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Autore: _maya96_    19/03/2013    3 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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-You Belong To Me-
 
-Mi Appartieni-
 
 
“In qualunque epoca si viva, alla fine cala sempre la notte. Tutto ciò che è rozzo , impuro sarà bruciato e andrà in contro alla sua fine. Il colore che ci guiderà all’epilogo è il rosso.”
-Vampire Knight-

 
 
L’atomo del corpo è materia in cui tutto si esaurisce.
Fingiamo di non vederlo, di non accorgersi che lui sia reale, che ruoti intorno a noi, nuotando nel vuoto, riempendo solitario quell’esistenza da cui siamo enormemente appagati.
Un atomo. Un semplice frammento di un nulla, capace di completarci, di riempire le nostre anime, di darci a suo modo una vita.
Ma se le nostre anime sono vuote, allora, come possiamo definire chi siamo?
Se tutto ciò che ci circonda è nulla chi ci permette realmente di esistere?
La vita come noi la conosciamo non sarebbe tale se non fossimo noi a viverla. Ogni persona al mondo la cambia, la modifica a suo piacimento. Ogni singola esistenza è unica a sé, diversa da chiunque, come i fiocchi di neve che cadono copiosi dal cielo durante l’inverno e che da piccola coglievo tra le gelide mani con l’aiuto di Ryan.
Nonostante ne cercassimo continuamente un altro, l’unico legame indissolubile che ci unisce, l’unico impossibile da spiegare e che continua a stringersi anche quando sembra che si debba spezzare, resta quello della morte. Quando ormai siamo diventati adulti, quando dobbiamo restituire tutte le ferite che ci portiamo dall’infanzia, quando abbiamo smesso di credere nelle favole e che la vita possa durare per sempre. Quando ormai è troppo tardi.
La morte. L’unica forza in grado di unirci, di renderci realmente e inesorabilmente…umani. Forse l’unica certezza che possediamo, perché di certo sulla vita non si può contare. La vita è fragile, instabile e davvero imprevedibile. Forse addirittura è solo un’illusione, un’ombra sul muro che svanisce, quando la candela si spegne.
Come possiamo fidarci di qualcosa di cui neanche siamo sicuri dell’esistenza?
Siamo tutti spaventati dalla morte, quando l’unica cosa che abbiamo veramente da temere è la vita.
Possiamo aver paura di quella che è una semplice separazione tra atomi? Tra quelle particelle invisibili all’occhio umano che determinano essenzialmente l’essere in quanto tale.
Eppure come può un qualcosa di così importante, non essere nemmeno visibile?
Il più delle volte ciò che a noi è più necessario, ciò che è più importante e indispensabile per la nostra esistenza è negabile allo sguardo. L’unico a cui la nostra mente è in grado di credere, di afferrare, come se non potessimo concepire qualcosa che riteniamo impossibile, ma anche per questo è estremamente necessario.
Se potessimo affermare tutto ciò che sembra plausibile, quale sarebbe il nostro limite umano?
Cosa ci distinguerebbe dall’essere qualcos’altro?
Ma in fondo i sapori, gli odori e i colori non esisterebbero se non ci fossero coloro che riescono a percepirli. Siamo noi stessi a darli in qualche modo una vita. Se non fosse per noi, non varrebbero nulla.
Sarebbero inesistenti, ma se sono reali perché qualcuno li crede possibili, noi potremmo essere vivi solo perché qualcuno ci definisce tali.
In fondo non sappiamo nulla di tutto questo. Non riusciamo a rispondere alle nostre domande, forse perché è troppo difficile accettare l’idea di essere impotenti, di non avere delle risposte, senza poter conoscere realmente se la nostra esistenza sia unica e vera.
Ma se ci fosse qualcos’altro al mondo?
Un qualcosa di diverso, che va contro natura. Un essere dannato ed eterno, che non svanisce furente nel tempo?
Un qualcosa a cui non siamo abituati per credere e che vive immutabile attraverso le ere?
In fondo la nostra vita non può nemmeno definirsi esistenza. Che cosa siamo, se non un minuscolo frammento di un nulla nell’infinito vuoto che costituisce l’Universo?
È assurdo pensare come in un tempo così prolungato non esistano creature in grado di sconfiggerlo.
Ho sempre creduto che il mondo fosse un luogo molto più misterioso di quel che appare, ma questo non poteva essere reale, non doveva esserlo.
Possibile che esista qualcuno in grado d’ingannare continuamente la morte?
Di giocare con il proprio corpo, mentre quest’ultimo si riflette immutabile attraverso gli anni, attraverso tutti quei secoli che in sé racchiudono ogni singola certezza del mondo, alla quale noi semplici umani siamo privati?
Il tempo. Forse l’unica cosa che c’è realmente da temere. Perché non risparmia nessuno e ti trascina con lui in quell’oblio, nel quale ognuno di noi è destinato a finire.
Ma se qualcuno fosse riuscito in qualche modo a combatterlo?
Non credo nell’occulto, non l’ho mai fatto. Non credo nemmeno ci sia un Dio se è per questo. La gente nasce, cresce, invecchia e poi muore è così che deve essere, è così che deve andare. Non esiste niente che si opponga al pensiero razionale.
La magia, il misticismo non sono reali. Siamo noi a crearli, quando automaticamente pensiamo possano essere veri.
E se invece fosse tutto completamente diverso?
Se loro fossero l’unica realtà esistente e noi frutto di un’immaginazione?

No!

Quello che pensavo non era reale. Non doveva essere vero, non poteva. Non riuscivo credere di aver vissuto per tutto questo tempo in una dannata bugia, ma come potevo negare l’evidenza?
Tutto ciò che accadeva intorno a me, ormai, era privo di senso. Era la mia incomprensione, il mio limite che non riuscivo a colmare, il mio nulla che mi stava uccidendo, perché troppo potente per riuscire a combatterlo.
Nei miei sogni gli ho dato un volto.
Lo stesso volto che ormai divorava la realtà, che l’annegava in un oceano di ghiaccio che si rompeva sotto i miei piedi, facendo cedere quel terreno su cui avevo sempre camminato e il mondo nel quale avevo sempre vissuto.
Ma quando ciò avviene, forse si ha solo bisogno di reggersi forte, di credere di sopravvivere insieme a tutto questo e di non perdersi, qualsiasi cosa succeda.
Ma come potevo non perdermi, se non mi ero ancora mai ritrovata?
Dopo quella notte penso, che qualsiasi persona fossi stata prima, era morta con loro, per sempre e di lei non restava altro che un pallido ricordo.
Feci un passo e attraversai la soglia di metallo arrugginito, mentre quel soffio fugace del vento mi attraversò per l’ultima volta, per poi sparire dietro il pesante portone in legno alle mie spalle.
I lembi del mio sobrio tubino nero tornarono a ricadermi leggeri sopra le ginocchia e il secco rumore dei miei passi, su un vecchio pavimento, rimbombò tra quelle solitarie pareti che si ergevano imponenti verso l’alto, interrotte soltanto da un solido muro, che nascondeva il cielo.
Erano mesi che non entravo in una chiesa.
Da quella notte non avevo più sentito il bisogno di farlo. Forse perché pensavo non potesse esistere un Dio capace di poter infliggere tutto questo dolore.
Dolore. L’unica cosa che ormai sapevo riconoscere. Lo sentivo esplodermi all’interno, macchiando quell’unica esistenza che mi era permessa vivere.
Le pesanti panche in legno scuro si diramavano lineari su tutto l’opaco pavimento, adornato da dei motivi neri, che si espandevano qua e là, riempendo quello spazio infinitamente vuoto.
L’unica eccezione era quella chiara bara di legno che, con la sua innocenza, rinchiudeva una vita forse appena sbocciata, negando un fragile respiro e nascondendo un cuore che aveva smesso di battere.
Sospirai e quasi meccanicamente mi mossi verso quel feretro rimasto aperto, per concedere un ultimo privato saluto ad un qualcuno che, ironicamente, non avrebbe neanche potuto rispondermi.
Tutti  siamo feriti da qualcosa, alcuni di noi più di altri, ma la cosa che ci accumuna è che per quanto le nostre ferite possano essere diverse, entrambe, alla fine, colano come lacrime nel sangue.
Mi avvicinai, sentendo il ritmico battito del mio cuore rimbombare sulle fragili ombre di quelle persone invisibili.
Forse ero venuta troppo presto. Nessuno riempiva ancora quelle scure panche, nessuno ancora aveva acceso dei lumi, nessuno ascoltava quei discorsi che si leggono a tutti funerali.  
Eravamo solo io e lei.
Il nulla ci faceva da casa, mentre albeggiava infido in quel luogo silenzioso, ascoltando le preghiere che nessuno aveva ancora pronunciato.
Le sue chiare mani, troppo pallide per anche solo sembrare di essere vive, restavano ordinatamente giunte sul suo vuoto ventre vestito di verde, come quella tonalità indefinita dei suoi occhi rimasti chiusi per sempre e che avevano brillato per l’ultima volta tra le pallide luci di una festa, che l’aveva rapita in una notte stellata.
Non avevo idea di cosa fosse accaduto nel bosco vicino. Non sapevo cosa si fosse celato nel suo ultimo e assordante grido, che ancora mi parve di sentire raschiare tra i rami racchiusi nelle verdi fronde, che parevano toccare il cielo cupo attraverso delle smunte dita, che cercavano il buio, come le creature più oscure della notte.
Ma forse al mondo c’era qualcun altro che, come loro, desiderava le tenebre.
Che si protraeva verso il cielo, bramando quell’unica cosa al mondo che non gli era permesso avere, l’unica cosa da cui noi umani non potevamo fuggire e che cercavamo di evitare, l’unica che a loro non incutesse paura, perché la desideravano a tal punto da negarla agli altri, trasformandoli a loro volta in esseri dannati e maledettamente eterni.
Nel mondo ci sono persone che nascono con la tragedia nel sangue. Non le puoi evitare, non vi puoi sfuggire, puoi solo sperare che mai nella tua vita le vostre strade s’incrocino, ma delle volte persone come loro fanno già parte di noi e non riusciamo nemmeno a vederle.
Con gesto inconscio, strinsi quel sottile gambo di una rosa appena spezzata, e ascoltai quel dolce fragore di una spina ,che mi penetrava avidamente nella pelle, sporcandomela di un rosso, che con gocce scarlatte mi scese fino al cuore, toccando le sue fragili membra e sussurrando parole che non riuscivo a comprendere.
Ho letto da qualche parte che non bisogna lamentarsi perché le rose hanno le spine, ma piuttosto bisogna essere felici che le spine abbiano le rose.
Tutto dipende dal punto di vista da cui si guarda. Anche la cosa più semplice può assumere un significato diverso e a volte non è detto nemmeno che quest’ultimo sia cattivo e che porti a sua volta dolore. Perché c’è sempre più di uno in qualunque cosa si guardi, ma forse la cosa più difficile sta nel cercare di comprendere se quella linea che divide il bene dal male è così fragile da potersi spezzare da un momento all’altro, davanti ai nostri occhi.
Una semplice linea, un abisso che distanzia forze opposte che combattono incessantemente tra di loro. Se decidiamo di superarla è a nostro rischio e pericolo, ma allora perché più  pericolosa è la linea più grande è la tentazione di oltrepassarla?
Forse perché tendiamo sempre verso ciò che ci è negato, per desiderare ciò che è proibito, ma più ne siamo attratti, più ci condanniamo. Senza renderci conto che questa attrazione fatale ci trascina inesorabilmente nel luogo più oscuro ed infido dell’inferno. Ma l’unico problema e che una volta che l’hai varcata è quasi impossibile tornare indietro.
Ma se ognuno di noi porta in sé stesso il cielo e le tenebre, esiste qualcuno capace di dominarli entrambi? Di oltrepassare così facilmente quella linea da decidere anche il luogo esatto in cui lei stessa si trovi?
Quei pensieri mi avvolsero come una nube in un giorno di tempesta, mentre mi avvicinavo a quella minuta figura, che si era addormentata nel bosco e ora riposava in quella bara, circondata dai soffici capelli dorati, che come i raggi del sole le illuminavano il viso diventato troppo chiaro.

