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Autore: Glory Of Selene    20/03/2013    2 recensioni
E' una missione che non può essere rifiutata.
"Voglio Kakashi Hatake. Portatemelo qui.
Vivo?
So che sarebbe impossibile. Il suo cadavere mi basta.
"
Un cacciatore esperto, si muove nell'ombra.
Kakashi non è abituato ad essere preda, nè a rimanere sempre un passo indietro a qualcuno.
Kakashi non è abituato a molte cose. Non è abituato, per esempio, a provare amore.
"«Chi pensi verrà?»
«Qualcuno in grado di valutare le nostre intenzioni e la nostra pericolosità. Hatake Kakashi, sicuramente.»
«E tu come fai a dirlo, si può sapere?»
«La nostra guida è in ritardo.»
«In rit… oh». Un attimo di silenzio, poi: «Quindi tu l’hai letto tutto, il fascicolo che ci hanno dato su di lui.»
«E tu non l’hai fatto perché tanto sono io che devo occuparmi di lui.»
«Lo sai? Sei la persona più saccente che conosca.»
"
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gai Maito, Kakashi Hatake, Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
Capitoli:
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Reiko si sbatté la porta alle spalle.
Si prese la testa con le mani, e crollò a sedere appoggiata alla parete.
«Chi è?»
La ragazza non rispose.
Come aveva fatto? Come aveva fatto quel ninja a distruggere tutte le barriere che avevano tenuto imbrigliati i suoi sentimenti fino ad allora?
«Reiko!»
Non alzò lo sguardo, ma sentì che il compagno aveva la bocca piena. Stava mangiando.
«Come diavolo fai a farti venire fame a quest’ora di notte?»
Sì, le ci voleva un bel battibecco. Una cosa che sapeva di normalità, che l’avrebbe illusa del fatto che nulla era cambiato dentro di lei.
Ma lui era diventato bravo a ignorare le provocazioni.
«Non ti aspettavo, credevo stessi sorvegliando l’obbiettivo.»
L’obbiettivo… La ragazza fu scossa da un brivido, senza sapere nemmeno il perché.
«Domani si va in scena, te lo ricordi?»
«Sì, lo so!» esclamò con uno scatto rabbioso. Si alzò, superò il compagno senza alzare lo sguardo su di lui per andare a rifugiarsi in bagno. Accese la luce, si appoggiò al lavandino. Aveva paura di guardarsi allo specchio, non voleva vedere che espressione aveva in viso.
«Ehi, cos’è successo al tuo vestito?»
Daisuke l’aveva seguita e si appoggiava allo stipite della porta con una spalla.
«Un ubriaco in cerca di ragazze di cui approfittarsi.»
Lo sentì ridere. «Avrei voluto esserci!»
Anche lei, suo malgrado, sorrise. «Non farti venire strane idee.»
«Sogna quanto vuoi, mia cara, tanto non sei il mio tipo.»
Questa volta risero insieme.
«Non sono ancora pronta, Daisuke.» sussurrò dopo un attimo. Non ebbe il coraggio di guardarlo in faccia mentre lo diceva, ma il silenzio che seguì la sua ammissione fu esplicito di qualsiasi altra risposta.
Era una codarda, e lei lo sapeva. Una debole, e sapeva anche questo.
«“Più in fretta facciamo” e bla bla bla? Ha! Lo sapevo che non avresti completato gli appostamenti in soli due giorni, miss “sono bella, brava e impiegherò meno di una settimana a fare fuori uno dei ninja più conosciuti di Konoha”. Così impari a darti tutte quelle arie.»
Reiko alzò, stupita, lo sguardo su Daisuke. Ricevette un occhiolino. «Scemo io che non ho pensato a una scommessa. C’avrei proprio fatto un bel gruzzoletto a quest’ora, già…»
Se n’era andato, ma lei sentiva ancora vive le sue parole, che nascondevano qualcos’altro dietro le consuete frecciate. Un “grazie”, sussurrato a mezza voce alla propria immagine riflessa, fu d’obbligo.
Nessuno dei suoi compagni l’aveva mai capita, prima.
