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Autore: None to Blame    21/03/2013    9 recensioni
Arthur lavora alla Camelot Cost Reduction di Uther, è una macchina perfetta sul lavoro ed una macchina imperfetta nelle relazioni, ha paura del buio, è ancora un bambino anche se non lo è mai stato e conserva nel cassetto il suo sogno più intimo.
Merlin studia Lettere e scribacchia poesie, vive con Will in una topaia e lavora al Roast Dragon di Gaius, scrive recensioni come free-lance, ha un debole per le caramelle gommose e l'alternative metal.
C'è Londra e c'è la Tube, ci sono animali domestici e tende colorate, fotografie ingiallite e storie della buonanotte;
c'è l'atmosfera bohémien degli artisti falliti ed il pessimismo di quelli esordienti;
c'è un po' di caffè per darsi la carica, perché scavare nell'uomo alla ricerca dell'uomo consuma il cuore.
Ed, in fondo, è sempre meglio tenersi per mano e lasciarsi andare.
Genere: Commedia, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù, Un po' tutti | Coppie: Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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III

Le Coq et l’Arlequin

 
 











 
 
 
 
 
« Prendi il cappotto »

Arthur sollevò di scatto lo sguardo dalle scartoffie che stava consultando.
Gwen era sulla porta, i capelli tirati all’indietro da un fermaglio, le braccia incrociate sotto il seno.
Gli stava rivolgendo uno sguardo di severo rimprovero.

« E tu che ci fai ancora qui? »

« Prendi il cappotto, Arthur »

« Gwen- »

« Non hai intenzione di passare il sabato sera in ufficio, vero? »

Lui sbuffò, roteando gli occhi. Era stato vittima di simili scene anche troppo spesso.

« Certamente no, Guinevere. Tempo mezz’ora e torno a casa »

« E, una volta lì, continuerai a lavorare. Sul serio, signor capo »   si avvicinò alla scrivania, poggiando i pugni chiusi sul legno   « hai bisogno di staccare la spina. Perciò, prendi il cappotto. »

Arthur aprì la bocca per ribattere, ma Gwen gli rifilò un’espressione talmente dura che lui si ritrovò a corto di parole.

« Non ammetti repliche? »

« Assolutamente »

Si lasciò sfuggire una mezza risata e sollevò le mani in segno di resa.

« D’accordo, d’accordo, mi arrendo! Tuffiamoci nella movida. »
 
 
 








 
 
 
 
 


 
Se c’è qualcosa di peggiore di Londra durante la pioggia, è Londra dopo la pioggia, quando la cappa pesante sui tetti ancora non si scioglie ed evitare le ondate d’acqua delle pozzanghere – perché le auto sembrano farlo apposta – è una missione impossibile.

« Non te lo perdonerò »

Arthur mugugnò cupo, sollevandosi il colletto del cappotto per proteggersi dalla brezza frizzante che scivolava per le strade.
Al suo fianco, la donna si coprì il ghigno che le era nato sulle labbra con la mano, evitando lo sguardo dell’altro.
Davanti a loro, stava Gwaine e camminava, gesticolando esageratamente mentre blaterava, mandando Arthur fuori dai gangheri.
Si girò, per meglio spiegare un certo concetto – nemmeno Gwen vi prestava attenzione – quando si ritrovò a fissare il viso smorto e privo d’entusiasmo del collega – era il capo, ormai, ma per tutti sarebbe rimasto sempre e solo un collega, sullo stesso livello; e lui non voleva diversamente.

« Perché quella faccia lunga, Arthur? Problemi di coppia? »

Sghignazzando, gli si mise di fianco, stringendogli le spalle con un braccio.
L’interrogato represse l’istinto di mollarsi un pugno e perdere conoscenza – e lo fece solo perché non aveva alcuna intenzione di cadere rovinosamente su quel lurido marciapiede.
La risposta fu vaga – ed insoddisfacente, a quanto pareva, perché, mentre il collega aveva continuato a blaterare delle “due enormi qualità” di Elena e di quanto avrebbe desiderato “saggiarne la consistenza”, lo sguardo scettico di Gwen gli stava trapanando buona parte della visuale. L’empatia di quella donna lo spaventava. Ma, Arthur si concesse di pensare, era quello che la rendeva perfetta per le Risorse Umane, dove l’avrebbe spedita appena si fosse sgonfiato il caos di quel momento – per quanto lei avesse espresso il desiderio di continuare a lavorare in campi inerenti ad architettura e simili, Arthur sapeva che ciò che le riusciva meglio, ciò che la faceva sentire meglio era stare con gli altri, aiutarli per quanto possibile.

