lasciavano intravedere dei suoi occhi. Padre Miguel Barrantes
non gli aveva indorato la pillola, la ragazza era un’autentica bellezza e, quel
che più contava, non aveva quell’aria fragile, delicata e malaticcia che per il
solito le nobildonne si portano appresso, retaggio di una stirpe corrotta da
troppe unioni tra cugini: l’ideale, per rinvigorire il sangue annacquato dei De
Almeida. E Don Javier? Il solito di sempre, abulico e indifferente come se
tutta quanta la questione riguardasse un altro e non lui. Su invito e
occhiataccia di Don Gregorio, a quella creatura stupenda piovutagli dal cielo
si era limitato ad elargire un bacio che sembrava una beccata, dopodiché aveva
nuovamente abbassato gli occhi a terra per tornare a crogiolarsi con comodo nel
suo mal di denti. La povera Flor, che eroicamente cercava di mascherare la sua
delusione, doveva aver faticato anche a reprimere il disgusto provocato
dall’odore non proprio fresco emanato dal suo alito. E, in quel momento, i suoi
occhi di smalto avevano cercato quelli di Javier. Aiuto. A me lo chiedi,
piccola mia? A uno schiavo? Sognare è stato bello, anche per me. Sognare di
stringerti, di baciarti, di accarezzare i tuoi capelli, di cullarti fino a
farti addormentare e sognare sogni che non fanno male. Ma i sogni non sono la
realtà e, al risveglio, il disinganno è quasi sempre crudele. Tu sei una gentildonna,
io sono soltanto l’amministratore della proprietà. Inoltre non sono un uomo
libero: mia madre è una schiava ed io sono soltanto un negro, Flor, questo lo
vedi.
Già, lo vedeva eccome, quello. Come vedeva le sue guance magre attraversate dalle basette a punta, i suoi zigomi alti, le sue labbra invitanti, i suoi bellissimi occhi. Come vedeva le sue gambe lunghe, le sue spalle forti, la sua pelle perfetta, aldilà del colore sbagliato. Javier era consapevole del suo fascino, già da giovanissimo aveva imparato a leggere il desiderio in fondo agli occhi delle donne che lo guardavano, nere e anche bianche. Come Flor. Doveva aver sperato che il destino le riservasse la felicità, accanto a lui, ma così non era stato. Era a don Javier, che l’avevano legata. A un mezzo deficiente con lo sguardo vacuo, la testa tignosa e i denti cariati. Ma bianco. Forse l’avrebbe lasciata in pace, per qualche notte ancora. Ma il mal di denti gli sarebbe passato, e presto. Javier strinse forte i pugni, finché vide le nocche scure farsi pallide.
Capitolo
quindicesimo
Finito il
taglio della canna, l’ascesso nella bocca di don Javier non era ancora guarito
e la sua bella sposa era vergine come
quando era uscita fuori dal convento. Terminato il grosso dei lavori nei campi
e allo zuccherificio, a tutti quanti restava parecchio tempo da ammazzare. Come
lo ammazzasse suo figlio, don Gregorio
non riusciva neppure ad immaginarselo. Con quell’angelo nel letto, lui si
girava dall’altra parte e cercava di
dormire, o si struggeva pensando a quel suo dannato mal di denti. A venticinque
anni, don Francisco Javier De Almeida, erede della casata, dei beni e del
titolo, aveva più denti marci in bocca lui che un vecchio cane e di farseli
cavare sembrava non avesse la benché minima intenzione. “Nei suoi panni, io...”
Ma è sbagliato credere di potersi infilare nei panni di un altro, e questo don
Gregorio lo sapeva bene. Era stato un idiota, questo sì: e ammetterlo non gli
costava più di tanto. Sono stato un idiota, continuava a ripetersi da sé solo,
perché non avrei dovuto permettere che una donna come Flor sposasse quel
ritardato di mio figlio. Avrei dovuto sposarmela io. A sessantacinque anni, un
uomo è ancora perfettamente in grado di procreare e una donna come lei avrebbe
potuto darmi degli eredi decenti, per il titolo e per la casata, migliori di
quell’idiota capace solo di pensare al suo dannato mal di denti e che, a un
mese dal suo arrivo qui, ancora non l’ha neppure toccata.
