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Autore: SeleneLightwood    21/03/2013    3 recensioni
Blaine Anderson ha diciannove anni ed è uno studente di letteratura alla NYU, scrittore in crisi da pagina bianca.
Quando una sera è sul punto di arrendersi, il protagonista del romanzo che sta scrivendo da una vita salta fuori dalla storia e finisce nel suo soggiorno, ricoperto di scritte e grondante d'inchiostro.
Che succede quando ti innamori di qualcuno che non esiste?
"Ci sono delle volte in cui Blaine riesce ancora a sentire l'odore di carta e inchiostro sulla pelle di Kurt".
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PAPER AND INK

 

 

 

Tre

 

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*

 

 

Blaine e Christine, una volta, avevano passato parecchie ore sopra ad un vecchio tomo.

 

Nonostante Blaine avesse già compiuto tredici anni non aveva mai smesso di rifugiarsi all’Inkheart quasi ogni giorno dopo la scuola per dare una mano con i clienti, fare i compiti sul tavolino all’angolo o sfogliare qualche enciclopedia. Era un bambino piuttosto vivace, di solito, eppure passare qualche pomeriggio tranquillo non gli dispiaceva, specialmente quando era di malumore.

 

Sua nonna un pomeriggio aveva notato che era estremamente giù di morale – Jack Slopper del secondo anno continuava a dargli della femminuccia davanti a tutti – e senza pensarci due volte aveva girato il cartellino sulla porta verso la scritta Chiuso. Gli aveva accarezzato affettuosamente i ricci ribelli e l’aveva convinto a osservare con lei un vecchio libro dai bordi ingialliti e la copertina a brandelli.

Blaine ricordava che Christine gli aveva suggerito di passare la mano sulle pagine e di osservare con attenzione e lui si era guadagnato uno sguardo orgoglioso quando le aveva fatto notare che tutte le parole del primo capitolo che iniziavano per S erano in rilievo rispetto alle altre.

“Infatti” aveva confermato sua nonna, prendendo una matita. “Ora guarda”.

Aveva passato la matita delicatamente sopra ad un paio di righe, come se stesse disegnando, e sotto alle parole salire, semplici e sembrava erano comparse delle lettere, bianche in contrasto con il grigio della matita.

“È davvero carino”.

“Era il modo che io e la mia amica Sophie usavamo da ragazze per comunicare in segreto” aveva spiegato con entusiasmo, riportando alla luce altre scritte. “Non che fosse molto utile o avessimo chissà quali segreti, ma è divertente, non trovi? Basta scrivere sotto alle parole che iniziano con la stessa lettera con cui inizia il titolo del libro, in questo caso Secret Garden, con una penna che non scrive più. In questo modo quando ci passi sopra la matita si vedono le parole, e quando cancelli scompaiono quasi del tutto, perché la gomma spiana la carta”.

 

“È bellissimo, nonna” aveva commentato Blaine con sincerità, sporgendosi per abbracciarla. Lei lo aveva avvolto nel suo scialle e gli aveva spostato un ciuffo ribelle dalla fronte. “Ciò che condividi in segreto con qualcuno che ami è sempre bellissimo, tesoro” aveva sussurrato al suo orecchio.

Blaine ricordava di aver pensato che forse sua nonna si stava riferendo più a lui che alla sua amica Sophie.

Segreteria Telefonica del 06 Novembre 2007

Speeeeak.

Blaine, sono io, mamma. Oh, santo cielo, tua nonna ti ha fatto vedere di nuovo Rent, non è vero? Quello non è un film adatto a- no, ci rinuncio, tanto né tu né lei rispondete mai alle mie chiamate. Qual è il vostro problema, esattamente? Senti, tuo padre vuole sapere se più tardi potete lavorare un po’ alla macchina, sai, per – per legare un po’? Richiamalo.

 

“Se ci pensi è la stessa cosa che succede con le cose che ti fanno soffrire, come ad esempio tutte le cose orribili che ti dice Jack. Certe parole rimangono impresse sulla pelle anche se non puoi vederle, Blaine. Un po’ come se fossero state incise con una penna che non scrive. Rimangono lì, dove tu sai che ci sono, fino a che qualcuno non le riporta in superficie passandoci sopra una matita”.