 
***
 
«…E queste sono tutte le missioni in programma per la prossima settimana, le ho appena smistate io stesso. Dateci un’occhiata.»
Arrivò Iruka a prendere i fogli dalle mani del Terzo Hokage e a distribuirli ai jonin presenti.
Kakashi prese i suoi e se li mise davanti con tutta la buona volontà del mondo, ma non riuscì a leggerne nemmeno una riga. Sospirò, e spostò lo sguardo sulla finestra dell’ufficio dell’Hokage.
Pioveva. Non succedeva spesso a Konoha.
 
Reiko aprì le imposte della stanza. Una delle tante cose che amava della pioggia era l’aria che si lasciava dietro. Faticava ad immaginare qualcosa di più puro.
Si sporse con la testa fuori, per sentire le gocce sulla pelle, chiuse gli occhi e sorrise impercettibilmente. Tutti loro avevano dovuto abituarsi ad accontentarsi di poco per essere felici, ma quando quel poco arrivava, la gioia non poteva essere paragonata con quella delle persone che invece la potevano gustare ogni singolo giorno della loro vita.
Ti capisco.
È dura.
Era stata veloce, quella voce, ad infrangere l’unico istante in cui aveva deciso di prendersi una tregua dal dolore. Ritirò la testa, il sorriso ormai scomparso. Perché le erano venute in mente quelle frasi?
Chiuse i vetri e tornò nella camera da letto.
Aveva compiuto uno degli errori più grossi della sua vita a voler parlare con lui. Maledetta la sua curiosità, che l’aveva indotta a conoscere sempre di più il suo obbiettivo, a comprenderlo, ad entrare nella sua vita. Si era ritrovata già abbastanza problemi con i sentimenti quando la sola cosa che conosceva della sua vittima erano le capacità, era perfettamente a conoscenza di che cosa sarebbe successo se avesse cercato di approfondire. Ma l’aveva fatto lo stesso, e sentiva quella volta c’era qualcosa di più, non semplice compassione.
Gli voleva bene.
Si rannicchiò nel letto e si nascose sotto le coperte, come a voler scappare da quella nuova e terribile consapevolezza.
Era arrivata a volergli bene, per come gli brillavano gli occhi quando poteva leggere quel suo dannato libro, per come spesso si estraniava dal ciò che lo circondava per inseguire la scia di pensieri e ragionamenti che potevano essere solo suoi, per come fosse letale e intelligente in battaglia, ma goffo e a disagio nei rapporti con le altre persone. Per la maschera che gli nascondeva perennemente i lineamenti, per il pudore che provava nei confronti del proprio volto e delle proprie emozioni.
Era un fenomeno sottile, ma perentorio; e lei non poteva fare nulla per combatterlo.
Si alzò nuovamente dal letto, aveva sperato di poter riprendere il sonno ma si era resa conto che non ci sarebbe più riuscita. Per un po’ di tempo vagò nella stanza, incapace di uscire, incapace di rimanere dentro un minuto di più, finché non si rifugiò in bagno nella speranza di farsi una doccia e darsi una calmata.
Tentò di concentrarsi al massimo su ogni minimo gesto, per evitare che i pensieri tornassero sull’argomento.
Cominciò con lo sfilarsi i pantaloni. Caddero a terra dolcemente, si afflosciarono con un rumore lieve, non si chinò a raccoglierli. Li lasciò dov’erano.
Se almeno avesse potuto fuggire, l’avrebbe fatto. Non chiedeva vendetta, non chiedeva potere, né soldi, né fama. Non chiedeva una brillante carriera, voleva solo vivere lontano. Lontano, da tutto, dai ninja, dal sangue, dai kage, dalle armi, dal chakra, dai sigilli, dalle tecniche.
Portò le mani dietro la schiena, tirò lentamente il nastro argenteo che le cingeva la vita, finché non finì al suolo anch’esso lasciando la casacca blu a drappeggiarle mollemente sulle spalle.
Ma non poteva.
Se la tolse con uno scatto, non c’era più traccia di dolcezza ora. Con la stessa foga si strappò il fermaglio dai capelli e si sciolse la treccia, e una cascata di capelli neri e arruffati andò a ricaderle sulla schiena e sui fianchi.