Proprio mentre Gwen dava l’impressione di voler approfondire quel discorso su Elena che lui aveva tentato di evitare, Arthur la troncò sul nascere, non appena si rese conto di essere sulla Richmond Way.

« Giusto per curiosità, dove avete intenzione di portarmi? »

Gwaine sorrise, malizioso.

« In paradiso, Arthur. Si chiama Sunnydale ed è il miglior pollaio della città, a soli dieci minuti da qui. La settimana scorsa, lì ho conosciuto questa bella bionda con un chilometro di gambe e un magnifico cul- »

« Non farmi pentire di averti invitato, Gwaine »

« E tu non essere gelosa, Gwen. Tanto sai che sei la mia preferita. »

Arthur interruppe il faceto diverbio al quale aveva prestato ben poca attenzione.

« Vorrei proporvi un’alternativa »
 
 
 
 
 
 
 
 











 



« Questo posto è un mortorio »

Erano trascorsi parecchi anni dalla sua età d’oro e Gaius aveva dimenticato quello che i giovani cercano in un pub, durante le serate dei finesettimana – musica trapana-timpani, cocktail dai nomi intriganti e dubbi ingredienti e, soprattutto, carne calda da mettere sul fuoco.
Lui era un vecchio nostalgico che preferiva servire birra e formaggi al posto superalcolici e stuzzichini elaborati. Aveva sempre cercato di rendere il suo locale simile ad una taverna campagnola – e ci era riuscito, con gran disappunto dei suoi giovani dipendenti. Il Roast Dragon era accogliente, ma alla sera non poteva contare su clienti al di sotto dei quarantacinque anni.

Arthur aveva convinto i due colleghi a fare dietrofront e fidarsi di lui – Gwaine aveva dovuto tirarlo per la manica della giacca, perché quello non aveva alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire la possibilità di stringere amicizia con qualche simpatica fanciulla.

Gwen era stata più accomodante, vista il rinnovato entusiasmo che sembrava aver preso il collega – ma aveva cambiato idea nel momento in cui avevano varcato la soglia del silenzioso pub. La sala era capiente, ma immersa in una luce soffusa che la rendeva piccola e opprimente. Due giovanissime cameriere dietro il bancone armeggiavano con lavastoviglie e bicchieri, un altro girava tra i tavoli con i vassoi in bilico sugli avambracci.
Un impianto stereo non immediatamente visibile trasmetteva una canzone che Gwen era certa di aver già sentito – dream up, dream up; let me fill your cup with the promise of a man. *
Eccezion fatta per qualche accessorio – come registratore di cassa, clienti e cibo –  tutto era in legno. Alle pareti, rivestite anch’esse di pannelli lignei, erano appese riproduzioni di quadri – Degas prendeva il sopravvento, ma c’erano anche Manet ed un Seurat – fotografie di una Londra antica ed una testa di cervo imbalsamata.
Ai tavoli, massicci e squadrati, erano sedute ben poche persone. Un gruppo di pensionati era radunato in un angolo, accanto al caminetto, a bere cedrata, ognuno col proprio bastone sotto il mento ed una ciotola di lenticchie fumanti a raffreddare.

« Per una volta, non posso che concordare con te, Gwaine. »

Lanciò un’occhiata ad Arthur, ma lui ignorò i loro commenti, richiudendo la porta e avanzando nella sala, voltando freneticamente la testa da un punto all’altro della sala, lo sguardo attento che si faceva largo attraverso la fastidiosa penombra alla ricerca di qualcosa.

Ma non c’era.

Reprimendo un moto di delusione, Arthur si accasciò sulla sedia più vicina.

Gwaine, ancora in piedi sulla porta, era allibito.
Lo raggiunse, strizzandogli le spalle, un’espressione al limite della disperazione sul volto.