Flor aveva espresso il desiderio d’imparare a cavalcare ed era stata accontentata: il suo non era un semplice capriccio ma andava inteso quasi una necessità, considerata l’estensione della Finca Dorada. Tutte le amas* dell’hacienda, compresa la grassa e goffa Doña Isabel sapevano montare a cavallo. Peccato che a occuparsene non fosse, com’era suo preciso dovere, quell’imbecille di don Javier, al quale i cavalli continuavano a trasmettere sensazioni tutt’altro che rassicuranti, e che avesse delegato all’incombenza quel negro. Se potesse, pensava don Gregorio ridendo verde, mio figlio se la fotterebbe col cazzo del suo schiavo, la bella sposina. Non fosse stato per quelle maledette varici che ormai lo tormentavano già da qualche anno, sarebbe stato ben felice d’insegnare lui stesso a sua nuora come si sta in sella. Bel bocconcino. Non gli sarebbe dispiaciuto, restare solo con lei, cercare una scusa per stringerle la mano, magari per baciarla e arrivare a farle capire quale differenza vi fosse, aldilà degli anni e degli acciacchi, tra un uomo vero e uno spaventapasseri imbottito di segatura. La rivide con gli occhi della mente, bionda alta e bella, galoppare fianco a fianco con Javier il mulatto. Superbamente bello anche lui, un dio scolpito nel bronzo. E uomo, mille volte uomo. Non si fosse fidato della sua rettitudine e dell’ingenuità di Flor, forse non avrebbe dormito i sonni tranquilli che la stupidità conciliava all’erede del nome, dei beni e della casata. Ma a Cuba nemmeno la più depravata delle puttane si sarebbe mai abbassata con un negro. E lui, sapendo quel che rischiava, avrebbe evitato come la peste d’impegolarsi in qualche pasticcio con la padrona. Javier. Il figlio sbagliato, nato dalla madre sbagliata. Non l’aveva più toccata, Eclipse, dalla morte di Isabel, e lei da diversi anni si era accasata con uno schiavo grande e grosso, un ashanti di nome Kwame, che doveva essere sterile, visto che non le aveva fatto fare altri figli. A quarant’anni passati, era ancora una gran bella donna, con appena qualche ruga agli angoli degli occhi e una ciocca sottile di capelli bianchi proprio in mezzo alla testa. Javier le rassomigliava tale e quale, era bello come sua madre, da lui non aveva preso niente. O aveva lasciato il peggio al suo fratellastro, perché non era soltanto bello. Era intelligente, perspicace. E uomo, valgame Dios, dalla punta dei capelli ai calcagni dei piedi, uomo in tutti i sensi. Forse a Flor non sarebbe affatto dispiaciuto cavalcare con lui anche la notte, specie se si fosse soffermata un attimo a considerare la faccia, il cervello e gli attributi dell’uomo del quale si era ritrovata suo malgrado moglie e avesse avuto la poco felice idea di metterli a confronto con quelli dell’altro. Il pensiero era perverso. E disgustoso. Ma anche eccitante, pensava don Gregorio godendosi il brivido caldo che lo percorreva dalla testa ai piedi. Fantasie morbose, Flor era troppo timorata e benpensante per certe porcherie. In quanto a lui, sapeva benissimo quel che gli sarebbe capitato, se avesse osato tanto, e naturalmente se ne guardava bene: la posizione che ricopriva all’interno della proprietà era invidiabile e gli avrebbe permesso, di lì a qualche anno, di poter comprare la sua libertà, quella di sua madre, del suo patrigno e fors’anche, ammesso che campasse fino ad allora, di quella vecchia guercia che continuava a stare con loro e che chissà quanti anni si caricava sul groppone.
Eppure, una lezione del genere a quel babbeo di suo figlio sarebbe andata a meraviglia: tu te ne stai lì a goderti il tuo fottuto mal di denti e la tua deliziosa mogliettina se la spassa col maschio più bello e più in gamba di tutta Cuba infischiandosene del fatto che sia nero come l’asso di picche e per soprammercato, pure il figlio bastardo di tuo padre. Di quel padre che si pente mille volte al giorno d’averla data a te e di non essersela tenuta per lui, Flor. Non meriti niente, don Francisco Javier De Almeida, figlio che Dio volle darmi a onore della famiglia e a consolazione della vecchiaia, figlio che sa a malapena leggere e scrivere, che ha paura dei cavalli, terrore dell’acqua e non è neppure in grado di fottersi sua moglie.
Capitolo
sedicesimo
Il vento
dell’ultimo scorcio dell’estate scompigliava i lunghi capelli biondi di Flor,
gonfiava la camicia di cotone di Javier e faceva galoppare nel
cielo mandrie di grandi nuvole bianche.
-Bisogna
tornare indietro prima che piova...Señora.
Flor si
scostò dalla fronte i capelli.
-Mi
piace la pioggia.
-Potreste buscarvi un malanno, e io ne sarei responsabile.
-Sarebbe
solo colpa mia, Javier.
L’acqua non fa mai male, l’acqua è vita, lava via il
dolore, il peccato, le malattie, la morte. L’acqua lava la tristezza dell’anima. L’acqua. Quelli del
Sud, angolani e bantu, la chiamavano mai e la dicevano sacra. Ma se la volta del cielo si fosse liquefatta,
neppure tutta quell’acqua sarebbe bastata a lavare via il dolore dagli occhi di
Doña Flor. Occhi azzurri e innocenti come quelli degli animali neonati e dei
cuccioli degli uomini. Occhi tristi come quelli di colui al quale hanno ucciso
i sogni. Chi aveva ucciso i sogni di doña Flor? Qualcuno o, più semplicemente e
più probabilmente, la vita?
-Scendete
almeno da cavallo: sarebbe meglio.
Ai cavalli
non piace la pioggia. Sono animali ombrosi, tuoni e fulmini li innervosiscono.
E la padrona non era ancora abbastanza abile da governare un cavallo
imbizzarrito, cosa tutt’altro che facile, del resto, montando all’amazzone.
-Allora aiutatemi, Javier.
Si era sempre stupito della deferenza con cui la
padrona lo trattava, quasi ignorasse d’avere a che fare con uno schiavo; e
della soggezione con cui abbassava lo sguardo,
quando gli occhi di lui cercavano di giocare con i suoi. Eppure, quando
gli posava le mani sulle spalle per aiutarsi a smontare di sella e lui l’afferrava
per la vita, era come se un brivido le passasse sotto la pelle, e Javier,
allora, sentiva un groppo chiudergli la gola. Sei bella, pensava resistendo a
fatica alla tentazione di stringerla più forte, magari di schiuderle le labbra
con la lingua e di insegnarle i baci veri. Sei bella: troppo, per uno come don
Francisco Javier De Almeida.
Il vento le scompigliò i capelli mandandoglieli in
faccia e lui, d’istinto, glieli scostò con la mano via dagli occhi. Erano
lisci, e morbidi come la seta, sfumati di platino e d’oro come la criniera dei
cavalli andalusi.