Guardò la propria immagine nello specchio con una smorfia di rabbia.
Il sigillo che le solcava gli avambracci era nero e adunco, sembrava un antico rampicante che una volta era stato magnifico, ma che era diventato morendo spettrale e spigoloso. Era perfettamente simmetrico, persino negli ultimi piccoli simboli all’estremità dei gomiti, dai quali partivano poi due linee diritte e sottilissime, che le delineavano le spalle, le percorrevano lo sterno e andavano infine a congiungersi in un punto preciso a metà strada tra il seno e l’ombelico. Lì si trovava il vero simbolo del sigillo, una sorta di sole stilizzato, che conteneva un paio di parole talmente piccole da essere impossibili da decifrare.
Per colpa di quella cosa non poteva fuggire.
Aveva preso tempo con Daisuke, ma sapeva fin troppo bene che non avrebbe potuto temporeggiare per sempre. I ritardi non erano mai stati ammessi, e non aveva possibilità di ribellione.
Ecco, una cosa che l’aveva sempre fatta impazzire di rabbia, l’impotenza.
Era sempre stata impotente su tutto. Sul suo destino, sulle tecniche che avrebbe dovuto imparare, sulle persone che avrebbe dovuto frequentare. Non poteva scegliere se rifiutare una missione, e si ritrovava a non poter scegliere nemmeno in quel momento, se voler bene o meno a quello schifosissimo Kakashi Hatake.
Perché il destino si ostinava a volerle negare qualsiasi scelta?
Sferrò un pugno al muro accanto allo specchio. Quando ritirò la mano vide che era rimasta l’impronta delle sue nocche, ed ebbe un sorriso feroce e amaro allo stesso tempo.
Sarebbe bastato eliminare il sigillo. Dicevano che solo chi l’aveva impresso avrebbe potuto scioglierlo…
Si chinò a raccogliere un kunai dai pantaloni.
 
«Dio santo, ma quanti cavolo di fogli ci vogliono per le missioni di una sola settimana? Vorrei tanto sapere poi perché li ha dati a me, ci mancava solo la burocrazia per darmi il colpo di grazia.»
«Ma stai zitto, che se non altro tu quando torni a casa ti ritrovi in dolce compagnia. Ad aspettare me invece c’è solo quel mostro orrendo della mia vicina di casa… Non capisco davvero come una donna possa essere così tanto brutta, sul serio, è al limite del paranormale! Secondo me non è umana.»
«Disse quello che aveva un’enorme cicatrice sulla faccia.»
«Almeno io mi sporco le manine, tesoro della mamma!»
«Quasi quasi li rifilo a Gai. Se gli dico che per diventare un ninja infallibile se li deve smazzare lui, scommetto che lo fa.»
«Oppure potresti darli a Kakashi, dato che questa settimana l’unica cosa che ha fatto è stata abbioccarsi sulle mura del Villaggio e girare insieme a due loschi figuri.»
Raido aveva volutamente marcato sul nome dell’amico, di certo per attirare la sua attenzione, ma il copia-ninja non sembrava per niente interessato alla conversazione, anzi, i due jonin che camminavano insieme a lui avevano il forte sospetto che si fosse perso ogni singola parola.
«Non è vero, Kakashi?» rincarò Asuma mollandogli una forte gomitata sul fianco.
Kakashi ebbe un’esclamazione di pura, ingenua sorpresa e per poco non franò addosso a un passante.
«Che cosa!?» esclamò, con la stessa espressione smarrita di chi viene risvegliato bruscamente da un sonno profondo.
«Animale!» lo apostrofò Asuma, sventolandogli davanti i fogli delle missioni. «Io e Raido stiamo lavorando,hai presente il significato di questa parola?»
Il jonin dello sharingan si rammentò solo allora di quello che stava facendo, della via in cui stava camminando, dei compagni con i quali stava passando la mattinata.
«Io potrei anche pensare di perdonarti, se tu mi dicessi come si chiama la straniera con la quale passeggiavi amabilmente qualche giorno fa.» s’aggiunse l’altro riprendendo a camminare.