« Stai scherzando, vero? Vuoi passare il sabato sera in quest’ospizio che puzza di dentiera?! I modelli di sensualità qui sono Nonna Papera e le scarpe ortopediche! »

Non avendo utilizzato un tono di voce adatto ad una considerazione potenzialmente offensiva come quella che gli era uscita di bocca, era stato ben udito dalla ragazzina dalle trecce rosse dietro il bancone – che, divertita, proruppe in una risata cristallina.

Gwaine si voltò, passando alla modalità seduzione – un brillante sorriso, il classico occhiolino ed un leggero movimento della testa per far svolazzare la sua chioma adorata.
Diede all’amico una bonaria pacca sul braccio, prendendo posto accanto a lui – senza smettere di flirtare con la ragazzetta.

« Sai una cosa? Non è poi così male ‘sto posto. »

Gwen era senza parole.

« Ragazzi, vi prego, non potete essere- »

« Buonasera! Benvenuti al Roast Dragon. Volete ordinare? »

Un cameriere si era appena materializzato al loro tavolo, armato di un blocchetto di fogli ed un’avvenenza che doveva essere proibita.

Perlomeno, questo fu quello che pensò Gwen non appena lo vide.

Rivalutando la propria opinione sulla permanenza al locale, si sedette, considerando l’improvviso tremolio delle ginocchia come una minaccia per il proprio equilibrio.

L’uomo le scoccò un’occhiata – e rimase incantato.

Arthur, intanto, che sembrava aver perso ogni vitalità, si decise a fare qualcosa, dato che entrambi i compagni sembravano alquanto distratti, assumendo poi una postura più adatta ad un uomo della sua posizione che non si lasciava abbattere da niente al mondo.

« Ci porti i menù, cortesemente »

Glielo chiese in tono spiccio, fissandolo distrattamente in volto.
Il cameriere sobbalzò, tornando alla realtà.

« Certo, signore »

Gwen scattò in piedi, impedendo frapponendosi fra lui e qualunque posto avesse da raggiungere.
Le gote arrossate e le palpebre spalancate, gli tese la mano.

« Io sono Guinevere, Guinevere Smith! »

Gli altri due occupanti del tavolo si staccarono a forza dalle loro attività – seduzione a distanza e autocommiserazione – per concentrarsi sulla collega, gli occhi sbarrati.

L’altro si illuminò, come se gli avessero appena rivelato un meraviglioso segreto.

« Lance. Un incantato Lance Du Lac »

Le prese delicatamente le dita e, invece di stringerle, si esibì in un perfetto baciamano, mentre Gwen squittiva dall’emozione.

La scenetta sembrava aver attirato l’attenzione della maggior parte dei clienti – i vecchietti erano esplosi in un coro di giubilo per via della dimostrazione di cavalleria di quel giovanotto.

I due non sembravano aver voglia di separarsi né di iniziare un qualche discorso – dalla catena ardente che univa i loro occhi, anzi, sembrava avessero in programma ben altro che una conversazione – ma furono riportati alla realtà dallo scampanellio che annunciava l’apertura della porta.

Anche Arthur si distrasse, voltandosi speranzoso – per poi accasciarsi con maggior desolazione sul tavolo alla vista di un rachitico turista giapponese, con completo di macchina fotografica, che parlottava con la sua sorridente moglie.

Lance si scusò profondamente con Gwen, ma il dovere lo chiamava.
Lei, intanto, si era accomodata di nuovo sulla sedia, lo sguardo acceso e le gote imporporate.

« Almeno tu combinerai qualcosa, stasera »

Gwaine non la smetteva di complimentarsi per la velocità di conquista dell’amica, godendo delle espressioni di improvvisa pudicizia e vaga vergogna che le si alternavano in faccia.

Quando Lance tornò con i menù, lei gli rivolse il più luminoso dei sorrisi e lui non dava segno di volersene staccare.

Arthur si sentì quasi in colpa, ma non poteva trattenersi.

« Senta, ehm, Lance »

Se Gwen era riuscita a buttarsi in pista e ad atterrare in piedi, pensò, cosa gli impediva di provarci?
Quello si chinò su di lui, le pupille che saettavano dal cliente alla sua dama.