Allyson.

Sussurrai tremante il suo nome, mentre le posizionavo accuratamente quella rosa tra le sue mani giunte, avendo paura che una figura così fragile potesse spezzarsi sotto il mio tocco da un momento all’altro.
Le sfiorai delicatamente la mano con la mia. Era fredda, troppo fredda, così gelida da congelarmi fin dentro le viscere. Ma questa sensazione non era sconosciuta, perché più di una volta l’avevo provata.
Rabbrividii quando mi parve di sentire le mani di Klaus sopra il mio viso, mentre mi accarezzavano fugaci le guance con gesto scaltro e che racchiudevano qualcosa di nascosto. Un qualcosa che non riuscivo a comprendere e tante volte avevo cercato di farlo, ma non si può capire quello che non si riesce a vedere, il nostro limite umano non ce l’ho permette.

Saprai solo quello che ti concederò di sapere, nulla di più.

Quella fredda frase mi spaccò il cuore e me lo rinchiuse in una gelida gabbia di ghiaccio dalla quale, forse, non avrei mai potuto uscire, finché lui non me lo avesse permesso. Come se tenesse la mia vita tra le sue mani, le stesse che prima mi avevano salvato da una macchina in corsa e che ora minacciavano di uccidermi e avrebbero potuto farlo solo per gioco, in qualsiasi istante, anche adesso se avesse voluto e io non avrei potuto fermarlo.
Come potevo combattere qualcuno che non riuscivo nemmeno a comprendere?
Non sarei mai riuscita a farlo. Quella incontenibile e maledetta paura mi paralizzava ogni singolo nervo del corpo. Quale diavolo di persona riusciva ad esercitare tutto questo potere? Chi riusciva a far calare brutalmente il silenzio solo con un truce e minaccioso sguardo glaciale?

Forse una persona che, in fondo, non avevo mai creduto potesse essere umana.

Un grido.
Sentii un forte ed acuto grido rompere quel silenzio, strappare i miei pensieri e graffiare le pareti come unghie sul muro, mentre quest’ultimo mi rimbombò loquace nelle orecchie, che forse già una volta l’avevano sentito.
Ogni cosa, tutto ciò in cui avevo sempre creduto, svanì in un banale e futile istante, uno dei tanti divorato dal tempo, mentre ogni singola mia certezza crollava in un precipizio dentro una terra senza vita, o almeno credevo fosse tale, fino ad ora. Quel verde la stava rapendo, mi stava rubando la realtà, mentre lo vedevo scorgersi da delle palpebre, che un attimo prima parevano custodirlo per sempre e adesso si aprivano nuovamente nel mondo.
Allontanai la mano ancora sospesa su quella di Ally, ma qualcosa, brutalmente, me la fermò e me la strinse con una possente stretta di ghiaccio, minacciando di rompere ogni singolo legamento dentro la mia fragile pelle sorpassata da tremori.

“Aiutami”.

Una parola. Un attimo gettato fugace nel vento. Una chiara figura, troppo pallida per apparire umana, si mise seduta su quello che era il suo letto di morte e con sguardo glaciale mi fissò sofferente, trasmettendomi, in un istante, tutto il dolore e la paura rimasti immutati anche dopo il suo ultimo respiro.

“Aiutami, ti prego”.

Cercai di divincolarmi da quella possente stretta, ma sembrava volesse privarmi della libertà.
Come poteva essere possibile? Lei era morta, dannazione, morta. La gente non torna magicamente in vita.
La sua pelle era fredda e pallida, il suo cuore non batteva, era certa di non averlo sentito.
La morte è la nostra unica certezza, ma se ne siamo privati, cosa al mondo ha ancora significato?
Quella fragile linea che divide il bene dal male, il vuoto dal pieno, quel profondo barometro che li distanzia per sempre si era rotto per sbaglio. Perché tutto questo non poteva essere altro che un emerito sbaglio.

“Allyson”.

Pronunciai il suo nome con voce tremante, quasi come se avessi paura che lei potesse sentirmi. Tutto questo non era reale, non poteva essere vero, doveva per forza essere una dannata illusione, uno stupido scherzo giocato ad una mente stanca e troppo afflitta per riuscire a comprenderlo.

“Non lasciare che mi faccia del male”.

Le sue parole parvero piangere, mentre la paura le si disegnava sul volto e le contorceva i fini lineamenti rendendoli simili alla follia. Ma cos’era che la rendeva così folle? Che rendeva folle tutto ciò che accadeva in questo mondo, che pareva non essere il mio e mi privava degli unici pensieri razionali che mi permettevano di non separarmi da questa inesorabile vita.
Le sue unghie mi penetrarono avidamente nella pelle e sentii gridare tutto quel dolore che colava come sangue su uno scuro pavimento di una chiesa senza Dio.

Lasciami!

Urlai, ma lei parve non sentirmi. Continuava a stringermi per non separarsi dalla sua fragile esistenza, magicamente rinata, senza capire che staccandosi da essa per piombare nella vita, non avrebbe più sentito dolore.

“Lui vuole uccidermi” mi disse, sbarrando i chiari occhi simili al verde che risaltavano su quel vestito scelto della stessa indefinita tonalità. “Lui è un vampiro”.

Mi bloccai per un attimo quando quella frase mi giunse inaspettata alle orecchie, come un accecante fulmine, che con la sua scarica elettrica ferma un cuore e anche se solo in un breve e inutile secondo è capace di uccidere o di cambiare la tua vita per sempre e a volte non riesci neanche a riprenderti da qualcosa che non hai nemmeno visto arrivare.
Quando arriva un fulmine nella vita te ne accorgi, perché non puoi farne a meno.
La sua stretta parve diminuire, ma non riuscii ad accorgermi di quando diventò nulla. Il suo sguardo terrorizzato, nel quale si rifletteva il mio, si posò su un punto al di sopra della mia spalla e quasi riuscii a distinguere delle fragili lacrime scenderle dagli angoli degli occhi e macchiarle il viso, dipinto ancora dal colore chiaro della morte.

“Lui è qui”. Le sue labbra tremarono, mentre pronunciarono quelle brevi, ma coincise parole e parvero pregare la fine di una sofferenza troppo atroce per considerarla umana.
Cercai di capire a cosa si riferisse, ma prima di riuscire a farlo sentii un freddo respiro inebriante come il vento, soffiare in un uragano dietro le mie spalle.

“Adesso è il tuo turno”.

Un ringhio beffardo mi raggiunse, ma troppo velocemente per riuscire a comprenderlo.
Dicono che un fulmine non cada mai due volte nello stesso punto, ma è solo una leggenda, anche se non deve capitare spesso, perché il fulmine quando arriva fa centro la prima volta. Ma ora pareva avermi colpita di nuovo e questa volta mi uccise per sempre.
Mi voltai velocemente verso quella figura per cercare di darle un volto.
Tutti al mondo ne posseggono uno, ma la maggior parte degli uomini sulla terra mente sul proprio, anche se io ero certa di conoscere chi avesse pronunciato quelle glaciali parole, perché già una volta le avevo sentite tra i freddi alberi di un bosco, sotto una notte stellata.

Klaus.