-Sapete mantenere i segreti?- fece, continuando a
giocare con una ciocca dei suoi capelli.
-Certo che sì, amico mio.
Era la
prima volta che lo chiamava così: amico mio. Forse non c’erano stati altri
amici, nei suoi diciannove anni di vita, ma non possono intercorrere sentimenti
diversi dalla superiorità e dalla soggezione, tra una gentildonna bianca e uno
schiavo nero e quello che gli stava capitando era maledettamente pericoloso,
pensava Javier ragionando a mente fredda. Ma era bella, Dio se lo era, quando
sorrideva. Non aveva mai visto una donna bianca dalla dentatura altrettanto
perfetta. La sua pelle, poi, era sfumata d’oro, non lattea e lentigginosa com’è
solitamente la pelle delle donne bionde. Aveva
zigomi larghi e pronunciati, un profilo imperioso, leggermente aquilino,
e una bocca morbida, carnosa. Una bocca da baci.
-In
verità non è proprio un segreto, alla Finca lo sanno tutti quanti. Beh, siamo
un po’ parenti, voi ed io. Parenti acquisiti. Scommetto che don Gregorio non ve
l’ha detto: vostro marito è il mio fratellastro. Stesso padre, diversa madre.
Cose che capitano, in una piantagione, nessuno ci fa più caso.
-No, non
me l’hanno mai detto . E non l’avrei mai neppure immaginato: non vi somigliate
affatto.
Aveva sorriso
con la solita dolcezza e una sfumatura d’imbarazzo le aveva colorito le guance.
Doveva essersi domandata come fosse possibile una qualsiasi parentela tra lo
splendido giovane uomo che le stava accanto e le faceva tremare le gambe ogni
volta che le rivolgeva la parola e quel poveretto di suo marito, anche se non
c’era ombra di ironia o sarcasmo nel
suo sguardo e nella sua voce gentile.
Poi,
inaspettata, attesa e anche temuta, Javier sentì la carezza leggera della sua
mano sopra i capelli. Sono strani, gli aveva detto, così ruvidi e crespi e neri
come la pece. E la pelle del viso era
liscia, morbida, tesa sul rilievo degli
zigomi, e pungeva, sul mento e sulle guance sporcate dall’ombra fuligginosa
della barba. Non doveva mai aver sfiorato il volto di un uomo che non fosse suo
padre, e sicuramente trovava attraenti e desiderabili la sua bella faccia e il
suo corpo prestante. Tutte le donne lo trovavano attraente, ci sarebbe voluta
una bella dose d’ipocrisia e di stupidità per non esserne consapevoli, e lui
non era né ipocrita né stupido.
-Dio,
quanto siete bella...
Era sicuro che mai nessun uomo gliel’avesse detto. In Spagna doveva essere vissuta quasi segregata, stando ai molti pettegolezzi che circolavano nelle senzalas a proposito della moglie del giovane padrone. Se non avesse sposato don Javier, doña Flor sarebbe stata rinchiusa in un convento, perché così avevano deciso i suoi genitori. Bella razza di genitori, pensava Javier, capaci di mettere al mondo un figlio per poi avvelenargli l’esistenza. Lui, almeno, era stato amato da sua madre, dal suo patrigno, da Mama Conchita. E consolato, quand’era triste. E ascoltato, quando aveva provato il bisogno di dividere con qualcuno i suoi segreti.
Ti hanno
derubata, Flor...Ma sarebbe stato impossibile mettere le mani sul ladro,
costringerlo a restituirle il maltolto. O, forse, lei si sarebbe accontentata
di qualcuno che la consolasse, che dividesse con lei i suoi segreti, che
l’aiutasse a sconfiggere le sue inquietudini, a scacciare i mostri della notte
dai suoi sogni. Flor. Fiore. Gli accendeva il sangue, con quegli occhi chiari
come il cielo lavato dal temporale, con quella pelle dorata morbida come la
buccia di un mango maturo, con quella bocca sensuale e imbronciata da bambina che
della vita non sa niente e forse non ne scoprirà mai i segreti, perché così è
stato deciso. “Flor...” Gli si strinse contro, imprigionandogli il collo tra le
braccia, non sai quello che rischi, ragazza mia, io sono un uomo, e quando un
uomo... Javier chiuse gli occhi, ingoiò la saliva. Flor era bianca, era
sposata, era una signora. Quello che stava facendo era male. Era un tradimento.
Don Gregorio e don Javier avevano fiducia in lui, non lo meritavano. O forse
sì, perché erano bianchi, perché erano padroni: meritavano il tradimento,
meritavano la morte, per quel che avevano fatto di lui e di quelli come lui.
Come tutti quanti i bianchi.
Flor...Mi vida. Una bambina. Una bambina che
sicuramente non sapeva neppure baciare, una bambina di vent’anni, maritata da
oltre un mese a uno sgorbio mezzo ritardato che, a dar retta a quel che si
diceva , l’aveva lasciata tale e quale com’era e non dormiva neppure nel suo
stesso letto. Una bella bambina dai capelli biondi, gli occhi azzurri e la
pelle di pesca, pensava carezzandole la testa. E dal seno grande, formoso,
morbido che gli aveva mandato il sangue in fiamme, quando l’aveva sentito
premere contro il suo corpo per la prima volta.
Capitolo
diciassettesimo
La
pioggia aveva cominciato a venire giù, bagnando le loro facce, i loro capelli,
le loro mani intrecciate.
-Torniamo
a casa.