A Kakashi si rizzarono le radici dei capelli, ma rimase impassibile.
«Devo proprio farti notare che quella di accompagnarla a visitare il Villaggio era una missione affidatami dal Terzo Hokage in persona?»
Raido allungò il collo verso il collega, che veniva loro dietro con la sigaretta in una mano e i documenti nell’altra. «Ti risulta che tuo padre assegni missioni del genere?»
«Diamine, no! Altrimenti sarei nel suo ufficio ogni giorno della settimana.»
Kakashi ebbe un ghigno. «Sì, eh? Credo proprio che questa andrò a raccontarla a Kurenai, vediamo cosa ne pensa lei delle missioni dell’Hokage.»
«Non mi piegherò a questi sporchi ricatti.» affermò Asuma, ma sudò segretamente freddo.
«Almeno, ci vuoi dire come si chiama?» insistette Raido.
«Sì, dicci come si chiama.»
«Taci, Asuma, queste sono informazioni riservate ai soli jonin single
Kakashi osservò la strada che stava percorrendo, le foglie cadute dagli alberi che vi si posavano dolcemente. Aveva smesso di piovere.
La vista offusca molte cose. È per questo che porti la maschera?
«Si chiama Reiko.»
«Reiko.» ripeté Raido, portando le mani dietro alla testa come per sorreggerla e osservando pensoso i nuvoloni neri sopra di sé. «E dimmi, è bella questa Reiko?»
Ma l’unica risposta che ricevette fu una sberla sulla nuca da parte di Asuma.
«Ma che ho fatto?!» protestò il jonin massaggiandosi la testa.
Per tutta risposta l’altro gli indicò il copia-ninja con un cenno della testa.
Raido spostò lo sguardo su Kakashi, e lo vide fare molta più attenzione alle foglie degli alberi in balia del vento che al terreno dove metteva i piedi.
«Cielo, è partito un’altra volta.»
Asuma ghignò. «Credo che tra un po’ di tempo non ci saremo solo io e Kurenai da prendere in giro.»
 
Il sangue le scorreva caldo lungo le braccia.
Non stava servendo a nulla massacrarsele con il kunai; il sigillo continuava anche sotto la pelle, non aveva senso scavare, e sopportare quel dolore illogico e folle, per rincorrere l’unica speranza fantasma di poter afferrare finalmente la libertà.
Il sangue le scorreva caldo lungo le braccia, e gocciolava sul pavimento, le sporcava i vestiti abbandonati sotto di lei, ma non le importava.
Ecco, forse aveva trovato!
Le tremavano le mani, le cedevano le gambe – forse stava perdendo troppo sangue? –, ma trovò lo stesso la forza per appoggiarsi la punta del kunai sull’unico simbolo in mezzo al ventre. Strinse l’arma con più forza, nonostante fosse bagnata e le scivolasse tra le mani.
Doveva solo premere di più…
«Che cazzo stai facendo?!»
Daisuke irruppe in bagno gridando imprecazioni. Le afferrò un polso, lei neanche si ribellò quando le strappò il kunai di mano e lo lanciò dall’altra parte della stanza.
«Tu sei fuori di testa.» mormorò portandola fuori e facendola sedere sul letto. «Ma che schifo.»
Corse di nuovo in bagno, e quando ne uscì portava con sé alcool e fasciature. Le si sedette accanto, e le prese le braccia. Doveva pulirle dal sangue, ma prima di ogni altra cosa doveva fermare l’emorragia.
«Questa me la devi spiegare. Ah sì, questa me la spieghi proprio.» borbottava mentre trafficava con le bende. «Rompere un sigillo con un kunai. Che idea geniale! Chissà perché non è venuta a me.»
Reiko chiuse gli occhi mentre l’altro si dava da fare per medicare le ferite che si era autoinflitta.
Non sapeva davvero che cosa le fosse preso. Le si era annebbiata la vista, aveva gettato all’aria qualsiasi traccia di lucidità e si era lasciata trascinare via dalla rabbia e dalla disperazione. Era stata una grandissima stupida, e quasi avrebbe meritato di morire in quel modo, così disonorevole, tanto le sembrava patetico il suo gesto a pensarci lucidamente.