Era lui, anche se forse non ero mai riuscita a vederlo completamente. Il suo pallido viso sembrava lo stesso di sempre, ma era macchiato di un rosso, lo stesso rosso che dipinge la morte.
I suoi abiti scuri erano lacerati da un qualcuno che, forse, aveva cercato di combatterlo, ma era svanito per sempre nel tentativo di fermarlo. Forse perché anche lui, come me, non era riuscito nemmeno a comprenderlo.
Gli occhi erano dipinti del colore del sangue e delle venature gli circondavano lo sguardo, rendendolo così dannatamente minaccioso. Denti simili a delle zanne gli spuntavano dalle labbra contorte in un ghigno malefico, che sembravano appartenere al demone più temibile dell’inferno. Era un mostro. Un mostro dall’aspetto umano.

Lui è un vampiro.

Indietreggiai, ma mi scontrai con quella maledetta bara, che crudele fermò la mia fuga da quell’essere che di umano non possedeva nulla e che ora minacciava di divorarmi.
Mi sorrise avidamente, mentre quel volto terrificante si faceva largo nel buio, attirando a sé ogni singolo maledetto pensiero razionale che mi era rimasto in testa. Ma nulla in questo mondo poteva essere considerato razionale o almeno non più.
Si inumidì lentamente le labbra, come se stesse già pregustando il sapore di un qualcosa che bramava così fortemente da perdere il controllo e mi guardò con gli occhi di chi governa il proprio destino.

“Sogni d’oro, amore” mi disse con voce suadente.

Poi successe in un attimo.
Il suo corpo troppo velocemente raggiunse il mio, che venne sorpassato da un’implacabile forza. Le sue possenti e ferme braccia intrappolarono avidamente i miei polsi. Il suo volto si piegò sul mio collo scoperto, mentre le sue umide labbra, macchiate di rosso, tracciarono una linea invisibile, che mi raggelò il cuore, sottolineandola con la gelida punta della lingua,  per poi decidere l’esatto punto in cui i suoi denti affondarono nella mia carne in un glaciale ed effimero istante.
Il mio grido si disperse sofferente nel vento. Poi il buio mi avvolse come una pesante coperta.

 

* * * *


 
Aprii gli occhi, mentre il respiro mi si spezzò crudele in gola e mi esplose nei polmoni, che parvero gridare in cerca di aiuto. Di un aiuto che, forse, non avrebbero mai ricevuto perché troppo impensabile per essere vero.
Le immagini circostanti mi giunsero sfocate, in quel mondo avvolto dal buio nel quale ero caduta morente, mentre adesso parevo risvegliarmi.
Un dolore mi attanagliava la testa in una morsa tale da farla sanguinare, mentre perle di sudore mi scendevano loquaci dalla fronte e mi toccavano leggere il collo, dove un attimo prima lui…
 
No!
 
Questo non era vero. Dannazione, non poteva esserlo. Era solo un sogno. Uno stupido, dannato ed effimero sogno. Sapevo che non era reale, eppure sembrava così credibile. Come poteva essere solo frutto della mia immaginazione? Era così maledettamente dettagliato, come se stesse realmente accadendo. Come se veramente quel mostro mi stesse uccidendo, prosciugandomi goccia per goccia.
 
Il tuo sangue ha un profumo così…dolce. Non permettere a nessuno di  sottrartelo.
 
Mi presi la testa tra le mani, cercando di arrestare quel flusso di parole, troppo potente per riuscire a comprendere.
Possibile che non riuscissi più a distinguere dove iniziasse il sogno e finisse la realtà?
Come se quella fragile linea che divide l’ordine dal caos si fosse spezzata e ora minacciava di far annegare ogni mia singola certezza per sempre. Come in quel mare scuro che dipingeva il suo sguardo di un colore così simile al nero, come pozzi profondi nei quali si riflettono le stelle, ma macchiati di sangue, di quel rosso che condanna all’epilogo.

Lui è un vampiro.

No, tutto questo non poteva essere reale. Non esistono i vampiri, non devono esistere. Un essere immortale non può essere concepibile, perché nulla la mondo ha il potere di essere maledettamente eterno, perché nessuno può schivare la morte.
Ma se qualcuno fosse realmente riuscito a farlo? A rimanere in vita per sempre e a non invecchiare mai?
Le persone dovrebbero essere chi dicono di essere e non mentire o nascondere chi sono in realtà.
Ma se cessassero all’istante di mentire; il nostro mondo, tutto ciò in cui abbiamo sempre creduto, su cui abbiamo sempre contato e nel quale ci siamo sempre rifugiati, non diventerebbe altro che una dannata menzogna.
Non esistono due verità. Non sono mai esistite. Dovunque si guardi, in qualunque posto ci si trovi, ci sarà sempre ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Quella fragile linea li dividerà sempre, ma se è stata concepita nella menzogna, cosa resterà di vero da separare?

Nulla.

La risposta è nulla. Non ci sarà niente da dividere, niente da denominare o distinguere. Il nero sarà come il bianco. Il Paradiso si confonderà con l’Inferno e le tenebre si mescoleranno alla luce.
Quando l’impossibile si compie resta ben poco da capire.
Il secco rumore di chiavi nella porta risuonò nell’aria, mentre la sedia, sulla quale mi ero addormentata, parve gelarsi al freddo contatto del vento.
Alzai la testa dal tavolo della cucina, quando vidi la figura di mio zio entrare in casa con ancora il camice bianco indosso.
Avevo deciso di aspettarlo sveglia per avere notizie di Ally, ma il sonno mi aveva vinta e ancora una volta quei crudeli ed assurdi incubi mi avevano combattuta.
Mi alzai, ma forse troppo velocemente e un capogiro mi pervase la testa, minacciando di farmi cadere a terra, ma il tavolo, al quale mi appoggiai, sorresse il mio peso e le mani mi servirono come appoggio.
Un lieve bruciore mi pizzicò il dito, premuto su quella superficie e una goccia scarlatta mi sfuggì dalla pelle per macchiare quel legno scuro, simbolo di un ricordo mai esistito, trafitto da una rosa e scivolato col sangue nel più oscuro degli incubi, ma forse non così tanto assurdo.
Come se quella spina mi avesse realmente tagliata e i suoi occhi fossero davvero risultati reali. Gli occhi di un angelo, di un angelo della morte. Gli occhi di un vampiro.

“Alba è tardi dovresti essere a letto.”

La voce stanca di mio zio mi fece ritornare improvvisamente alla realtà e in quel fugace istante ogni singolo pensiero irrazionale abbandonò in parte la mia mente e tutto ricondusse ad un unico, straziante nome, che faticavo addirittura a  pronunciare.

Allyson.

Zio Enry si fece vicino e quasi come se avesse ascoltato il mio pallido sussurro mi poggiò lentamente una mano sopra la testa, accarezzandomi  i capelli scuri.
Una sensazione d’ansia mi pervase, mentre contavo mentalmente il susseguirsi dei secondi su un orologio invisibile, appeso al muro dai fili del tempo, facili da recidere uno ad uno, ma intrecciati in modo tale da formare corde indistruttibili.
Il tempo è indistruttibile. È morto fintanto che è scandito, ma nello stesso istante in cui l’orologio si ferma prende magicamente vita, perché da nessuno potrà mai essere condannato e da nessuno potrà mai essere battuto e di questo ero fermamente convinta.

“Ha perso molto sangue, ma per il momento è stabile” disse con un sorriso forzato. ”Dobbiamo aspettare che si risvegli”.

Un sospiro mi sfuggì dalle labbra, che non riuscirono a trattenere quell’immenso sollievo.
Allyson era viva e tutto quello che avevo pensato non era altro che un incubo. Nulla di reale, nulla di vero. Allora perché mi sentivo ancora così scossa?
Mi ricordai solo allora di lei. Di quella vecchia foto ritrovata nella casa dei miei genitori. Di quel pallido volto illuminato dal sole e di quei glaciali occhi azzurri da poter congelare. Quell’uomo nascosto nella folla, quell’uomo così simile a lui.

Klaus.

Lui è un vampiro.

No. Non è possibile. Non credo a queste cose, non posso crederci. Ma come faccio a negarlo? Come posso non riuscire a spiegare qualcosa di così evidente?
Non esiste la magia, non esiste l’immortalità, ma può esistere qualcuno che non invecchia mai? Qualcuno che cambia in modo inspiegabile? Qualcuno che conosce cose che quelli come me non possono comprendere?

Persone che scompaiono….

Sono solo un’altra persona da cui dover fuggire.

…Ragazze che vengono morse…

Il tuo sangue ha un profumo così…dolce

…Il loro collo macchiato dal sangue…

Saprai solo quello che ti concederò di sapere, nulla di più.

Il terreno parve cedere sotto i miei piedi, mentre quest’ultimi si mossero rapidi verso la mia camera e quasi non mi accorsi neanche dei gradini delle scale, sui quali talvolta inciampavo.
Aprii velocemente l’ultimo cassetto del mio comodino e piegandomi sulle ginocchia la cercai. Cercai quella dannata foto che mi avrebbe finalmente rivelato quell’oscura verità, quell’infida menzogna nella quale avevo sempre vissuto, ma niente. Lei non c’era più. Era scomparsa insieme a quell’unico mio tentativo di sapere cosa c’era ancora di vero in questa assurda esistenza.