“Vorrei
che non lo fosse, casa mia, quella. Dove abiti, Javier? Nelle senzalas,
con gli altri neri? Vorrei essere nera, e stare con te per sempre. E se non
posso stare con te per sempre, lascia almeno che questa pioggia mi bagni e non
smettere mai di tenermi fra le braccia. Se poi mi ammalerò, pazienza. Ne sarà
valsa la pena.”
A Cuba la
pioggia non era quella fredda di Santander: era fitta e sottile come nebbia, e
calda come l’estate. In pochi minuti, le aveva inzuppato gli abiti e
infradiciato i capelli, ma sembrava scivolasse via dalla testa ricciuta di
Javier senza neppure bagnarla.
-Torniamo
a casa, Señora.
-Non
voglio tornare a casa.
-Vi
ammalerete.
-Non me
ne importa. E poi... Voi siete bagnato più di me, Javier.
-Io ho la
pelle dura...Flor.
L’aveva
sentito ridere piano, mentre le braccia di lui la circondavano e il mondo era
circoscritto al calore della sua pelle,
all’urgenza del suo desiderio, un
miracolo, un mistero che non le era mai stato svelato se non da doña Sofia come
qualcosa di sporco, anche se non era così, ne era sicura. Non aveva mai visto
nessuno sorridere come Javier. Non aveva mai visto un uomo con delle ciglia
così lunghe. E non aveva mai provato nulla che fosse seppur vagamente simile a
quelle sensazioni acute, violente e dolcissime, occhi negli occhi, pelle contro
pelle. Era ingiusto. Era sbagliato. Ma tutta quanta la sua vita era stata
ingiusta e sbagliata, pensava Flor mentre lui, con la punta della lingua, le
asciugava dalle guance le lacrime e l’acqua della pioggia.
-Flor.
L’avrebbe
baciata, e lei avrebbe sentito il peso e l’imbarazzo della sua ignoranza. Non
sai baciare, Flor, le avrebbe detto. Non te l’ha insegnato, lui o qualcun
altro?
-Flor.
Guardami.
Aveva una
pelle perfetta e occhi lucidi e impenetrabili come ciottoli di fiume. Le
palpebre, frangiate dalle lunghe ciglia, erano orlate di nero come quelle delle
bestie selvagge che venivano mostrate nei serragli ambulanti. Il naso era
breve, largo alla radice, appena un po’ schiacciato sulla punta e con narici
sensibili, non troppo dilatate. Le labbra spesse, livide, erano socchiuse sui
grossi denti bianchi.
-Quanto
sei bella, Flor...
Bella io?
La mia matrigna diceva che ero troppo alta e che non avrei mai trovato marito.
E che la mia faccia le ricordava il muso di un gatto. A forza di sentirmelo
ripetere, ho finito col crederci. E adesso sono confusa. Sei tu, o era lei, a
dirmi la verità?
-Flor...
Una parte
del corpo dell’uomo si gonfia e s’irrigidisce, quando sente di desiderare una
donna. Le farà male, quando la prenderà, e la farà vergognare di se stessa.
Magari le metterà un figlio, dentro. Forse era a quello che pensava, Javier,
mentre la teneva stretta tra le braccia, carezzandole lento la schiena, come si
fa quando bisogna calmare il pianto di un bambino spaventato.
-Perché
piangi, adesso? Non devi piangere.
Aveva
stretto gli occhi, aggrottato le sopracciglia. S’era passato la punta rosata
della lingua sulle labbra, come un gatto davanti alla ciotola del latte: lo
faceva spesso.
-Non
piangere, non c’è ragione. Si piange quando si è soli.
Flor si asciugò gli occhi col dorso della mano e gli sorrise, tirando su col naso. Forse aveva ragione, si piange quando si è soli. Si piange quando non si è abbastanza forti, proprio come lei.
-Ti fidi
di me?
Non gli
rispose. Non devi fidarti degli uomini, Flor. Gli uomini sono al mondo apposta
per approfittare delle ragazze ingenue e stupide come te...Ma non stava miglia
e miglia lontano da dov’era lei, doña Sofia?
Annuì,
guardandolo negli occhi, e reggendo il suo sguardo un attimo soltanto. Portava
al collo una piccola croce d’argento. Era cristiano, proprio come lei. L’acqua
della pioggia gli aveva appiccicato addosso gli indumenti che portava, camicia
leggera e brache di cotone rigato, evidenziando in maniera quasi imbarazzante la superba bellezza della sua figura.
-Non gli
somigli, anche se siete fratelli.
Ma nessuno somiglia a nessuno. Nemmeno i padri ai figli, o i fratelli nati dalla stessa madre e dallo stesso parto. In ogni caso, lei non avrebbe mai pensato a don Francisco Javier De Almeida come in quel momento stava pensando a lui. Anche se era bianca e lui nero. Anche se era la padrona e lui lo schiavo. Anche se era sposata. Forse c’è parecchio di sbagliato, in me, ma quando mi guardi come mi guardi, non sono più sicura di niente. Prima che andassi via da Santander, una vecchia zingara mi ha letto la mano. “Conoscerai una grande passione”, mi ha detto così. Adesso capisco quello che intendeva. E mi fa paura.
Capitolo diciottesimo
Sul
frontespizio del messale appartenuto a doña Flor De Almeida Ochoa, di suo
pugno, in data Otto Novembre dell’Anno di Grazia Milleottocento
Sono sicura che Dio Vi ha accolto tra i Suoi Angeli.
Il riposo vi sia dolce, don Francisco Javier De Almeida.
Era passato Natale, l’anno nuovo bussava alle porte.