“Allora qual è la cosa positiva, nonna?”

Christine aveva sorriso. “Il bello è che dopo puoi cancellarle, piccolo”.

 


 

New York City, East Village,

22 settembre 2013

 

Kurt stringeva il proprio caffè come se stesse cercando di trasferire energia direttamente dal calore del liquido alle mani.

“Non mi ricordo niente” ripeté debolmente, cercando gli occhi di Blaine come se lo stesse supplicando di capire. “L’ultima cosa che mi viene in mente è la scuola, ricordo di essere arrivato, e l’attimo dopo – io –“

Il McKinley, rifletté velocemente Blaine mentre osservava le spalle di Kurt alzarsi e abbassarsi in un respiro profondo. L’ultima scena che Blaine aveva scritto prima che Christine morisse si svolgeva a scuola: David Karofsky spingeva Kurt contro l’armadietto.

“Penso di essere svenuto, ma non ne sono sicuro” continuò Kurt strofinando il pollice lungo il bordo della tazza. Blaine si soffermò a lungo sulle frasi impresse sul dorso di una delle sue mani, perplesso, fino a che Kurt non parlò di nuovo. “Non volevo finire qui, giuro, non ho idea di come ci sono arrivato, devi credermi” mormorò velocemente, tremando.

Probabilmente pensava che Blaine l’avrebbe buttato fuori di casa e abbandonato da solo chissà dove. Come se ne fosse capace.

“So solo di aver sentito qualcuno che parlava – ma non so cosa stesse dicendo, non riesco a ricordarmelo – e poi è diventato tutto buio”.

Blaine tentò un sorriso incoraggiante al di sopra del bordo di ceramica della sua tazza per fargli capire che andava tutto bene. L’ultima cosa che voleva era che Kurt avesse un altro attacco di panico.

“Pensi che qualcuno ti abbia aggredito?” chiese con delicatezza, lottando contro l’impulso di raggiungerlo e abbracciarlo quando Kurt sbiancò e scosse la testa velocemente.

Bugia. Blaine aveva scritto che Kurt era stato sbattuto contro l’armadietto da Karofsky. Tuttavia qualcosa gli diceva che non fosse quello il motivo della presenza di Kurt nel suo – universo, a questo punto.

L’espressione spaventata di Kurt scatenava tutto il suo istinto protettivo. Il ragazzo si morse nervosamente un labbro. “Oddio, è tutto così confuso e so cosa può sembrare, ok? Potrei benissimo essere un rapinatore professionista o un serial killer e tu ti sei ritrovato uno sconosciuto nel tuo soggiorno che ora porta i tuoi vestiti e tutto quello che riesco a dirti è che non ricordo niente! Capisco se non mi credi, davvero, non mi credo nemmeno io, ma –“

Kurt” lo interruppe Blaine sporgendosi verso di lui e prendendogli la mano d’istinto. Lui ammutolì e sgranò vagamente gli occhi. Proprio come il suo personaggio, quando Kurt si agitava iniziava a blaterare cose ad una velocità inverosimile. Scrivere i suoi dialoghi con se stesso era sempre un’odissea, ma Blaine li adorava. “Ti credo, ok? E poi qual è il serial killer che ha un attacco di panico di fronte alla propria vittima?”

Kurt avvampò di vergogna e Blaine iniziò a chiedersi quando il panico avrebbe preso anche lui, esattamente. Ma se per ora riusciva a reggere la situazione con calma, tanto meglio. Avrebbe avuto tempo per dare di matto dopo.

“D’accordo, l’importante è rimanere calmi” cercò di ragionare, gesticolando ampiamente con la mano libera. L’altra stava ancora stringendo delicatamente le dita di Kurt, fredde come il marmo. “…e cercare di capire cos’è successo. L’unica cosa che non riesci a ricordare è come sei arrivato qui?”

Kurt esitò per un istante, probabilmente nel tentativo di riordinare le idee, e abbassò lo sguardo per fissarsi le ginocchia. “Sì” rispose dopo un po’, spostando lo sguardo incredulo sulle loro mani intrecciate sul divano. “Ma non è l’unica cosa che non va”.