«Non dovresti stare qua a medicarmi.» disse infatti.
«Guarda che non mi sto mica divertendo a pulire tutto questo sangue. Santo cielo, te l’hanno mai detto che non si muore tra atroci dolori a ringraziare qualcuno?»
«Non è per questo…». Non l’aveva mai guardato in faccia. «E’ stato un gesto debole. Sarebbe stato più giusto lasciarmi così.»
La risposta che le sue parole ottennero fu solo il silenzio, ma il moto esperto e veloce delle mani di Daisuke sulle sue braccia non accennò a volersi fermare nemmeno per un istante.
«…Grazie.» disse alla fine. Era la seconda volta che lo ringraziava, ma si sentiva come in dovere di dovergliene mille altre di quelle piccole inutili parole.
«Tu dai davvero uno strano significato al termine “giustizia”.» fu il suo “prego”.
Reiko ebbe un sorrisetto amaro. Lo sapeva bene, come sapeva anche che non era quello che il suo cuore condivideva, ma «E’ l’unico che mi abbiano insegnato.»
Lei era completamente nuda, lui si trovava a pochi centimetri dal suo corpo, eppure non c’era imbarazzo tra di loro, né alcuna forma di malizia. Semplicemente, nessuno dei due si sarebbe mai sognato di pensare all’altro come oggetto di desiderio sessuale o potenziale amante, o anche solo come esponente del sesso opposto.
«Vedi, è questo che mi preoccupa». Quando sentì le fasciature ben salde sulle braccia e il bruciore delle ferite farsi più ovattato, Reiko si accorse che Daisuke aveva finito e la stava guardando.
«Che cosa è successo?» le domandò.
«È stato un gesto folle, lo so, ero semplicemente stanca di tutto questo.»
«Reiko». La sua voce era troppo seria perché lei potesse continuare a evitare il suo sguardo. «Sono tanti anni che fai questo lavoro; se avessi fatto queste scene durante tutte le missioni che ti sono state affidate non saresti sopravvissuta così a lungo. Che cosa ti è successo?»
La ragazza voltò la testa di scatto e si alzò nervosamente dal letto. Le girava lievemente la testa – aveva davvero perso un bel po’ di sangue –, ma ignorò fermamente la propria debolezza per andare all’armadio e cercare qualcosa di pulito da potersi mettere addosso. «Non mi è successo niente.»
«Cosa non va con Hatake?» continuò invece lui, imperterrito.
Reiko preferì non rispondere per concentrarsi sugli indumenti che aveva davanti.
«Maledizione, ma perché non me ne vuoi parlare? Io ci morirò, per questa cavolo di missione, sarebbe carino se mi facessi sapere che problemi ci sono a portarla avanti!»
«Taci, per favore.» fu la dura risposta di lei. Afferrò la prima cosa che gli capitò sottomano e richiuse l’anta con rabbia.
Daisuke la osservò, la scrutò bene, prese atto di ogni suo minimo movimento, espressione del viso, inflessione della voce. Forse non era mai stato adatto a tutte quelle cose da ninja, poteva ammetterlo, forse non sapeva dedurre quanti nemici ci fossero, quante armi avessero addosso e in quanto tempo avrebbero attaccato. Forse non sarebbe mai riuscito a prevedere le mosse di un avversario, forse non aveva i riflessi abbastanza pronti da permettergli di schivare tutti i colpi; ma una cosa la sapeva fare, sapeva capire le persone.
«Allora è questo. Ti sei spinta troppo oltre.»
Reiko s’irrigidì. Si strinse il nodo della tunica talmente tanto stretto da mozzarsi il fiato, ma le ci volle qualche istante per richiamare il proprio autocontrollo e mollare la presa sulla stoffa.
«Non mi provocare.»