C’era stato il tempo della semina, sarebbe arrivato quello del raccolto. La
stagione delle piogge era trascorsa, dicembre, gennaio, non significavano
freddo e neve, a Cuba, ma calore e polvere. Sarebbero tornate le piogge, e la
canna da tagliare, quindi nuovamente la polvere e il calore di quell’inverno che
non era inverno, un altro anno sarebbe terminato, uno nuovo ne sarebbe
cominciato. Il tempo è crudele ed innocente della sua crudeltà, come un bambino
piccolo che si diverte a strappare le ali alle mosche senza rendersi conto
d’ingenerare sofferenza. Il tempo avrebbe sbiadito l’inchiostro delle sue
parole, la macchia di quella lacrima che
neppure
Flor aveva ben capito per chi fosse
stata spesa. Per don Francisco Javier
De Almeida, figlio non amato, figlio disprezzato e deriso non solo nel segreto
del cuore? O per lei stessa?
Se n’era
andato come se ne vanno i vecchi, spegnendosi quasi senza soffrire. Gli ascessi
che lo avevano sempre tormentato si erano complicati in qualcosa di molto
peggio e avevano finito con l’avvelenargli il sangue. Il medico aveva
sentenziato che don Javier era morto senza accorgersene, intontito dalla febbre
e dalla setticemia, e Flor lo aveva pianto non soltanto alla Messa e al
funerale, com’era suo preciso dovere, ma perfino nel segreto dei suoi
appartamenti. Povero ragazzo incompreso, infelice e male amato, né più né meno
che lei. Povero ragazzo, al mondo giusto per deludere le attese di chi si
aspetta da te chissà che cosa: la continuazione di una stirpe che rischia di
estinguersi, o preghiere e penitenze che garantiscano il Paradiso a quelli del
tuo sangue. Forse, la dinastia dei De Almeida, con la morte di quel grottesco
erede goffo, malaticcio e ritardato, era arrivata davvero agli sgoccioli. Forse
ci sarebbe stato l’inferno, nel destino di doña Sofia, senza una monaca in famiglia
che si macerasse l’anima per scardinarle le porte del Cielo.
-Povero
don Javier. E’ terribile non essere amati.
Era
perspicace, Javier il mulatto; forse era davvero dotato di quelle misteriose
capacità percettive che travalicavano la ragione, come gli animali. E come la
sua gente. O, più semplicemente, lui che era stato amato, immaginava quanto
fosse crudele non esserlo.
-Lui era buono. Ma il mondo è cattivo.
Dov’è adesso sta meglio, ne sono sicuro.
Capitolo
diciannovesimo
Don Gregorio,
da qualche tempo, si sorprendeva spesso a guardarla. Era bella, perfino con
gli abiti a lutto e gli occhi rossi di
chi piange spesso. Trascorsi un paio di mesi, ancora lo piangeva, quell’uomo
che aveva sposato senza conoscere e che doveva averla delusa, esattamente come
aveva deluso tutti quelli con cui aveva avuto a che fare. Anche se della vita
doveva saperne poco, certo non se lo aspettava come il povero don Javier,
l’uomo con il quale avrebbe diviso l’esistenza. Si sa, le ragazze fanno grandi
sogni, e nei loro sogni non c’è posto per sgorbi mezzo ritardati con la testa
tignosa, i denti marci e il coso che gli serve solamente per pisciare. Chissà
come lo aveva immaginato, il Principe Azzurro che avrebbe reso felici i suoi
giorni a venire: non certo con la faccia di don Francisco Javier De Almeida, su
quello non ci pioveva. Bello, tenero e appassionato, malgrado probabilmente non
ne sapesse nulla, della passione, quella ragazzetta appena uscita dal convento
delle monache. Ma il cuore e l’istinto fanno scuola e, nelle braccia dell’uomo
giusto, la pupattola ingenua si sarebbe trasformata d’incanto nella più calda,
sensuale e lasciva delle amanti. Solo un imbecille come il povero Javier dal
cervello bacato non era stato in grado d’approfittare di quella magnifica
opportunità, ma ancora più imbecille era stato lui a non rendersi conto che
pretendere da suo figlio un comportamento normale era lo stesso che lavare la
testa all’asino. Male aveva fatto a non chiederla in moglie per sé, disperata
com’era non avrebbe osato rispondere no neppure a un vecchio di sessantacinque
anni. Invece l’aveva chiesta per suo figlio, onore e gloria della casata,
affinché lui e Flor potessero generare quei figli che avrebbero impedito alla
stirpe di estinguersi. E Javier non l’aveva mai neppure toccata. Peggio per me,
si diceva da sé solo. Avrei dovuto prevedere tutto quanto, perché in
venticinque anni di vita quell’imbecille che ho messo al mondo, riposi in pace,
mi ha fatto solamente inghiottire intere pinte di bile e delusioni a libbre.
Sessantacinque anni. Quasi sessantasei. La pancia gonfia, gli occhi che
affondavano nel grasso, le gambe livide di varici. Ma era uomo ancora. Non
aveva più toccato una negra della piantagione, dacché Isabel era morta,
tuttavia al casino continuava ad andarci con una certa frequenza, alla faccia
di Padre Antonio e delle sue ramanzine ogni volta che si confessava. La
lussuria rende l’uomo simile a una bestia. Già, e il matrimonio è l’unica
risorsa che il buon cristiano ha a disposizione per sedare la sua
concupiscenza. Il matrimonio... Vedovo lui, vedova lei. Non c’era nessun
impedimento che lo ostacolasse, se non l’obbligo di rispettare i trecento
giorni del lutto vedovile che, ungendo le ruote giuste, poteva facilmente
essere aggirato. Flor lo avrebbe reso felice e gli avrebbe partorito quei
bambini belli, sani e forti che avrebbero impedito alla stirpe di estinguersi.