 

* * * *


 
L’assordante sibilo di quella campanella trafisse puntuale l’aria attorno al giallastro colore di quegli opachi muri.
Avrei preferito non andare a scuola quel giorno e avrei avuto tutte le ragioni per farlo. Ma forse restare a casa dopo tutto quello che era accaduto non era una buona idea. Più restavo da sola con me stessa e più mi condannavo.
Dovevo far finta di nulla. Dovevo far credere che stessi bene. Niente di difficile, in fondo erano mesi che continuavo. Una giornata in più non avrebbe sortito alcun effetto.
Ma mentire su qualcosa di così importante non mi sembrava un buon modo di andare avanti.
Ero abituata a qualcosa di più banale. Mentire riguardo ai miei sentimenti, alla colpevolezza  che sentivo per la morte dei miei genitori, per la lontananza di Ryan e per questa misera città nella quale dovevo essere finita per sbaglio, ma questo…
Ma in fondo non ero certa che fosse vero, di sicuro non lo era. Possibile che per un istante l’avessi pensato veramente?
Avevo sul serio immaginato che un esistenza terrena potesse essere senza fine?
Ora mi trovavo qui, sapendo che un giorno sarei morta, anche se devo ammettere che alla mia morte non ci avevo mai direttamente pensato. Ma una persona che vive in eterno e non in un banale ed inutile spazio di tempo, dove si può trovare adesso? Che importanza può avere, per lui, un semplice istante? Quali ricordi conserverà dello straziante scorrere del tempo?
 
Un uomo senza ricordi è un uomo senza vita, ma se l’eternità è un’assenza di morte e se la morte fa parte dell’esistenza, cosa può significare vivere per sempre? Quale significato assumerebbe l’eternità?
 
Sarebbe solo un’incertezza, un limbo sospeso per sempre nella sua innaturale bugia. Ma se una persona fosse immortale come può considerarsi tale da aver realmente vissuto?
 
Guardi l’orologio appeso al muro.
La vita alla fine non è altro che uno scorrere di ore. Ma se si ci ferma a pensare un’ora non è molto. Sessanta minuti, tremilaseicento secondi. Tutto qui. Ma per noi una sola ora è capace di cambiare tutto e a volte lo fa anche per sempre.
Era passata un’ora da quando quella maledetta macchina aveva sbandato ed era precipitata giù da un dirupo a quando avevo chiuso gli occhi ed ero convinta che l’avessi fatto per sempre, ma qualcosa era andato diversamente da come avevo immaginato. Qualcosa che forse nessuno aveva previsto.
Ma forse un’ora era una breve unità di tempo, che non tutti, come me, potevano sentire.
Presi i libri che erano rimasti sul banco e li riposi accuratamente nella cartella, cercando in quei semplici gesti qualcosa che mi riportasse alla normalità, ma quel banco vuoto mandò all’aria tutto quanto.
Quel banco che sorrideva attraverso il verde cristallino nascosto in quelle dolci iridi. Quel suo sguardo che talvolta incrociava il mio e dal quale avrei preferito non separarmene mai. Gli occhi di un ragazzo. Forse di un ragazzo qualunque, ma che mi era legato attraverso un’esistenza vissuta troppo soffertamente e quel dolore che condividevamo pareva unirci inesorabilmente come se fossimo ormai un’unica persona, che possedeva un unico cuore ed un unico respiro, che soffiava nell’aria attraverso il sospiro del vento.

Scott.

“Ti sei persa di nuovo nel tuo mondo delle favole?”

Mi voltai, sentendo le profonde parole pronunciate da una persona indifferente, con un tale egoismo da far accrescere un senso indefinito di fastidio.

Samantha.

I ricci capelli ramati erano raccolti in un treccia laterale e le scoprivano i fini lineamenti del viso e gli occhi che sfioravano il colore dell’oro e che erano stati accuratamente truccati dello stesso brillante colore.

“Il felici e per sempre non esistono e dopo ieri notte avresti dovuto capirlo” mi disse, giocherellando con un boccolo lasciato libero dai capelli raccolti. “Povera, piccola Ally è davvero triste, non credi?”

“Non nominarla nemmeno.”

Senza rendermi conto feci un passo verso di lei e mossa da un innaturale senso di rabbia, per le sue crudeli e spropositate parole, parlai con una tale forza che mi sorpresi addirittura di me stessa.
Non la sopportavo. Come poteva parlare di Allyson con una tale indifferenza? Come poteva essere così meschina ed infida da dire cose del genere dopo tutto quello che era accaduto?

Avrei preferito che ci fosse stata lei al suo posto.

Quella frase mi si formò effimera in mente e quasi subito mi pentii di averla anche solo semplicemente pensata.
Non potevo crederci veramente. Non potevo augurare a qualcuno una tale sofferenza. Cosa mi stava succedendo? Perché la rabbia, l’incomprensione e la paura mi spingevano a dire o a fare cosa di cui poi mi pentivo?
Questa non ero io. Non potevo esserlo. Non sono mai stata così. Allora chi diavolo ero? Chi stavo diventando? Perché stava accadendo tutto questo? Perché i miei genitori erano morti ed io ero ancora viva? Perché Allyson era in ospedale, mentre io ero qui?

Il rimpianto ti sta uccidendo. Riesco a sentirlo divorarti pezzo per pezzo.

Quelle glaciali ed effimere parole mi pugnalarono la schiena. Mi avvolsero in una stretta. In un nodo soffocante, che pareva uccidermi.

Continuerà finché non rimarrà più niente di te e farai fatica addirittura a riconoscerti allo specchio.

No! Non poteva essere vero. Quello che diceva quel mostro non era reale, era assurdo. Non mi potevo far condizionare dalle sue parole, da quel suo sguardo glaciale che mi congelava fin dentro le viscere. Non glielo avrei permesso, non gli avrei dato questa soddisfazione. L’avrei sconfitto, ma prima avevo bisogno di comprenderlo. Avrei scoperto cos’era in realtà e giurai a me stessa che una volta fatto. Una volta superato quel confine che mi divideva da quell’incomprensione, solo allora l’avrei distrutto per sempre.

“Io posso fare tutto ciò che voglio, cara” disse Samantha, allibita che una come me potesse risponderle in questo modo. “Non fare l’avvocato delle cause perse, non ti si addice”.

Alzai lo sguardo verso di lei. Mi ero dimenticata la ragione per cui stessimo discutendo, ma ora avevo altro da fare, qualcosa di più importante. Dovevo mantenere una promessa che avevo stipulato con me stessa.
Le sue rosse labbra si tirarono in un ghigno e le sue iridi dorate fecero trapelare un senso di sfida. Come una bambina viziata a cui non importava nulla di nessuno eccetto che per se stessa e che credeva di poter fare qualunque cosa.

“Se fossi in te mi sentirei in colpa per Ally.”  mi disse fissando lo sguardo nel mio, con una tale cattiveria e presunzione, che mi venne voglia di prenderla a schiaffi. “Se è andata nel bosco è colpa tua e di Scott, non mia”.

Mi bloccai per un attimo, sentendo quelle parole. Quelle crudeli parole che mi colpirono in pieno viso, facendo aumentare quel muro di rimorsi, che ormai nascondeva il cielo.

“Perché?” Le chiesi, non riuscendo a capire a cosa si riferisse.

Di sicuro era un suo scherzo, un’altra sua cattiveria. Io non avevo fatto nulla. Allora perché mi sentivo così dannatamente in colpa?

“Perché non provi a pensarci” mi disse lei, sorridendo avidamente. “Secondo me ci arrivi”.

C’era una ragione se Ally si era nascosta nel bosco a pochi passi da noi. A pochi passi da me e Scott, il ragazzo al quale non aveva ancora smesso di pensare. Come potevo essere stata così cieca da non averlo capito?
Come potevo aver permesso che tutto questo accadesse?
Negai. Negai come avevo fatto per tutto questo tempo. Negai anche se avevo capito di cosa stesse parlando.
Dicono che negare sia l’unica chiave per sopravvivere e forse nient’altro può essere definito più vero. Ma siamo così abituati a mentire che dopo un po’ le menzogne cominciano a sembrare realtà. Mentiamo così tanto da non riuscire nemmeno a riconoscere ciò che è vero da ciò che è falso. Come se fossimo noi a scegliere l’esatto punto in cui tracciare quella linea, quasi come se così facendo ci sentissimo al sicuro.
Ma il mondo della finzione è una gabbia, non un luogo in cui ripararci. Non possiamo mentire a noi stessi per troppo a lungo, altrimenti finiamo per credere alle nostre stesse bugie.
Negare l’evidenza significa non avere possibilità di combatterla ed era arrivato il momento che io smettessi per una volta di farlo. Dovevo vedere non solo quello che volevo vedere, ma cosa c’era di veramente reale da guardare.


 
* * * *


 
Chiusi quel libro. L’ennesimo quel giorno e lo riposi accuratamente nello scaffale in mezzo agli altri polverosi di quell’umida biblioteca.
Cosa speravo di trovare?
Cosa volevo ottenere?
Un manuale che mi dicesse se esistevano i vampiri e come si potevano fermare?
Era assurdo che l’avessi pensato anche solo per un secondo. Quanto riuscivo ad essere stupida! Era impossibile che Klaus fosse uno di loro. Creature come quelle non sono reali, anche se la realtà in questo mondo molte volte appare sfumata.
Reale. Mi chiesi a cosa pensassi quando mi riferivo a qualcosa di reale. Forse tutto, forse nulla, ma ero certa che qualunque cosa significasse di certo la risposta non si trovava in uno stupido libro.
Ma allora dove si trovava? Dove diavolo era quella risposta? Nonostante tutti i miei sforzi non riuscivo a trovarla. Non riuscivo a spiegare tutti i miei dubbi e le mie incomprensioni nella mia vita.
Mi sentii come se non fossi riuscita a realizzare niente. Come se tutto quello che avevo creato intorno a me fosse solo un mondo illusorio, che si stava velocemente sgretolando e tutti quei singoli frammenti, che una volta ritenevo importanti e indispensabili, ora si fossero persi. La mia vita si era persa e con lei anche il suo significato.
Ma se è innaturale vivere senza uno scopo la mia esistenza quale fine poteva avere?
Forse era proprio questo il punto. Non avevo paura di Klaus, non avevo paura del suo segreto e nemmeno di quanto fosse pericoloso, quella era solo una scusa. Un ignobile scusa perché quella che temevo di più, in realtà, ero solo io.