« Quel suo collega che mi ha servito l’altra volta, quello con le orecchie enormi, magro… »

Lasciò cadere la descrizione, nell’attesa che quello afferrasse.

« Intende Merlin? »

Arthur fece un gesto vago con la mano.

« Quello che è, non m’importa. Beh, comunque si chiami lui… non è di turno, stasera, vero? »

Lance socchiuse le palpebre e negò scuotendo la testa.

« È già andato via »

Arthur evitò il suo sguardo mentre le dita prendevano a tamburellare sul tavolo.

« E mi sa dire i suoi orari? Ecco, sa, è un vero incompetente e non vorrei incrociarlo per sbaglio e vedermi rovinare la giornata. »

Aveva gli occhi piantati nelle interessanti venature del legno ed il corpo irrigidito e non poté notare il ghigno consapevole dell’interlocutore.

« Mi dispiace, ma non sono autorizzato a fornire informazioni sui miei colleghi »

Arthur deglutì, storcendo la bocca, il viso spento.
I compagni assistevano allo scambio con vivo interesse, incuriositi dall’anomalo comportamento dell’amico.

« Capisco, è naturale. »

« Tuttavia »

La testa gli scattò in alto, una rinnovata speranza palesata sul volto.

« Se torna lunedì, può trovare Merlin dopo le quattro. »

Sorridendo come un bambino la mattina di Natale, Arthur lo ringraziò, senza più preoccuparsi di nascondere il suo interesse – è incredibile quanto sia d’aiuto la penombra, in questi casi.

Lance strizzò l’occhio a Gwen, sorridendole caldamente.
Lei era ancora confusa per quanto accaduto.

Arthur aprì il menù, studiando la lista di panini e omelette, un gorgoglio nello stomaco ed il buonumore rinvigorito.

« Bene, ho un certo appetito! Che dite, birra e salame? »

Gwaine e Gwen lo guardavano straniti, un punto interrogativo stampato in faccia.
E se non gli fecero domande fu solo perché non sapevano da dove iniziare.
 
 
 
 
















 
**

















 
 
 
 
 
Avevano dieci anni ed Ealdor era una sconfinata oasi felice. Avevano tanti sogni ed infinite possibilità, le ginocchia graffiate perché i sassi sbucavano fuori dal nulla, si rintanavano nella biblioteca quando pioveva perché Merlin implorava e schiamazzavano durante le ore di pennichella perché tanto al massimo si beccavano una ramanzina dalle finestre.

Will era sempre stato un piantagrane, testardo come un mulo e polemico, pronto a fare a pugni con chiunque. Però, se finivano nei guai a causa sua, non permetteva mai all’amico di rimetterci, neanche una volta – era deciso a proteggerlo come un fratello e, da fratello, non si mostrava mai in difficoltà.

Un giorno, mentre si facevano la guerra in fondo ai giardini pubblici, trovarono un cucciolo – un gattino spelacchiato che miagolava piano, piangeva come un bambino.
Will lo prese in braccio, carezzandone piano le orecchie, riservandogli le amorevoli cure di una madre.

Per una settimana, la loro routine prevedeva una fuga al parco con qualche avanzo preso da casa per nutrire quel gattino. Giocavano con lui, lo accudivano, gli parlavano.
Merlin sapeva che Will andava dal cucciolo tutte le volte che poteva, anche quando non gli era permesso uscire, anche senza di lui.

Gli diedero un nome – Jimmy, perché suonava bene.

Poi, Jimmy iniziò a manifestare i segni di una malattia e Will attraversò il paese di corsa, da solo, con il gatto avvolto nella sua sciarpa.

Il veterinario gli disse che aveva sviluppato una avanzata forma di gastroenterite virale.

« È meglio così, piccolo, non soffrirà più. Tu non vuoi che Jimmy stia ancora male, vero? »

Quando Will lo raccontò a Merlin, utilizzò lo stesso tono professionale e distaccato – e spaventosamente adulto – del veterinario.

Dopo un momento di silenzio, Will sussurrò « è colpa mia ».

Merlin abbracciò l’amico.

Fu la prima volta che lo vide piangere – e l’ultima.
 