Appoggiò la tazza sul tavolino lì di fianco e prese a tormentarsi il bordo della maglia con la mano libera. Alla fine arrotolò ancora più su la manica e gli mostrò il braccio.

“Io – perché ho questi tatuaggi?” chiese preoccupato mentre Blaine allungava la mano, esitante come a chiedere il permesso, e sfiorava il contorno delle parole con l’indice, leggero come una piuma. L’illuminazione lo colpì mentre seguiva la linea di una delle frasi sulla pelle nivea dell’incavo del gomito. Quella era la sua scrittura. Quelle erano le sue parole, la sua storia. Kurt aveva incisi addosso pezzi del suo libro.

Never been kissed, la frase sulla sua guancia. Kurt confessava a Mercedes, nel primo capitolo, di non essere mai stato baciato.

“Tutte queste parole sparse in giro” riprese Kurt, ignaro della sua scoperta. “Alcune sono intere frasi. Ma io sono agofobico, non mi farei mai dei tatuaggi, quindi non capisco come – come siano comparse e perché”. Io forse lo so. “Non posso essere svenuto mentre me ne facevo uno. Ero a scuola”. Kurt arrossì e prese a giocherellare con un ciuffo, sottraendo il braccio all’analisi di Blaine. “Scusa, informazioni inutili. Neanche ci conosciamo”.

Però questo non lo sapevo, notò Blaine mentre sorrideva a Kurt. Credevo di sapere tutto di te.

Tentò di alleggerire la tensione, sollevando entrambe le mani in segno di resa e commentando: “Giuro che non arrotondo il mio stipendio inesistente facendo il tatuatore e che non ti ho trascinato qui dopo averti tramortito. E io svengo ogni volta che vado a farmi le analisi del sangue, quindi ti capisco”.

A Kurt sfuggì una risatina e Blaine sorrise soddisfatto. Chissà, forse si nascondeva un intero universo dietro alle cose che Blaine non aveva mai pensato di scrivere su Kurt. Chissà se gli piacevano gli spaghetti o la pasta corta, o se preferisse il tè con lo zucchero o con il latte.

“È che – scritte” ripeté Kurt sgomento come se stesse cercando di convincersi della loro esistenza solo fissandosi le mani. “Non sono fatte con il pennarello, ho strofinato tantissimo sotto la doccia e non vengono via”. Blaine pensò che quello non fosse affatto il momento di immaginarsi il protagonista del suo romanzo sotto la doccia. “E poi ero ricoperto di inchiostro da capo a piedi, i vestiti sono tutti macchiati, neanche fossi caduto dentro un calamaio. E le scritte sono – sono orribili”.

L’enorme senso estetico di Kurt iniziava a farsi sentire attraverso il panico e l’ansia.

Non sono orribili. E tu sei meraviglioso.

Ops. Questo non avrebbe dovuto pensarlo.

“Ok, partiamo da capo” disse Blaine ostentando una sicurezza che era consapevole di non possedere affatto. Dei due, però, era quello che aveva alcune delle risposte. Doveva solo trovare il modo di rivelarle a Kurt senza sembrare fuori di testa. 

Non stava più stringendo la sua mano, così sentì il bisogno di tenere le mani occupate e iniziò a sfilare piume dal cuscino del divano. “Ti chiami Kurt Hummel, fin qui ci siamo” snocciolò, sperando che Kurt non cogliesse lo sguardo colpevole che era certo di avere in faccia. “Che altro? Voglio solo aiutarti” aggiunse quando Kurt si passò una mano sulla nuca, esitante.

“Aspetta” disse lui alla fine, sciogliendo l’intreccio delle sue gambe e frugandosi in tasca con le mani che ancora non avevano smesso di tremare. “Avevo il cellulare e il portafoglio con me, ci sono i miei documenti”.

Estrasse la carta di identità da un elaborato portafoglio il pelle e la passò a Blaine. “Vivo a Lima” spiegò mentre Blaine osservava la fototessera in cui un Kurt più giovane e sorridente arrossiva verso l’obiettivo. “Ho diciotto anni – li ho compiuti a maggio – e ho appena iniziato l’ultimo anno al Liceo McKinley, non so se lo conosci, e… uhm, abito con mio padre, sua moglie e il mio fratellastro Finn. Mio padre è un meccanico, il suo garage si chiama Hummel Tire & Lube”.