Se non riesci più a fidarti di te stessa su chi altro puoi contare?

Se solo potessi chiudere gli occhi, far scendere un ultima lacrima, per poi riaprirli e rendermi conto che tutto questo era solamente un brutto sogno, l’avrei fatto. Dio solo sa quanto l’avrei fatto.
Se potessi tornare indietro. Se potessi lanciarmi in una corsa contro il tempo, per non sprofondare in questa fase della mia vita che si stava lentamente concludendo, lo farei.
Cambierei ogni singola parte della mia storia, ogni singola parola scritta con l’inchiostro indelebile su pagine invisibili, anche se ero a conoscenza che senza storia, ogni singola nostra vita non era niente. Senza ciò che ci forma, senza ciò che ci guida noi non siamo nulla. Ma preferivo non essere nulla piuttosto che essere questo.
Mi sedetti e appoggiai la schiena alla fredda parete alle mie spalle  e respirando a pieni polmoni, ascoltai quell’immobile silenzio che trasmetteva solitudine.
Fu allora che li vidi. Un debole raggio di luce li illuminò.
Erano belli. Quei fiori in quel vaso erano davvero stupendi. Il loro colore viola si espandeva nell’aria e dipingeva fragili ricordi di cui non avevo memoria.

“Perché parli ai fiori, mamma?”

“Perché nessuno al mondo dovrebbe mai sentirsi solo”.

Mi avvicinai lentamente a loro, ascoltando le parole pronunciate da un fragile ricordo perso nel tempo e sentendo quel fugace respiro espandersi nei polmoni e fuoriuscire nell’aria inebriata dal passato e dalla sua dolce voce, che pareva recidere uno ad uno i fili invisibili del tempo, arrivando a toccare il luogo più nascosto del mio cuore.
Mia madre amava i fiori. Sapeva ogni loro singolo nome, ogni loro singola storia e parlava con loro come se fossero vecchi amici. Io la invidiavo, perché non ero mai riuscita a farlo. Non ero mai riuscita a capire come un semplice fiore potesse comprendermi.

Nessuno al mondo dovrebbe mai sentirsi solo.

Ma in quel momento mi sentii la persona più sola che potesse esistere. Una persona sola che viveva di ricordi, come se fossero la sua unica casa.

“Ti piacciono?”

Mi voltai velocemente quando sentii quelle tremanti parole, che non avevo sentito arrivare e vidi l’anziana immagine della signora Miller restare in piedi davanti alla porta, ammirando anche lei i fiori nel vaso, mentre la mia mano posava ancora indecisa sui fragili petali.

“Che cosa sono?” Le chiesi, tornando ad ammirarli incantata.

“Verbena”.

Un nome. Una parola. Un breve istante che mi raggiunse sfuggente. Posai di nuovo incerta la mano su di essi ed ascoltai il brusio del vento che li accarezzava con il suo lieve torpore.
Chiusi gli occhi, cercando di immaginare una loro possibile voce, che parlava attraverso il sussurro del vento. Ma il silenzio parve avvolgerli così come allora.

“Io non riesco a sentirli, mamma”.

“Non devi sentirli, tesoro, devi solo ascoltarli e quando lo farai sarà un giorno speciale”.

Aprii di nuovo gli occhi, cercando di ritornare alla realtà, che quel breve e dolce istante mi aveva portato via.
Ancora la realtà. Parlavo di lei, come se fossi capace di definirla. Ma se non riuscivo nemmeno a distinguerla dalla menzogna, come pretendevo di conoscerla?
Se non riuscivo a vedere quella fragile linea che li divideva, come potevo parlare di qualcosa di reale o illusorio? Se non conoscevo né uno né l’altro, mi restava ben poco da definire.

“Sono molto belli” dissi, voltandomi di nuovo verso la signora Miller, che con passi incerti si avvicinò al piccolo tavolo che accoglieva quel vaso e quei fiori illuminati dal sole.

“Sono anche speciali” mi rispose con un basso tono di voce, che pareva distruggersi su quelle fragili pareti, che incatenavano il nostro silenzio e occultavano segreti nascosti. “Si dice che siano le piante protettrici della mente”.

“Da chi ci proteggono?” Le domandai curiosa di quella storia.

La signora Miller mi guardò sorridente e non curante spostò il viso verso il sole, che illuminò la sua ispida pelle, sorpassata dagli anni.

“Ci proteggono dalle belve del tempo”.

 

* * * *
 

 
Il secco rumore dei miei pugni vibrò sulla parete di quella porta e si espanse impavido nell’aria, attendendo la risposta di un qualcuno, che avevo desiderato così tanto vedere, così tanto incontrare, come se il suo banco vuoto riuscisse, in qualche modo, a svuotarmi anche l’anima.
Ma più che altro avevo bisogno di vederlo. Avevo bisogno di lui più di quanto avessi bisogno di me stessa o di chiunque altro. Avevo bisogno di Scott, perché avevo bisogno di essere compresa, di essere ascoltata e nello stesso istante in cui realizzai quello che provavo, mi accorsi che non potevo farne a meno. Mi fidavo di lui, anche perché non potevo non fidarmi di nessuno.
Dopo quello che era accaduto nel bosco avevo sentito il bisogno di starli accanto, ma forse l’avevo fatto solo per me e non necessariamente anche per lui e questo mi rendeva la persona più egoista al mondo.
Bussai di nuovo, ma nessuno mi rispose. Mi accorsi solo allora che la porta non era chiusa, ma semplicemente accostata e con una lieve spinta riuscii facilmente ad aprirla.
Il lamentoso cigolìo ruppe quel fastidioso silenzio e tra quelle pareti riuscii a scorgere un breve tratto di quella casa.

“C’è qualcuno?”

La mia domanda si perse nel vento, che pareva essere aumentato nell’ultimo quarto d’ora, ma come risposta ricevetti solo un altro dei suoi fugaci respiri. Nessuna voce, nessun sussulto, solo un mortale silenzio.

“Posso entrare?”

Mi avvicinai alla soglia della porta, ma dall’interno di essa non riuscii a scorgere nemmeno una fragile ombra, ma la più acuta immobilità.
Non c’era nessuno in casa, ma allora perché la porta era rimasta aperta?
Feci un altro passo e pestai quella linea sottile che distingueva il dentro dal fuori, come quel fragile confine che distanzia il vero dal falso.
È strano pensare come l’intera nostra vita sia delimitata da linee, da confini invarcabili e pericolosamente proibiti. Come se fossero dei segnali, dei cartelli che anticipano un imminente pericolo, per protezione. Dovrebbero avvertirci. Tenerci lontano da quel divieto. Ma cosa rende più affascinante l’idea di oltrepassarli? Perché è così forte la tentazione di stargli accanto?
Forse per l’entusiasmo di lasciare il noto per l’ignoto. La sicurezza per il pericolo. Come se fosse una sfida che giochiamo con noi stessi. Ma qualsiasi sia la ragione, il più delle volte i confini esistono solo per essere superati.
Feci un altro passo e attraversai quella soglia segno del mio limite, ma non mi volsi nemmeno a guardarla. Proseguii dritto. Mi ero posta una sfida e avevo deciso di giocare.

 

* * * *
 

 
Quella villa era davvero enorme.
Le massicce pareti si ergevano compatte verso l’alto soffitto, adornato al centro da un incomparabile lampadario, che pendeva verso il pavimento in legno pregiato, talvolta occupato da un ampio tappeto ricercato, con i bordi perfettamente lineari.
Dalle bianche finestre pendevano tende di pizzo e un enorme quadro, rappresentate un paesaggio alpino, riempiva per lungo un’intera parete.
Probabilmente mi trovavo nel salone, anche se poteva apparire una casa a sé, perfettamente adornata da mobili laccati di bianco e da divani in pelle cuciti a mano.
Vedendola da fuori avevo immaginato fosse di tale grandezza, ma solo ora che mi trovavo al suo interno, riuscivo a comprendere una simile bellezza, attraverso il mio immenso stupore.
Una spaziosa scala a chiocciola attirò la mia attenzione verso il centro della stanza e con passi incerti la raggiunsi.
Quei gradini parevano in marmo, così chiaro e perfetto da deridere la mia polverosa soffitta e sostenendomi al prezioso corrimano, con una esagerata leggerezza, per paura che si rovinasse, salii lentamente al piano superiore.
Mi sbagliavo se pensavo che niente avrebbe potuto paragonare una simile ricchezza. Il secondo piano pareva ancor più prezioso del primo.
Delle anfore in ceramica erano state accuratamente posizionate nei quattro angoli della casa e ornamenti, simili ad armi, incorniciavano quei muri inviolati, come se fossero la mostra di un museo.
Mi avvicinai ad una piccola scrivania, ascoltando il rumore dei miei passi che risuonavano su quel solido pavimento e vidi lo splendore di quel vetro, che racchiudeva delle foto, testimoni di ricordi intrappolati nel tempo.
Ma di una ne rimasi particolarmente colpita.
L’immagine che racchiudeva non appariva né vecchia né nuova, né piccola né grande, ma di tutto quello che riuscii a comprendere, capii che era estremamente importante.
Un ragazzo, che poteva sembrare della mia età, abbracciava il fratello minore dai chiari e sorridenti occhi verdi, che si confondevano felici in un prato d’erba dominato dal sole.
Lo sguardo azzurro del più grande pareva brillare attraverso la gioia del fratello e i loro capelli corvini si univano indistintamente, come se fossero un’unica persona. Una sola figura racchiusa in una stessa ombra intrappolata al suolo.
I loro differenti sguardi, illuminati però da una stessa luce, erano rivolti verso me, verso quella macchina che li aveva intrappolati in quella foto per sempre, rendendoli immortali. Come se quelle due ombre non si fossero mai separate e nonostante gli anni trascorsi e le promesse fatte, il loro legame continuava a stringere come nodi, tra i fragili fili del tempo invisibile.