«D’accordo!» esclamò alla fine il compagno, alzando le mani in segno di resa. Raccolse le bende e rimise in piedi. «Ti lascio stare, se vuoi. Ma io mi chiedo, e farai bene a chiedertelo anche tu, se riuscirai ad ucciderlo quando sarà il momento di farlo. Sai, non mi piacerebbe che tu lo scoprissi una volta che io sono morto inutilmente.»
Dopodiché Daisuke sparì nella stanza accanto, mentre lei, sola, si ritrovava a dover fare i conti con l’incommensurabile peso delle sue parole, il peso di una verità che non voleva accettare e che ora gravava irrimediabilmente sulle sue spalle.
Il peso della sua debolezza.
«Non ci riuscirò.» si ritrovò a sussurrare. Rincorse il compagno, aprì con foga la porta, ora cercava un appiglio. «Daisuke. Io non…»
Il compagno prima le scoccò uno sguardo stupito, che subito si addolcì.
Non aveva avuto bisogno di tanto tempo per rompere la propria corazza, si ritrovò a considerare. Era proprio quello che sembrava, una ragazza con un gran cuore e troppi sentimenti, che tentava in ogni modo di fare la dura per soffocare la propria natura.
Le sorrise. «Adesso me lo vuoi dire che cosa è successo?»
 
A Kakashi succedeva spesso di puntare la propria attenzione su un particolare, un insignificante dettaglio, capace di catturare tutti i suoi pensieri – ma al tempo stesso liberarli. Poteva capitargli di passare ore intere a fissare o ascoltare l’inaspettato oggetto del suo interesse.
Quella volta era stato il lieve ma prepotente suono degli estremi del suo coprifronte che sbattevano, dietro la nuca, in balia del forte vento che si era alzato.
«E muoviti, Gai, restatene impalato lì ancora un po’ e vedrai come ti cadranno addosso tutti questi nuvoloni qua sopra!»
«Arrivooo!»
È un bel suono, pensava intanto il jonin. Era la colonna sonora più adatta per tutti i complicati giri di pensieri che lo appassionavano così tanto, e per un certo genere di ricordi.
«La prima cosa che farò quando raggiungeremo questo stramaledettissimo locale sarà ordinare una bella bottiglia di sakè.»
«Hai ragione, non c’è niente di meglio del sakè in una giornata piovosa come questa.»
«Tu berresti sakè ovunque, è inutile che usi la pioggia come scusa.»
Aveva passato tutto il giorno a pensare a lei. Tutto il giorno. E ancora non riusciva a smettere di farlo. In lei c’era qualcosa di ipnotico, un’ipnosi simile a quella che esercitavano i piccoli particolari, come il suono della stoffa che veniva frustata dal vento.
Una goccia di pioggia.
Proprio in mezzo agli occhi, una delle poche parti del suo viso che non fosse nascosta da qualcosa.
Kakashi sbatté le palpebre, e in un istante si ritrovò catapultato al centro di una strada, sotto un cielo grigio sempre più cupo, in compagnia di cinque o sei persone che si accorse di conoscere.
Era bastata solo una goccia di pioggia per rompere l’incantesimo. Una cosa così insignificante, eppure così potente. Come il verso di un gufo.
Magari con le arti illusorie fosse altrettanto facile., si disse con un mezzo sorriso, e immediatamente tutti i suoi pensieri si spostarono da tutt’altra parte.
Sospirò. Si conosceva bene, e le volte in cui la sua mente sembrava voler fuggire ad ogni costo da qualsiasi cosa ci fosse di reale non erano proprio i migliori in cui intrattenere relazioni sociali.
«Sta per venire giù un bel temporale, forse è meglio che vada a casa.» disse infatti.
Si girarono tutti a guardarlo.
«Dimmi, qual è esattamente il tuo problema con la pioggia?» Gai gli si era avvicinato e lo guardava di sbieco, occhi socchiusi e sospettosi.
«Sei sicuro?» domandò invece Kurenai; sembrava che a lei dispiacesse davvero del suo rifiuto.
«Davvero, non vi preoccupate. Preferisco riposarmi un po’.»
«Mh… come vuoi. Non sai cosa ti perdi.» concluse Anko riprendendo il cammino.