Ancora una volta le informazioni che Kurt gli stava dando corrispondevano con quelle del libro. C’era un altro modo per essere sicuri che quello fosse Kurt, nonostante fosse ormai piuttosto ovvio.

“Diciotto anni a maggio?” chiese Blaine cercando di sembrare vago. Ti prego, non prendermi per uno stronzo. “Non dovresti essere un senior*?”

Era una domanda estremamente invadente e ne era consapevole perché sapeva il motivo per cui Kurt fosse ancora un junior, al penultimo anno. Dopotutto l’aveva inventato lui.

Gli occhi azzurri di Kurt scivolarono verso il basso e lui avvampò. “Sì, dovrei, ma ho perso un anno di scuola quando avevo nove anni, quindi sono indietro”.

 La carta d’identità tremò tra le sue dita.

Kurt aveva saltato un anno quando Elizabeth Hummel si era ammalata ed era morta. Ed era tutta colpa di Blaine.

“Ho – Avrei due domande” mormorò timidamente Kurt, strappandolo ai suoi pensieri. Blaine lo trovò intento a scrutarlo come se stesse cercando di carpire informazioni direttamente dalla sua testa. Attese pazientemente, cercando nel frattempo di non essere schiacciato dall’assurdità della situazione. “Uno. Dove mi trovo? Perché quella là fuori non è Lima” disse, lanciando un’occhiata veloce ai vetri bagnati della finestra.

Blaine prese un respiro profondo prima di rispondere. “Non farti prendere dal panico, ma – siamo a New York. East Village, per la precisione”.

Kurt sembrò dimenticare per un istante l’assurdità della situazione, perché spalancò la mascella e fissò Blaine. “New York” ripeté lentamente, immobile come una statua. Blaine sapeva che Kurt aveva una vera e propria venerazione per quella città. “New York City”.

Sembrava che fosse meno propenso a credere a questo che all’essere scomparso da Lima e riapparso nel soggiorno di uno sconosciuto.

“Se guardi fuori dalla finestra si vedono le luci dell’Empire State Building, oltre Central Park. Molto in lontananza, certo, ma si vedono” gli disse Blaine facendosi sfuggire un mezzo sorriso di fronte alla sua espressione completamente sconvolta.

Kurt non si mosse dal divano, forse troppo stupito persino per alzarsi e controllare. “Ma io vivo in Ohio” obiettò logicamente, con un tono di voce che faceva pensare che iniziasse a non crederci più nemmeno lui. “Lima Schifezza Ohio, con il più alto tasso di patetici omofobi provinciali dalla mente sigillata dentro scatoline per le caramelle di tutta l’America. Non posso essere a New York”.

Se la situazione non fosse stata così complicata e tesa Blaine probabilmente avrebbe riso del suo acume.

“So che è assurdo, ma è la verità. Riusciremo a capire cos’è successo, ne sono sicuro” cercò di confortarlo.

Kurt lo osservò con attenzione. Nonostante si fosse rivestito Blaine si sentì nudo di fronte a quello sguardo azzurro che sembrava intenzionato a sondargli l’anima. “Le domande sono improvvisamente diventate quattro” disse a voce bassa, avvicinandosi impercettibilmente.

 Ah, giusto. Kurt amava fare elenchi.

“Numero due: perché sento di potermi fidare di te anche se non ci conosciamo? Numero tre: “Perché vuoi aiutarmi? Non che non mi faccia sentire terribilmente meglio, lo fa, ma perché?”

Blaine si morse il labbro, indeciso. Doveva spiegare a Kurt quello che sapeva – ovvero che era quasi sicuramente saltato fuori dal libro – ma poteva dirgli di esserne l’autore?

“Numero quattro” mormorò Kurt spostando lo sguardo da Blaine al tavolino. Blaine ne seguì la traiettoria e scoprì che stava guardando il foglio di appunti. “Perché lì c’era scritto il mio nome, e ora non c’è più?”

Kurt lo stava guardando come se si aspettasse che Blaine gli dicesse che era tutto uno scherzo da un momento all’altro. Peccato che Blaine non poteva farlo. Non poteva semplicemente cancellare le scritte sulla sua pelle e rispedirlo a casa, non sapeva cosa fare.