“Un volto nuovo in casa mia”.

Mi voltai velocemente quando sentii quella voce alle mie spalle. Probabilmente la casa non era vuota come avevo pensato e ancora una volta mi ero messa nei guai. Non sarei dovuta entrare, non ero riuscita a resistere ad una tale stupidità e ora dovevo accettarne le conseguenze.
Un uomo di corporatura media restava in piedi a fissarmi dall’alto, mentre i suoi chiari occhi azzurri, così simili al ragazzo nella foto, fissavano i miei, mentre brillavano in quella luce soffusa, che albeggiava nella casa.

“Mi…mi dispiace” dissi, con un tale imbarazzo, che parve dipingersi sul mio volto. “Ho visto la porta aperta e…”

“Alba presumo” asserì l’uomo, interrompendo disinteressato le mie scuse e socchiudendo leggermente gli occhi, mentre pronunciò quelle parole. “Scott mi ha parlato molto di te”.

Lo vidi fare un passo verso di me, fino ad allungare il braccio, che sfiorò impavido la mia spalla e sporgendosi verso la mia minuta figura prese quella foto tra le mani. La stessa rappresentante Scott e suo fratello, e la ripose accuratamente nell’esatto punto in cui si trovava prima che io la toccassi.

“Scott non è in casa al momento” disse, tornando a guardarmi negli occhi. “Accidenti, sei davvero identica tua madre”.

L’orologio parve scandire quell’interminabile secondo, mentre quella sorda frase si fece largo tra i miei più ignoti pensieri, al solo ricordo della sua immagine e della sua voce, che come pioggia parlava al giardino, tra interminabili memorie.

Nessuno al mondo dovrebbe mai sentirsi solo.

“Conosceva mia madre?” Gli chiesi a voce bassa, alzando lo sguardo verso i suoi occhi chiari azzurri, tendenti al blu e che risaltavano sulla cornice di quei  folti capelli corvini.

“Si” mi rispose lui. “Sono addolorato per la tua perdita”.

Annuii in silenzio. In fondo sapevo che le nostre famiglie si conoscevano. I miei zii e i genitori di Scott erano stati davvero molto amici in passato. Ma quando le persone che amiamo ci vengono portate via, i legami che si stringono durante la vita paiono sciogliersi e lasciarci con un immenso e vuoto nulla e così doveva essere successo a loro. La morte dei miei genitori, la morte della madre di Scott potevano averli separati per sempre, ma in mezzo a tutto questo dolore riuscivo comunque a sentire un qualcosa di diverso. Un qualcosa che mi spingeva a fare l’opposto. Sentivo quell’ignoto legame che pareva stringersi tra il verde di quegli occhi. Come se io e Scott fossimo uniti da un qualcosa di eterno.

“Sono davvero un maleducato, non mi sono nemmeno presentato” mi disse di nuovo quell’uomo, facendo un altro passo verso di me e porgendomi la mano in modo gentile. “Sono Ethan, il padre di Scott”.

Ethan.

Solo un semplice nome. Uno dei tanti tra la gente comune. Eppure c’era qualcosa di diverso. Un qualcosa che non riuscivo nemmeno spiegare, ma risuonava pulsante nella mia mente come un fragile ricordo, che parve inghiottirmi attraverso un semplice e banale nome familiare.

“Adam, com’è potuto accadere?”

“Non lo so, Eleonor!”

Voci. Nella mia testa si susseguivano voci, spaccando pareti di tempo, che non riuscivano a contenerli.
Voci. Voci a cui poi diedi un volto e mi si dipinsero nella mente, colorando di bianco quegli spazi vuoti e le nostalgiche immagini dei miei genitori presero crudelmente il sopravvento, in quella stanza che una volta occupava la nostra casa.
Piangevano. Ricordo di averli sentiti piangere, mentre mi nascondevo con ancora quell’ingombrante vestito blu dietro il muro. Avevo passato tutto il pomeriggio con Ryan e volevo farli vedere quella stupenda pietra che mi aveva regalato e che io avevo accuratamente nascosto, ma loro piangevano e parlavano di cose che non comprendevo.

“Hai parlato con Ethan?”

“È sconvolto”.

Ethan.
Sussultai quando ricordai finalmente quel nome. Quel nome che mi risultava familiare tra le calde pareti di una casa nascosta nel tempo e delimitata da linee invisibili di un’assurda e fragile esistenza, che ora gridava da un pallido e non così noto passato.

“La bambina non deve sapere nulla. Non è ancora arrivato il momento”.

Indietreggiai, quando fui certa quella memoria mi avesse inghiottita. Non avevo idea di cosa parlassero o di cosa fosse accaduto così tanto tempo fa. Ma qualsiasi cosa fosse successa forse ora era arrivato il momento di capirla.

 

* * * *
 

 
Il vento era davvero aumentato. Lo sentivo soffiarmi addosso, come se mi stesse sussurrando parole che non comprendevo. Come se anche lui avesse una voce e parlasse con me per non farmi sentire sola, perché nessuno al mondo avrebbe mai dovuto esserlo. Ma il più delle volte la solitudine è qualcosa che ci creiamo noi. Una maschera di cinismo che indossiamo solo per non mostrare quanto in realtà siamo vulnerabili.
Ma forse al mondo esisteva qualcuno che la metteva su per un’altra ragione. Forse semplicemente per non mostrare il contrario. Per far finta di credere quanto in realtà non fosse vulnerabile, convincendo la gente di non essere un mostro.
Ogni persona al mondo finge. Sui sentimenti che prova, sul dolore che sente, ma il più delle volte è proprio dietro quelle bugie che si nasconde la verità. In fondo come potremo sapere ciò che è vero se prima non avessimo conosciuto ciò che, invece, è falso? Così come non potrebbe esistere luce senza la propria oscurità, perché entrambe fanno parte di noi ed hanno entrambe un proprio scopo, che detiene il potere dal mondo che creiamo.
Ma quale volto poteva avere l’oscurità? Come potevo riuscire a distinguerla? Ma forse la risposta c’è l’avevo davanti, perché mi accorsi di riuscire a vederla illuminata dal sole vicino a quel sottile lembo di spiaggia, mentre tornavo a casa. In quell’unico luogo in cui ci si sente un nulla davanti all’infinita grandezza dell’oceano. Quel luogo indefinito, colmato da ricordi e da tumuli pensieri, nascosti non più nella terra, non ancora nel mare, ma nello scorrere del tempo. Nel tempo che passa e basta.
Quando dai un volto alla tua oscurità la luce intorno a te pare svanire, perché finalmente hai saputo distinguerla.
Scott poteva somigliare alla mia luce. A quella calda luce che acceca il dolore. Mentre quei freddi e chiari occhi azzurri, ora rivolti verso il mare, parevano inghiottirmi nelle tenebre. Gli occhi apparentemente di un angelo, di un angelo che però portava alla morte. Gli occhi di Klaus. Quelli di un vampiro.

“Sai cos’è bello qui?”

Abbassai lo sguardo, quando il vento soffiò fugace sui rami di un albero poco lontano e quel lieve fruscio mi giunse inaspettato, come se mi stesse raccontando storie. Storie che rievocavano ricordi.

“Che cosa Ryan?”

La voce mi era uscita serena, mentre mi ero voltata verso la sua figura. Verso quegli occhi da bambino nei quali si riflettevano i miei.

“Guarda la sabbia, Alba. Guarda le nostre impronte”.

Aveva deciso di andare al mare quel giorno e aveva fatto di tutto purché ci andassi anche io. Allora non avevo capito perché, ma immagino volesse dirmi della sua partenza. Anche se probabilmente, alla fine, non c’era riuscito. Non era riuscito nemmeno a dirmi addio, l’avevo scoperto da sola la mattina seguente.

“Guarda come loro restano lì ordinate e precise”.

Ricordo di essermi voltata a guardarle. Le nostre erano le uniche, forse perché era fin troppo presto. Doveva ancora nascere l’alba, ma non riuscivo a comprendere a quale significato alludesse.

“Domani ti alzerai, guarderai questa grande spiaggia, ma non ci sarà più nulla. Perché il mare le avrà cancellate, tutte quante”.

Mi ero voltata verso di lui. Verso il suono delle sue tristi parole, mentre il suo sguardo pareva lontano, perso tra le scure onde in un istante di passaggio.

“È come se da qui non fosse mai passato nessuno. Come se noi non fossimo mai esistiti. Ci hai mai pensato?”.

Avevo scosso la testa. No, non avevo mai pensato a qualcosa del genere e anche allora non ero riuscita a farlo. Non riuscivo a capire come qualcuno che non credeva nei sogni, potesse dire qualcosa di altrettanto triste. Come da quegli occhi di bambino potesse trapelare così tanta sofferenza.

“Noi saremo gli unici a conservare questo momento, Alba e il nostro ricordo ci renderà immortali”.

Aprii gli occhi, mentre quel soffio del vento parve diminuire e non più scuotere quei sottili rami, nei quali si disegnavano memorie.
Era come i fiori. Questa volta ero riuscita a sentirli, ero riuscita ad ascoltarli, ad ascoltare ciò che loro avevano da raccontare e mi resi conto di non sentirmi più così infinitamente sola.