A sessantacinque anni, un uomo dovrebbe essere ancora perfettamente in grado di
generare figli.
Ramon
Reyes si sarebbe mangiato le sue sudice manacce, quando avrebbe saputo, quelle
stesse sudice manacce che già immaginava di poter presto allungare sul
patrimonio De Almeida. Dopo la dipartita del povero don Javier, riposasse in
pace, l’erede era lui, perché i numerosi fratelli di don Gregorio erano tutti
quanti morti prima di poter mettere su famiglia e l’unica sopravvissuta, monaca
di clausura in un convento di Città del Messico, tutto aveva in animo fuorché
mettersi a dirigere una piantagione di canna, con annesso zuccherificio e
distilleria, almeno così era lecito supporre. Ci sarebbe stato anche il figlio
nato dalla sua relazione con Chantal e l’idea di rintracciarlo gli era balenata
in testa parecchie volte. No. Se anche l’avesse ritrovato, aveva il diritto di
sconvolgergli l’esistenza rivelandogli una verità che aveva sempre ignorato?
Meglio lasciar perdere, tantopiù che Flor era lì, a portata di mano, un frutto
appetitoso e maturo al punto giusto per essere colto, disperata abbastanza da
accettare le profferte di un vecchio con la pancia gonfia e le gambe piene di
varici, perché suo figlio l’aveva sposata senza dote e, se non avesse accettato
d’accasarsi con lui, don Gregorio sarebbe stato costretto a rispedirla in
Spagna e dal convento non l’avrebbe più salvata nessuno. Meglio le nozze con un
vecchio. Del resto, da che il mondo è mondo, non sarebbe stata la prima e non
sarebbe stata l’ultima, a sposare per convenienza un uomo che aveva l’età di
suo nonno: l’amore, in un matrimonio combinato, è un accessorio del tutto irrilevante,
questo la ragazza lo sapeva bene, altrimenti non avrebbe accettato di
sposarsi con don Javier, che neppure conosceva; perché avrebbe dovuto
ribellarsi allora, quando oltretutto lui, aldilà dei suoi anni, era un uomo
vero, e non un povero idiota come suo figlio?
-I libri
mastri, don Gregorio.
C’era Javier il mulatto, immobile sulla porta, con una fascio delle sue scartoffie da mostrargli: come di consueto, come tutte le sere. Ragazzo in gamba. Il suo braccio destro. Non fosse stato figlio di una negra, avrebbe potuto legittimarlo e farne senza rimpianti il suo erede, bastardo o no che fosse. Peccato. E poi era bello, con quegli occhi di velluto, quei denti bianchi e quelle spalle, le più grosse e forti di tutta quanta Cuba.
-Javier...Avvicinati.
Era molto
alto. Più alto di lui di parecchio. Magnifico, con i suoi lineamenti regolari e
la sua figura snella e imponente. Se solo fosse stato bianco.
-Che mi
diresti se...Se mi sposassi?
-Congratulazioni. Si dice così, no? Perché, avete intenzione di prendere
moglie, don Gregorio?
-Sono
innamorato come un ragazzino. Lei ancora non lo sa, ma lo saprà presto. E non
mi dirà di no.
Già, non
gli avrebbe detto di no, malgrado i suoi anni, la sua pancia gonfia e le sue
varici, perché tutto è in vendita, anche l’amore, e lui aveva abbastanza denaro
per comprarlo, su quello non ci pioveva.
-La
conosco?
-La
conosci: è bellissima.
Javier
aveva sollevato appena appena un angolo di quella sua grande bocca sensuale, aggrottato perplesso le
sopracciglia folte e ben disegnate. Non lo conoscessi abbastanza, si diceva da
sé solo, potrei credere che il dolore per la morte di suo figlio gli abbia
mandato il cervello in malora, ma so bene che non è così. Certo, l’amore è una
tegola che ti piove addosso quando meno te l’aspetti e che non puoi evitare
ragionandoci sopra, anche se sai benissimo che se ti c’impegoli magari rischi
di finire in mezzo ai guai. A sessantacinque anni, poi... E con uno come don
Gregorio non c’erano difficoltà o senso del ridicolo che tenessero, aveva
deciso di sposarsela, e se la sarebbe sposata. Certo, c’era poco da invidiarla,
povera ragazza che si sarebbe goduta i tardivi bollori di quel vecchiaccio. La
conosci, gli aveva detto. E’ bellissima. Chissà chi diavolo era.
-Sposerò mia nuora, doña Flor De Almeida Ochoa, e intendo farlo prima possibile. Chiederò al Vescovo la dispensa dal periodo di lutto vedovile, che mi verrà concessa senza difficoltà, considerato che, come tutti sanno, il precedente matrimonio di Flor non fu consumato. La amo e voglio renderla felice. So che posso.
Costringendola ad ingoiare altre pietre? Lo odiò, per le sue parole, per
il desiderio che riusciva a leggergli nella mezzaluna degli occhi socchiusi tra
le palpebre gonfie. Flor e quel vecchio. Era orribile.
“Quando ti ho vista per la prima volta e i tuoi occhi mi hanno trapassato il cuore come la punta di una spada, ho giurato che sarei stato il tuo servitore, allora e per sempre. Anche se tu sei quella che sei e io quello che sono, non permetterò che ti facciano del male. A nessun costo.