“Ok” disse, forse più a se stesso che a Kurt. “Ti puoi fidare di me, Kurt. Ti prego, fidati di me” lo supplicò, prendendogli di nuovo la mano. Kurt osservò rapito il modo in cui le loro dita si intrecciavano con naturalezza. “Devo spiegarti alcune cose ma tu devi credermi, voglio aiutarti. E il perché voglio farlo è parecchio complicato. Promettimi che mi ascolterai fino alla fine”. 

E, nonostante non si conoscessero, nonostante l’assurdità della situazione che si erano ritrovati a condividere, nonostante Kurt Hummel non si fidasse mai di nessuno all’infuori di suo padre, il ragazzo piantò gli occhi chiari nei suoi e annuì.

 


 

Blaine aveva scoperto, con il passare del tempo, che le parole segrete che cercavi di cancellare non scomparivano mai definitivamente.

Se vi si ripassava una matita sopra dopo averle cancellate riemergevano più deboli e meno visibili di prima, ma riemergevano.

Ne era stato deluso – l’ennesima cosa che avrebbe dovuto essere semplice e invece possedeva una quantità infinita di complicazioni – ma non lo aveva detto a sua nonna.

Chissà perché, aveva pensato che fosse quello l’insegnamento che lei aveva voluto dargli: ogni volta che le ritiri fuori e poi le cancelli si vedono di meno. Forse un giorno sarebbero scomparse del tutto. Forse, se continuava a cancellare…

Avrebbe tanto voluto promettere a Kurt che le parole sulla sua pelle sarebbero scomparse, se avessero strofinato abbastanza.

 


 

Kurt era stato coraggioso.

Aveva ascoltato Blaine mentre il ragazzo gli spiegava che pensava fosse uscito dal libro del quale era protagonista. Aveva pianto, aveva urlato che non era possibile, che lui aveva una famiglia, una vita, esisteva.

“Non è vero, Blaine! Dimmi che non è vero, ti prego!”

“Kurt, mi dispiace così tanto. Questo libro racconta la tua storia, e –”

“Ma non è possibile, io – io –“

“Le scritte che hai addosso sono dei pezzi, leggi tu stesso, sono parti del libro”

 

Aveva affondato il viso tra le mani e singhiozzato senza sosta quando Blaine gli aveva detto che era sicuro che Kurt esistesse, solo forse in un’altra dimensione. Aveva sorriso debolmente quando Blaine aveva commentato “chi lo dice che questa è la dimensione giusta? Magari sono io il libro”.

 

“Forse il libro non è altro che un mondo parallelo. Nessuno dice che quello in cui ci troviamo adesso sia quello giusto. Non lo so, Kurt”.

Aveva chiuso gli occhi e si era lasciato abbracciare quando gli aveva chiesto “dimmi qualcosa di me che so solo io” e Blaine gli aveva risposto: “Tua madre ti cantava Look with your eyes tutte le sere per farti addormentare. Tua zia Caroline ti aveva regalato il disco di Love Never Dies e tu avevi sentito quella canzone e avevi chiesto a tua madre cosa significava. E lei ti aveva risposto che era una canzone d’amore che una mamma cantava al suo bambino”.

Kurt era stato coraggioso mentre Blaine gli accarezzava i capelli e gli sussurrava che sarebbe andato tutto bene.

Buffo; non vi era nessuna prova concreta dell’esistenza di Kurt Hummel, tranne il fatto che stava piangendo tra le sue braccia.

 

“Non so cosa fare. Che succede se rimango bloccato qui e non posso più tornare a casa? Incastrato qui senza un futuro, con queste cose orribili addosso, senza – senza –“

“Andrà tutto bene”.

 

Blaine era stato un vigliacco.

Aveva mentito quando Kurt gli aveva chiesto perché sapesse tutte queste cose. Aveva pensato Perché le ho scritte io, è colpa mia, sono io l’autore e aveva risposto: “Perché quel libro è incompiuto e io conoscevo l’autrice, mia nonna. Me l’ha lasciato e io l’ho letto tutto fino a dove era arrivata a scrivere. Ho anche i suoi appunti, forse pensava che avrei potuto continuarlo”.