Quando lo farai sarà un giorno speciale.

Era il mio giorno speciale. Doveva esserlo e in quel momento mi resi conto di ciò che dovevo fare, di ciò che mi restava ancora da comprendere.
Cambiai strada e mi diressi verso l’unica persona che ancora non ero riuscita a capire. Verso quegli occhi azzurri oltre i quali non ero riuscita a vedere, finché mi ritrovai sulla stessa spiaggia di quella maledetta festa, vicino a quel bosco dove ancora si potevano udire le urla assordanti di Allyson.
Tra non molto ci sarebbe stato il coprifuoco. A nessuno sarebbe stato permesso uscire per la città, non dopo l’attacco di ieri sera.
Un animale, avevano detto. Un lupo che si aggirava nel bosco. Non ne ero certa, ma sapevo che qualsiasi cosa fosse stata ad aggredirla, di umano non doveva possedere nulla, perché era soltanto una belva. Una belva del tempo.
La sua immagine mi dava le spalle, mentre il suo pallido viso perfetto era rivolto verso il mare. Se era davvero immortale come pensavo quello doveva essere l’unico luogo nel quale anche lui si sentiva un nulla. Un nulla di fronte all’eterno scorrere del tempo, che veniva scandito attraverso la spuma bianca delle onde infrante nel mare, in un sottile lembo di terra, non del tutto privo di vita.
Se anche lui, come me, si sentiva un nulla, le barriere che ci dividevano venivano all’istante distrutte e ciò ci rendeva molto più simili di quello che pensavo. Due anime nude che potevano reciprocamente comprendersi.
Restai immobile a qualche metro da lui, come se così potessi accorgermi di ciò che nascondeva, all’inizio di quella spiaggia che poteva marcare la linea del mio limite, ma io l’avevo superata e questa volta non avrei più potuto tornare indietro.
Il nero lucido dei suoi abiti scuri era in contrasto con la sua chiara carnagione illuminata dal caldo sole, come se si stesse riflettendo in fredde pareti di ghiaccio, immobili ed immutabili nel tempo.
La sua estrema bellezza non penso di riuscire in qualche modo a descriverla. Sembrava risaltare su tutto il resto del mondo, con la sua indifferenza e la sua crudeltà di chi ormai non possiede più un cuore. Ma un corpo privo di cuore è un corpo privo di vita. E forse in lui la vita non era altro che un pallido ricordo.

“Posso fare qualcosa per te, sweetheart?”

Sussultai quando sentii quelle glaciali parole giungermi in un turbine attraverso quel forte vento.
Mi aveva sentita. Dannazione, si era accorto di me, ma stranamente non aveva nemmeno voltato la testa. Era impossibile che se ne fosse davvero accorto. Non poteva esserci riuscito veramente, a meno che lui non fosse…

“Ho capito” gli dissi, alzando leggermente la voce, in modo che si sentisse tra il sordo urlo del vento. “Ho capito ogni cosa”.

Solo allora lui girò la testa, come se avesse ritenuto importanti le mie parole da colpire la sua attenzione. Ma anche quando si voltò, dai freddi occhi azzurri non riuscii a scorgervi sorpresa né stupore, solo il freddo e impassibile nulla. Come se nessuna emozione lo stesse attraversando. Come se davvero fosse privo di sentimenti. Ma poteva esistere una persona che non provava niente? Perché ero certa che anche il più crudele del mondo talvolta li sentiva, a meno che quella persona non fosse stata umana.

“Allora come puoi essere così sciocca da venire fin qui?”

Le nostre immagini erano troppo distanti, così lontane che sembravano appartenere a due realtà differenti; la mia e la sua. Così diverse da scontrarsi eppure, così necessarie per completarsi.
Siamo perennemente attratti da tutto ciò che ci può far del male, ma il vero problema è che ne siamo perfettamente coscienti. Io forse ero già a conoscenza del segreto di Klaus e anche di quanto lui fosse pericoloso, ma non sarei mai riuscita a frenare quell’indescrivibile impulso che mi spingeva perennemente verso i suoi occhi di ghiaccio. Anche se ci provavo con tutta me stessa non riuscivo a stargli lontana. La sua oscurità attirava la mia e le nostre ombre parevano ballare sulle impronte di una spiaggia, che il mare avrebbe cancellato per sempre e quell’assurda melodia sarebbe durata ancora, rendendo immortale il nostro ricordo.

“Perché non ci credo” dissi a mezza voce, guardando la sua alta figura, che lentamente e con passo calcolato si avvicinava alla mia. “Tutto questo è impossibile”.

I suoi occhi di ghiaccio parevano aver preso una tonalità. Ora erano più simili al nero. Così scuri, ma al contempo così seducenti da rendermi impossibile l’idea di fuggire. Di fuggire da quel mostro che piano si stava avvicinando. Da quel mio incubo che mi stava inghiottendo e lui sembrava averlo capito.

“Non esiste possibile o impossibile, amore” disse in sibilo che si confuse nel vento. “Esiste solo quello in cui scegli di credere”.

No. Come potevano non esistere? Come potevano essere solo una mia scelta? Il giusto o sbagliato non sono scelte, sono regole. Delle importanti regole che definiscono chi siamo. Quando le infrangiamo rischiamo di smarrirci e di diventare qualcosa di sconosciuto, per questo devono essere vere, altrimenti regnerebbe il caos.
Ma forse anche io mi ero smarrita, anche se sapevo la ragione per la quale mi trovavo in quella spiaggia. Forse semplicemente perché non riuscivo ad immaginare come una persona così meravigliosa potesse essere in grado di fare cose così tanto orribili.

“No, tu sei qui perché speri che io ti dica che quello che pensi non è reale”. Il suo scaltro sorriso parve ingrandirsi, come se davvero ascoltasse i miei pensieri. “Non è forse così, tesoro?”

Abbassai velocemente la testa, quando la sua veritiera frase mi scalfì il cuore. Il suo rumore si disperse nell’aria e il suo demone parve rapirlo per sempre.
Un boato esplose nel cielo, mentre foglie turbinavano tra gli alberi da cui erano appena state portate via e i loro rami picchiavano con furia quell’aria che gridava.
Klaus si fece più vicino e riuscii a distinguere tra quel gelido soffio il suo volto. Il suo sguardo era ancora più tetro e forse ancor più scuro di quanto già non fosse.
Non credo di aver mai riflettuto sul concetto d’Inferno, ma se esisteva veramente lui ne faceva parte.

“Cosa sei?”

Quella domanda mi uscì spontanea, mentre guardavo immobile la sua crudele immagine diventata troppo vicina. Così dolorosamente vicina da poter sentire il mio sangue che colava, mentre veniva attratto dal magnetismo del suo sguardo e con lui tutta me stessa.

“Guardati intorno Alba” asserì scaltro Klaus, evitando la mia domanda. “Sai dove ti trovi?”

Sussultai incredula per un attimo, quando mi accorsi di dove realmente mi trovavo. File di alberi uguali parevano inghiottirmi, mentre i loro lunghi rami si sporgevano verso me come affilate dita verso il cielo.
Ero nel mezzo del bosco, quello che costeggiava la spiaggia. Non mi ero nemmeno resa conto di come avevo indietreggiato per sfuggire a quegli occhi neri e come una pedina mi ero mossa nella sua immensa scacchiera, nel luogo in cui lui stesso voleva che finissi.

“Se io fossi quel tipo di mostro non ti troveresti in un luogo sicuro, lo sai?”

Come avevo potuto non accorgermene neanche. Come avevo potuto seguirlo in un luogo del genere. Ero sola, dannazione. Sola. Nessuna anima viva c’era nel bosco. Nessuno a cui avrei potuto chiedere aiuto, nessun luogo nel quale avrei potuto fuggire. Mentre quella sua alta figura avanzava lentamente verso la mia tremante, dando inizio a quella fine, che pareva disegnarsi negli angoli del cielo cupo, tra quelle lunghe ombre che segnano l’inizio della notte.

“Cosa sei?”

Non riuscii a capire nemmeno di dove trovassi ancora la forza di parlare.
Si dice che non esistano due emozioni forti come la paura e l’amore. Anche se non sono molto diverse, perché entrambe, alla fine, possono portarti a fare delle follie. E tutto questo non poteva essere altro che una dannata follia. Ma se folle è colui che vive cercando la felicità, chi può essere quello che esiste desiderando il contrario?
Il volto terrificante di Klaus parve illuminarsi a quella mia domanda, come se non stesse aspettando altro di darmi quella risposta. Quella dannata risposta che avrebbe cambiato la mia vita per sempre.
Quel suo sorriso si disperse nel vento, che lo portò fino a me attraverso quell’affilato grido, che s’imbatteva perspicace sulle foglie sottili, che cadevano da rami spogli e privi di vita, come poteva apparire quel nero dei suoi occhi, talvolta circondati da linee sottili che gli incorniciavano infide lo sguardo.
Tutto esattamente com’era accaduto nel mio sogno.

Non lasciare che mi faccia del male.

Indietreggiai, quando la voce di Ally risuonò inaspettata nelle mie orecchie.

Lui vuole uccidermi.

Indietreggiai ancora quando l’incubo di quel sogno parve unirsi all’incubo che divorava la realtà. Stava accadendo. Tutto stava accadendo come doveva accadere e quella consapevolezza parve graffiarmi il cuore con unghie affilate.

Lui è un vampiro.