Capitolo
ventesimo
Erano passati tre mesi dalla morte di don Javier e, dal giorno, Flor non era più uscita a cavallo, rispettando il lutto stretto che una vedova deve al marito. La giornata di fine inverno era tersa e soleggiata, e il cuore le pesava. Stando a cavallo, si guarda il mondo dall’alto. Ci si sente forti, sicuri. Ma stando soli con se stessi non si ammazzano i brutti pensieri e la solitudine fa paura, come succede ai bambini. Che ne sarebbe stato di lei? Se avesse detto di no, don Gregorio l’avrebbe rispedita a Santander prima possibile. E se avesse detto di sì? Sicuramente si sarebbe vergognata di se stessa sino alla fine dei suoi giorni.
“Sarete
la regina del mio regno, la madre dei miei figli”, le aveva detto. Si sarebbe
dovuta sottomettere alle voglie di quel vecchio maiale che, sicuramente, non si
sarebbe accontentato d’ignorarla, come
aveva fatto il povero don Javier, riposasse in pace. Avrebbe dovuto
assecondarlo in quanto di più schifoso avesse osato pretendere da lei, proprio
come quella strega di doña Sofia le aveva predetto, prima che partisse. Era
come se qualcosa o qualcuno l’avesse maledetta, perché non proprio la sua
matrigna, una persona meschina, incapace di provare sentimenti diversi
dall’invidia. Ma perché non le aveva mandato la morte, piuttosto che quella
pena? Morire all’istante, ecco, forse quella poteva essere una soluzione. E non
era neppure difficile, bastava lanciare il cavallo al galoppo, lasciar andare
le redini...Le avevano insegnato che è peccato grave, cercare la morte. Che i
suicidi vanno dritti all’inferno e i loro corpi sono condannati a marcire in
terra sconsacrata, come carogne d’animali.
-Flor, mi
vida... Bentornata nel mondo dei vivi.
Mi
vida. Come quando l’aveva baciata per la prima volta e la sua anima si era
disciolta come un mucchietto di neve al sole. Era quella, la passione di cui le
aveva detto la vecchia zingara sul sagrato della chiesa, a Santander. Era
quando lui accarezzava la sua estasi e le toccava l’anima, era quell’uomo nero
e bello, dagli occhi limpidi e profondi come il cielo della notte, l’unico
conforto a cui appoggiarsi, l’unica certezza di un’esistenza incerta, l’unica
medicina di cui avesse bisogno per sciogliere il grumo di dolore che la
opprimeva dentro. Eppure era peccato, era peccato anche quello, si diceva de sé
sola. Non fornicare. Non commettere atti impuri. Non desiderare...Non
desiderare di essere libera e viva, Flor: il tuo destino è un altro.
-Tu piangi sempre troppo.
-E tu non
sai niente, Javier.
Le sue
mani grandi e affusolate conoscevano carezze capaci di lenire il dolore, di
calmare qualsiasi inquietudine.
-Invece
so tutto, Flor mi vida.
E anche
se sapeva tutto, che cosa cambiava?
-Ti
aiuterò a venirne fuori, non credo che sia impossibile. Il tempo, tanto per
cominciare, non ci è nemico e menare per il naso una persona quando è
innamorata come quel vecchio è lo stesso che mandare giù un bel bicchiere
d’acqua fresca. Non ce l’hai, un po’ di fiducia?
Le aveva
sfiorato con l’indice la punta del naso e il solito sorriso radioso di sempre
gli aveva scoperto tutti i denti bianchi e disegnato una raggiera di piccole
rughe agli angoli degli occhi. Era irresistibile, quando sorrideva, e così
sicuro di sé...La condizione di schiavo non l’aveva abbrutito come capita ai
più: ma forse Javier era speciale, perfino don Gregorio se n’era accorto e, se
non lo trattava come trattava tutti quanti gli altri suoi simili, non era
sicuramente dovuto al fatto che fosse suo figlio. A don Gregorio piacevano le
persone forti, decise, disinvolte. Tutto quello che il mio povero marito non
era, pensava Flor. Tutto quello che io non sono.
-Si sa
che certi fumi ai vecchi danno alla testa, capisci cosa intendo? Chiedigli
qualunque cosa, non ti dirà di no. Eppoi...Don Javier è morto da poco, ci sono
i trecento giorni del lutto vedovile da rispettare: sono passati tre mesi
esatti, quindi abbiamo la bellezza di duecentodieci giorni per farci venire in
mente un piano che abbia qualche probabilità di funzionare. Scapperemo, Flor.
Scapperemo via insieme.
Per andare dove? Cuba ra un’isola, il mare che la circondava una trappola. Prima o poi, li avrebbero riacciuffati e consegnati nelle mani di don Gregorio: lei, con tutta probabilità, sarebbe stata rispedita in Spagna con i soli vestiti che aveva addosso e non l’avrebbe scampata dal convento una seconda volta. In quanto a lui... Nelle Antille, i piantatori creoli conoscevano mille e un sistema per farla pagare agli schiavi infedeli: non c’è al mondo sofferenza abbastanza crudele, non c’è morte abbastanza lenta e tormentosa, dicevano, per ricompensare del suo tradimento uno schiavo ribelle, specialmente se costui dal suo padrone non ha ricevuto che del bene e se c’è una donna bianca di mezzo.
-Hai
paura?
La
verità non sarebbe sfuggita agli occhi
neri di Javier, che la scrutavano, seri e interrogativi. Certo che aveva
paura. Si conosceva abbastanza, una ragazza timida, cresciuta in convento, che
non sapeva le astuzie per far ballare gli uomini sulla punta di un dito e non
sarebbe stata in grado di tenere a bada don Gregorio come quell’emergenza
richiedeva. E poi duecentodieci giorni fanno in fretta a passare: Javier era
troppo ottimista.