Aveva mentito, aveva mentito, aveva mentito.

Vigliacco, vigliacco, vigliacco.

“Blaine, tua nonna…?”

“È morta quasi un anno fa”

 

Kurt si meritava la verità ma lui non ce l’aveva fatta.

Si era nascosto dietro ad una patetica scusa – se scopre che sono io ad avergli causato tutte quelle sofferenze non si fiderà di me – e l’unica cosa vera che era uscita dalla sua bocca era stata: “L’ho scritto io il tuo nome sul foglio. Stavo ragionando sulla trama, l’ho fatto quasi sovrappensiero. Forse è quello il tramite, o qualcosa del genere. Il tuo nome dev’essere scomparso quando sei comparso tu”.

Blaine aveva stretto a sé Kurt come se si conoscessero da una vita.

Dopotutto era la verità: si erano incontrati su quella scalinata alla Dalton. Solo che Kurt era parte dell’immaginazione di Blaine. Solo che Kurt non esisteva.

Anche se in quel momento era più reale che mai.

“È colpa mia se sei qui, voglio aiutarti a tornare a casa. Ti riporterò indietro, troveremo un modo”.

L’aveva stretto e Kurt aveva incastrato il viso nell’incavo del suo collo; profumava del suo shampoo, di carta e inchiostro e gli aveva sussurrato: “Grazie”.

Allora Blaine l’aveva detta, l’ennesima bugia: “Le scritte scompariranno, Kurt. Te lo prometto”.

Se anche Kurt avesse capito che Blaine non poteva esserne certo, fece finta di crederci lo stesso.

Ci sono volte in cui la speranza spaventa più della paura stessa. Ma questo Kurt, a differenza di quello del libro, era coraggioso.

 


 

Blaine riempì le due tazze fino all’orlo e tornò in soggiorno, porgendone una a Kurt. Il ragazzo teneva tra le mani il vecchio foglio per gli appunti e ne stava sfiorando i bordi con i polpastrelli.

“Grazie” mormorò sentitamente e Blaine colse uno scorcio di occhi azzurri ancora un po’ lucidi. “Guarda” disse, porgendo il foglio a Blaine e avvicinando il polso. “È la stessa scrittura”.

Lui gli sfiorò il braccio delicatamente, sentendosi come se, osservando quelle scritte, stesse invadendo qualcosa di intimo e personale. Come se l’anima di Kurt si fosse riversata nelle parole tracciate sulla sua pelle. Annuì. “Sì, queste frasi sono passaggi del libro” spiegò tracciando il contorno di Sometimes you can’t make it on your own, A volte non puoi farcela da solo, con l’indice, fermandosi sul dorso della sua mano. È la mia scrittura.

“Voglio leggerlo” rivelò Kurt con determinazione, cercando il suo sguardo come per chiedere il permesso. Blaine lasciò andare la sua mano e sospirò.

“Sì, sono d’accordo” rispose passandosi una mano tra i capelli. “Se non altro perché potrebbe esserci utile o darci un’idea su come riportarti a casa. Ma non stanotte. Dovremmo dormirci sopra e pensarci domani mattina”. Un problema alla volta, Blaine.

Kurt si morse il labbro, preoccupato. “Secondo te la storia lì dentro sta andando avanti anche senza di me? Si saranno accorti che manco? O è come se fosse tutto – tutto congelato in un attimo?”

Blaine si perse per un istante nei suoi occhi. Dopo aver pianto così tanto diventavano di una delicata sfumatura di grigio, limpidi e luminosi. Un’altra cosa che non sapeva di Kurt, nonostante l’avesse creato lui. Doveva pur significare qualcosa.

“Non lo so” rispose sinceramente corrugando le sopracciglia. “Non riesco a capire come funziona. Però fintanto che non c’è nessuno a scrivere, probabilmente è fermo”.

Kurt continuò a giocherellare con il bordo della maglia. “Quand’è stata l’ultima volta che qualcuno ha scritto qualcosa?”

Oggi pomeriggio. Prima che dicessi al foglio – a te – che era solo uno spreco di carta.