«…Sakè, lo sappiamo. Diamine, ma tu non pensi ad altro!» la punzecchiò Asuma cingendo Kurenai con un braccio per incamminarsi insieme a lei.
Il copia-ninja finì di salutare anche Genma e Raido, poi voltò le spalle al gruppo e mosse i primi passi verso casa.
Perché non riusciva a smettere di pensare a quella ragazza?
 
Non appena Daisuke mise piede fuori dall’albergo una folata di vento gelido lo investì in pieno, e stringendosi nel mantello si ritrovò a considerare che forse sarebbe stata un’idea migliore tornare in camera e tanti saluti. Si lasciò cullare dalla tentazione per qualche istante, ma alla fine si dovette far forza, costringendosi ad attraversare la piazza.
L’altro giorno aveva visto un negozio che vendeva dei dolcetti splendidi, ed era deciso a portarne qualcuno a Reiko. L’aveva vista così disperata, così stremata, forse qualcosa di dolce le avrebbe fatto bene.
D’altra parte la situazione non era affatto facile. Da come ne aveva parlato, Daisuke aveva capito che si trattava di una forte implicazione sentimentale. Ovviamente lei non l’avrebbe mai ammesso, probabilmente non aveva neanche voluto accorgersene, ma lui riusciva a vederlo bene.
Il ninja scosse la testa mentre camminava. Non sarebbero riusciti a completare la missione in quel modo, ne era certo; e se da un lato, vigliaccamente, quella consapevolezza lo sollevava, dall’altro si chiedeva che cosa avrebbero fatto. Avrebbero dovuto ribellarsi del tutto al crudele sistema della Notte che da sempre li aveva controllati? In tal caso sarebbe stata una ribellione suicida, ed entrambi lo sapevano molto bene.
Il vento si era alzato. Doveva tenersi il cappuccio con una mano per non vederlo trascinato giù, e l’aria gelida gli penetrava attraverso gli abiti per allungare le proprie dita fin dentro alle sue ossa. Meno male che gli avevano raccomandato il clima mite e piacevole del Paese del Fuoco…
Si bloccò nel bel mezzo della strada che stava percorrendo. Gli era sembrato di sentire qualcuno avvicinarsi.
Attese, ma il suonò non si ripeté; stava per convincersi di esserselo inventato, quando intravide davanti a sé la sagoma scura di un uomo andargli incontro.
Daisuke ebbe un brivido, senza neanche saperne il motivo; lo attribuì al freddo e riprese ad avanzare.
Il nuovo arrivato interruppe il proprio passo quando fu a pochi metri da lui. Il ninja avrebbe voluto ignorarlo e proseguire, ma fu costretto a fermarsi anche lui quando lo riconobbe quando lo riconobbe. Ora il suo brivido acquistò un senso, come anche il sudore freddo che d’un tratto aveva sentito scendergli lungo la colonna dorsale.
«Buonasera, Daisuke.»
Il volto dell’uomo era coperto da un mantello – era rosso scuro, non blu come il suo e quello di Reiko –, ma Daisuke riuscì lo stesso ad avvertire il suo sorriso.
Strinse i pugni. Regola numero uno: mai dare a vedere il minimo segno di disagio.
Si costrinse a sorridere, replicando una delle sue tante espressioni amichevoli.
«Buonasera a te, Akahito. Non mi aspettavo di vederti da queste parti.»
Il sorriso dell’altro si allargò. «Sono venuto a controllare che il lavoro venga svolto.»





Ciò che dice l'Autore 

Oggi sono un po' stanca e un po' scazzata, questo mix di cose mi rende alquanto nervosa e mi rendo conto che non è esattamente la condizione migliore con cui pubblicare un nuovo capitolo (che, tra l'altro, non mi piace per niente, ma sarà la giornata...). Spero comunque tantissimo che vi sia piaciuto, nonostante il mio pessimo umore attuale, e che questa storia continui ad appassionarvi (se mai l'ha fatto xD)
Un abbraccio a tutti, e un gran ringraziamento a quelli (pochi ma buoni ;D) che seguono questa storia.
Glory.


 
  
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