-La legge e il Dio in cui crede lo obbligano ad
aspettare: dovrà farlo. Io conosco certi pescatori e ho qualche soldo messo da
parte. Haiti è in subbuglio, in Giamaica o sul Continente potrei spacciarmi per
un uomo di colore libero... Non rimarremo a Cuba e don Gregorio non ci
troverà: dovesse rovesciare il mondo
sottosopra.
Era
sincero, ma lei non poteva credergli. L’ordito della vita è fatto di realtà,
non di sogni, e forse Javier sognava troppo. E poi ...Don Gregorio era suo
padre, e non si può far tacere la voce del sangue.
-Il sangue, già... O il suo
seme che ha ingravidato mia madre. Ma il sangue e il seme non sono il cuore e
il cervello, Flor. Mio padre è Kwame, l’ashanti, non don Gregorio.
Kwame, il compagno di Eclipse. Un africano d’una quarantina
d’anni, grosso, robusto e nero come un tizzo di carbone. Kwame, che aveva
sempre una risposta pronta alle sue domande e, quando era bambino, aveva saputo consolare la sua
tristezza, aiutarlo a vincere le sue paure, medicare con foglie d’arnica
pestate le sbucciature sulle sue ginocchia.
Se avesse ingannato Kwame, Javier si sarebbe sentito un verme. Don
Gregorio gli aveva dato la vita, la possibilità d’elevarsi grazie all’istruzione, un incarico di
responsabilità all’interno della Finca
Dorada. Don Gregorio sicuramente aveva sofferto, quando di era trovato
costretto a mettere a confronto il suo bastardo mulatto con l’erede legittimo
della casata e dei beni, ma aveva sempre avuto fiducia in lui. E non gli
avrebbe perdonato un inganno.
Sono importante, per lui. E sono importante per la mia gente,
anche se qualcuno volta la faccia dall’altra parte e sputa in terra quando mi
vede, anche se qualcuno mi chiama ruffiano del padrone borbottando tra i denti.
Alla Finca Dorada i neri mangiano bene, non si ammazzano di fatica, non vengono
venduti e gli scudisci seccano nelle rastrelliere. E io sono orgoglioso d’aver
fatto tutto questo per loro. Ma Flor ha bisogno di me. Anche per lei, sono
importante.
“Segui sempre quello che ti dice il cuore”, gli aveva insegnato
Kwame il saggio. Aveva occhi sporgenti e un pizzo caprino spruzzato di grigio a
decorargli il mento. Non avevano avuto figli, lui e sua madre, perché doveva
essere vero quello che si borbottava ai quartieri, il suo seme non era buono.
Ma la sterilità è una maledizione per chi è libero, non per uno schiavo. E don
Gregorio, nonostante quella pecca, non lo vendeva, perché era leale e fidato,
perché sapeva battere il ferro, scolpire la pietra e aggiustare quello che si
rompeva o che l’incuria e il tempo logoravano. Voleva bene a Eclipse come alla
pupilla dei suoi occhi ed era l’unico in tutta la piantagione che la chiamasse
col suo nome vero, Ayesha. E voleva bene anche al suo piccolo bastardo mulatto
dai grandi occhi bruni e dorati orlati di nero come quelli dei ghepardi della
savana.
Il vento aveva preso a soffiare, facendo crocchiare l’erba
secca dell’inverno caldo e senza piogge di Cuba.
-Ho paura.
-Lo so. E’ normale. Ma alla fine sarà tutto quanto molto più
semplice di quel che ci sembra adesso, vedrai.
Forse non lo sarebbe stato. Forse avrebbero pagato altri, per
quell’inganno, Kwame, Ayesha, Mama Conchita. Forse le fruste non avrebbero
continuato a seccare nelle rastrelliere, dopo che lui e Flor fossero fuggiti.
“L’uomo non è solo una testa che pensa, figlio mio: è un cuore
che pulsa, occhi che vedono, stomaco che sente la fame e la sete, è piacere che
gli si scioglie tra le gambe quando prende una donna. L’uomo è anche istinto e
l’istinto non sbaglia mai, gli animali lo sanno. Gli animali sono buoni amici,
hanno tanto da insegnarci, se abbiamo la pazienza di ascoltarli.”
Era saggio, Kwame. Anche se qualcuno, peggiore di lui, aveva
potuto barattare la sua vita con un pugno di perline, qualche specchietto e un
taglio di stoffaccia scadente. Anche se qualcuno aveva potuto comprarlo
all’asta e marchiarlo a fuoco col suo sigillo, come una bestia da fatica.
“Quando la testa e il cuore fanno a pugni...Allora ascolta il
cuore, Osebo.” Osebo: l’aveva chiamato così. Come il grande
leopardo nero delle storie che sapeva, occhi gialli nella notte, zampe felpate
e silenziose che, dentro, nascondono lame affilate di coltello, denti bianchi e
acuminati nella caverna buia delle fauci.
Flor si era seduta sull’erba, le gonne allargate a cerchio, i capelli scompigliati dal vento. E’ bianca, gli diceva la testa. C’è un solco, tra te e lei, tanto largo e profondo che non basterebbe l’acqua di tutti gli oceani a riempirlo. Ma il cuore gli comandava di stringerla, di trasmetterle il suo calore, di prometterle l’impossibile. Gli si era rannicchiata contro, bambina atterrita dai mostri della notte, finalmente al sicuro tra le sue braccia amiche e protettrici. Come dubitare che per lei Javier sarebbe stato disposto a mettere in gioco la vita? Ma con lui al suo fianco niente, nemmeno la morte, le avrebbe più messo paura.
*Ama= padrona (N.d.A.)