“Oggi” rispose, perché almeno un minimo di sincerità glie la doveva. Blaine si sentiva male, all’idea di mentire così. “Ogni tanto provo a scrivere, aggiungere pezzi, ma di solito finisco sempre per cancellare tutto”. E questa era la verità, se non altro. Non una singola parola era stata cambiata definitivamente da quando Christine era morta.

In effetti non capiva come mai Kurt fosse arrivato proprio ora. Però non potevano sapere cosa fosse successo dopo che Karofsky l’aveva spinto contro l’armadietto. Kurt non lo ricordava.

Il ragazzo si stava osservando il polso con aria persa, dove le parole si rincorrevano fin oltre la manica.

“Fin dove arrivano?” chiese Blaine senza pensare, indicando con un cenno del capo il braccio di Kurt. Lui socchiuse gli occhi e scosse la testa.

“È… strano. Quasi ovunque, ma non sul petto. E – non lo so, è come se fosse stato lasciato uno spazio vuoto appositamente per qualcosa, capisci? Tutte le scritte convergono verso il centro, ma – ma al centro non c’è niente”. Kurt si portò la mano in mezzo al petto, all’altezza del cuore. “Come se mancasse qualcosa”.

Manca la conclusione, la chiusura, pensò osservando Kurt spostarsi un ciuffo di capelli dagli occhi. Manca la fine della storia.

 


 

Blaine appoggiò la schiena sul cuscino e le mani dietro alla testa, intrecciate tra i ricci ribelli, socchiudendo gli occhi nella speranza di prendere sonno.

Aveva insistito per far rimanere Kurt a casa sua – dove altro sarebbe potuto andare, a New York, da solo, di notte e senza soldi? Alla fine l’aveva avuta vinta: Kurt sarebbe rimasto da lui fino a che non avrebbero trovato un modo per riportarlo a casa  – e aveva sistemato il divano in modo che potesse dormirci.

Kurt gli aveva augurato una timida buonanotte, ma Blaine sapeva che era ancora sveglio, forse intento a riflettere, forse ad esaminare i ghirigori di parole sulla sua pelle.

Si domandò se avesse fatto la cosa giusta a nascondergli di essere l’autore del libro che lo riguardava. Per quanto ne sapeva, poteva benissimo aver scritto di una persona esistente senza saperlo.

Una cosa era certa: Kurt era reale. Erano spaventosamente veri i suoi occhi azzurri, i suoi sorrisi, la sua pelle chiara solcata dalle parole, il suo profumo di carta e inchiostro, la sua mano intrecciata a quella di Blaine.

Fu quella consapevolezza, probabilmente, che lo spinse ad alzarsi e camminare a passo felpato verso il soggiorno.

Aveva ragione: Kurt non stava dormendo. Era accucciato sul davanzale della finestra e avvolto in una coperta. Si stava distrattamente accarezzando il polso tatuato mentre le luci della città gli danzavano in volto.

Si avvicinò e Kurt lo notò e gli sorrise, facendogli spazio sul davanzale in silenzio. Di nuovo, era come se si conoscessero da una vita. Blaine stava iniziando a pensare che fosse davvero così.

“Probabilmente lo sai” sussurrò Kurt ad un certo punto, rompendo il silenzio. “Ma ho sempre amato questa città”.

Blaine spostò lo sguardo su una goccia di pioggia che scivolava lungo il vetro. “Sì, lo sapevo. Sai che anche io vivevo in Ohio? Westerville, per la precisione”.

Kurt gli lanciò uno sguardo sorpreso. “E ora che abiti qui?” chiese piegando la testa di lato e lasciando che il vetro si appannasse a causa del suo respiro caldo. “Cos’è che ti manca dell’Ohio? Mi sono sempre chiesto cosa mi sarebbe dispiaciuto lasciare indietro, una volta a New York”.

Blaine distolse lo sguardo dalla goccia che colava lungo il vetro e lo posò su Kurt. “In Ohio si vedono le stelle”.

 

 



 

 

Note dell'Autrice

 

E niente, stavolta ho pochissimo da dire!

Si ringrazia come sempre Ilaryf90 per il tempestivissimissimo betaggio (thanks, dear!) e boh, spero che si capisca qualcosa.

Spero.

 

A giovedì prossimo, non esitate a domandare se vedete che ho scritto qualche baggianata!

 

SeleneDiCorsa

 

   
 
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