Un effimero albero bloccò la mia fuga. Mi fermò da quel tentativo di fuggire, ma molto probabilmente non sarei mai riuscita a farlo.
Non l’avrei mai fatto, perché c’era qualcosa in lui che non me lo permetteva. C’era qualcosa in Klaus, che nonostante la paura che mi faceva provare. Nonostante il terrore che mi faceva sentire, mi accorsi di non riuscire a vivere senza e quando un sentimento è così intenso può distruggere per sempre.

“Sono il predatore più pericoloso che ci sia al mondo. Il demone più temibile dell’inferno” pronunciò la sua bocca rossa e attraverso quelle labbra scarlatte riuscii a distinguere denti simili a zanne. “Sono un vampiro”.

Vampiro.

Il tempo parve fermarsi. Il vento mi trafisse gli occhi e il battito incessante del mio cuore parve smarrirsi per sempre.

Vampiro.

Quella singola parola mi trafisse come spilli la mente, che parve gridare in cerca di aiuto, in una selva senza uscita nel quale sarei caduta morente. Ma prima di allora, prima ancora di cadere, lui mi avrebbe sorretto solo per aumentare quella mia lunga ed incessante agonia.

Il tuo sangue ha un profumo così…dolce.

Sono solo un’altra persona da cui dover fuggire.

Lui è una belva del tempo. Lui è un vampiro.

Il mondo parve crollarmi addosso, mentre sentivo i suoi frammenti spezzarsi per sempre, facendomi annegare in quella menzogna nella quale avevo sempre vissuto.
La sua figura si avvicinò ancora alla mia e quasi riuscii a sentire il suo freddo sospiro sorpassare impavido il rumore del vento. Ma non riuscivo a fuggire, non riuscivo a smettere di stargli accanto. Come se volessi quel respiro. Come se fosse l’unica cosa di cui avevo bisogno e che desideravo ardentemente.

“Ogni singolo aspetto di me ti attrae, tesoro” disse con il suo tono di voce marcato e talmente suadente, che quasi mi tolse il respiro. “La mia voce…”

Quelle parole mi giunsero come un pugnale e mi entrarono dentro la pelle come un dolce veleno. Un dolce veleno che parve raggiungermi il cuore in una morsa violenta, talmente potente da farmela desiderare al punto di poter morire.

“…il mio sguardo…”

I suoi occhi neri fissarono i miei, facendomi accorgere di quanto fosse diventato vicino. Troppo vicino. Così dolorosamente vicino da riuscire quasi a toccarlo. Ma forse non lo era ancora abbastanza. I suoi occhi erano ancora troppo lontani. Volevo sentirli di più.  Li volevo ancor più vicino. Volevo rispecchiarmi in quei pozzi neri come la notte. Ne avevo bisogno, e quel desiderio così forte mi fece piangere lacrime di sangue.

“…il mio profumo…”

Klaus piegò la testa ancor più vicina alla mia e un odore simile al miele m’invase i polmoni. Lo sentii diffondersi dentro il mio corpo, come se fosse il profumo più buono che esistesse al mondo. Come se fosse diventato improvvisamente l’unica aria che potevo respirare. L’unico ossigeno che mi permetteva di vivere. Volevo sentirlo. Volevo provarlo. Volevo assaporarlo sulla mia pelle. Ma era ancora troppo lontano. Così lontano da provocarmi dolore. Ma non dovevo cedere . Lui era un mostro. Un vampiro.

“…le mie labbra…”

Il suo volto ormai mi sfiorava e il nostro soffio parve confondersi in un unico respiro, disperso nel vento. Sentivo il suo ampio petto comprimere il mio e quella fitta parve essere la più dolce che avessi mai avuto.
Non riuscivo a resistere a quel rossore. Non riuscivo distaccare lo sguardo dalle sue labbra carnose. Così maledettamente piene. Così maledettamente vicine. Così perfette che non riuscivo a distogliermi, non riuscivo a separarmene, non riuscivo a fare semplicemente nulla. Non volevo farlo. La brama di sentirlo. La brama di averlo, era così forte, così violenta e potente, che quasi il cuore mi scoppiò nel petto. Fremendo per quell’incontenibile desiderio, che mi stava logorando pezzo per pezzo.

“Non potrai mai riuscire a sfuggirmi, amore” disse sussurrandomi sulle labbra, che quasi riuscii a sentire il loro dolce sapore, che mi fece tremare. “Perché non potrai mai riuscire a respingermi”.

Chiusi gli occhi. Volevo respingerlo, dovevo farlo, ma non…non potevo, non volevo. Dannazione perché non riuscivo a controllarmi, perché diavolo mi trovavo ancora lì, perché non ero fuggita quando avevo avuto l’occasione? Perché forse in fondo non lo avevo mai desiderato veramente.
Una lacrima argentea mi scese dalle palpebre serrate e fulminea mi percorse lo zigomo, per poi scivolare giù per il mento, percorrendo bollente la calda linea del collo, dove palpitava il sangue fremente all’interno.
Sentii il volto di Klaus abbassarsi, finché non riuscii più a sentire il suo respiro soffiare sul mio, quasi come se fosse una mancanza. Una dolorosa mancanza che mi privò della vita.
La sua bocca si avvicinò al mio collo, così crudele ed invitante che mi fece tremare. Le sue labbra fermarono la mia lacrima, che ancora scorreva copiosa sulla mia pelle, scandendo quel breve attimo con il dolce suono di un bacio. Un dolce bacio di una belva del tempo.

Lui è un vampiro.

Forse voleva uccidermi. I vampiri si nutrono di quello. Si nutrono del sangue. Ne avevano bisogno e fremevano per quel desiderio come io per la sua vicinanza.
Forse ora sapevo troppo. Forse ora non mi era più permesso di vivere. Avevo sorpassato così tanto quella linea, che non mi era rimasto più nulla.
I miei sussulti attirarono la sua attenzione e lo distolsero dal mio collo dove ancora posavano le sue labbra carnose.
Il suo pallido volto prese di nuovo posto davanti al mio e il nero dei suoi occhi venne circondato da scure venature, che lo rendevano così spaventosamente cupo.
Le sue fredde mani circondarono avide il mio viso e si bagnarono di tutte quelle lacrime che non mi ero accorta di aver fatto sfuggire.

“Non piangere, piccola” mi disse asciugandomele con la punta dei polpastrelli. “Non permetterei mai che tu senta dolore”.

Tremai. Tremai davanti alla sua figura. Davanti alle sue mani all’apparenza protettive, ma non riuscii ad avere la forza di separarmene. Se gli stavo lontano parevo morire, ma se gli stavo vicino lui mi uccideva ogni giorno.

“Non devi temere” asserì sorridendo avidamente. “Perché lo farò con estrema dolcezza”.

Quelle parole mi trafissero il cuore. Me lo presero e me lo strinsero in una morsa di ghiaccio, così forte che riuscii a sentirlo sanguinare e quel dolore fu come un veleno. Un’agonizzante veleno, che attraverso quella dolce morte, sembrava farmi rivivere.

“Se non divori ciò che desideri prima o poi impazzisci”.

Un brivido mi corse fugace per la schiena quando il dolce profumo di Klaus tornò a inebriarmi delizioso i polmoni. Le sue labbra sfiorarono di nuovo il mio collo e il suo soave respiro soffiò sulla mia pelle, uccidendomi per sempre.
Tremai, sentendo la sua possente forza sovrastare la mia, come un uragano in una violenta tempesta. Come le onde lontane nell’oceano, che si distruggevano come sabbia mossa dal vento, in un solitario deserto.
Ecco dove mi trovavo. Non in un bosco, non in questa spiaggia, non in questa vita, ma in una desolata landa di terra privata dal sole. In un mondo folle vissuto per troppo tempo nell’oscurità e i miei occhi si erano talmente abituati al buio che ora parevano ciechi.
Mi sentii circondare le spalle dalle sue braccia, mentre mi trovavo così vicina a lui.  Così vicino a quella bocca scarlatta, per la quale forse sarei potuta morire e l’avrei anche fatto o almeno ancora per poco.
Chiusi gli occhi e li serrai così forte da provocarmi dolore. Un dolore che sanguinava come lacrime giù dal mio viso. Un dolore così violento, così forte, ma al contempo così dolce e necessario, che non riuscivo quasi a farne a meno.
Sentii le sue labbra schiudersi appena sulla mia pelle e un sospiro di paura e desiderio m’invase il corpo tremante, mentre attendevo quella fine come se fosse già stata scritta. Come se fosse già stata decisa ancor prima che nascessi.

“Ora mi appartieni”.

Un empio sussurro m’invase sofferente le membra. Un’agonia mi raggelò il cuore e un breve attimo, scandito dal tempo, parve essere mortale per entrambi.





Buongiorno a tutti :)

Volevo innanzitutto scusarmi per l'immenso ritardo con cui ho aggiornato, spero comunque di essermi fatta perdonare ^^

In questo capitolo Alba finalmente ha scoperto il segreto di Klaus e vi anticipo che il prossimo s'incentrerà particolarmente su loro due con qualche rievocazione del passato della ragazza.

La storia del legame di Ethan, il padre di Scott, e della famiglia di Alba verrà affrontata molto presto.

Penso di aver detto tutto. Mi piacerebbe davvero tanto sapere cosa pensate di questa storia: se ci sono delle cose poco chiare o da cambiare ditemelo pure, sarò più che felice di rispondervi.

L'immagine in alto ovviamente non è opera mia, ma di Elyforgotten che ringrazio infinitamente!!!

Ancora non so quando aggiornerò, ma credo di farlo comunque molto presto (questa volta dico su serio xD)

Ringrazio tutti coloro che trovano il tempo di leggere e recensire questa fanfiction e a chi l'ha inserita tra le preferite/seguite/ricordate. Davvero grazie a tutti di cuore :) 

Alla prossima. Buon pomeriggio e buona festa del papà :) 














 
  
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