 
 
 
 
 
 












**
 

















 
 
 
« Ma che diavolo… ? »

Merlin si alzò a fatica dal pavimento, sul quale era caduto inciampando in un oggetto non identificato.

Massaggiandosi i gomiti, adocchiò il dannato ostacolo che aveva attentato alla sua vita - era un voluminoso pacco postale avvolto in una carta giallognola.

Inveendo contro il genio malefico che l’aveva appoggiato proprio sullo zerbino nell’ingresso, lo afferrò, studiandolo distrattamente mentre ne strappava la carta.

Un biglietto planò per terra e si chinò ad afferrarlo, mentre un materiale lucido e stomachevolmente rosa balzava fuori dalla carta.

« Cristo »

Un angolo del foglio recava l’elaborato simbolo che la redattrice dell’High Priestess aveva scelto come sigillo della rivista – sembrava un Idra che nasceva dalle fiamme e Merlin lo trovava eccessivamente inquietante per un settimanale destinato ad un pubblico medio-basso.

Quella sadica arpia incuteva timore e deferenza e la sua grafia, sottile ed elegante, rispecchiavano la sua essenza.
Aveva anche la bizzarra capacità di far apparire semplici e cortesi richieste come letali minacce.
 

Emrys,

ti ho fatto spedire i due titoli da recensire entro la fine del mese. Niente posta, stavolta. Inviale al mio indirizzo e-mail: despicable_me@highpriestess.uk
L’autrice è una mia stretta conoscente, perciò mi aspetto grandi cose.

Morgause.
 

Sospirò pesantemente, trasportandosi verso la poltrona ed abbandonandosi allo sconforto.
C’era un pacchetto di caramelle aperto sul cuscino. Vi estrasse un lombrico giallo appiccicoso e mezzo sciolto e se lo cacciò in bocca, succhiando golosamente.


Mentre aspettava di raggiungere il traguardo della laurea, Merlin non era rimasto con le mani in mano. Tra un esame e l’altro, era riuscito a sfruttare alcuni dei contatti che aveva collezionato, guadagnandosi qualche sporadico incarico come recensore – riviste per teenager, perlopiù, che gli affibbiavano da recensire raccolte e romanzetti in stile Piccoli Brividi.
Non aveva mai raggiunto le vette più alte ed il suo era ancora un nome ignoto nel giro, ma non si era lasciato scoraggiare – era solo l’inizio ed il cammino nell’editoria era lungo e tortuoso.
Poi, un giorno aveva accettato un lavoro dalla direttrice della rivista High Priestess – una vera e propria femme fatale. Il titolo che gli aveva propinato era destinato ad un pubblico femminile – dato che il settimanale era, effettivamente, letto prevalentemente da donne – ma lui aveva dato prova di gran malleabilità e “notevole comprensione dell’animo femminile” -  a detta di Morgause – e lei ne era rimasta tanto entusiasta da continuare a contattarlo piuttosto regolarmente.
Merlin, dal canto suo, riusciva quasi a sentire il profumo di un ingaggio fisso.

L’unico insignificante problema era, appunto, la materia prima su cui lavorare.


Sollevò all’altezza degli occhi uno dei due volumi, La gravidanza: affrontala con stile! di Annis Caerleon.
L’altro, più massiccio e meno invitante, era della stessa autrice e sembrava assumersi il compito di ricordare alle donne che La misura non conta per lui, la taglia non conta per te!

Sogghignò alla vista della copertina, sulla quale stavano una bilancia – la lancetta che superava i 70 chilogrammi – ed un omino di marzapane con un perizoma rosso che si era impiccato con un metro da sarta.

Sbadigliando, aprì il volume che aveva in mano, decidendo di saltare l’introduzione e passando direttamente al Capitolo Primo – Tonifica le braccia e tonificherai l’umore.

Era già inoltrato nella lettura, quando il cellulare iniziò a squillare e i Disturbed lo fecero sobbalzare.

Si sfilò l’apparecchio dalla tasca, il nome Will che pulsava sul display.
Col pollice, pigiò il tasto verde.

La voce preoccupata dell’amico gli arrivò diritta al cervello, assieme ad un’insalata di altri rumori poco chiari. La linea era disturbata.

« Hai mangiato? »

« Ciao anche a te, William. E sì, mamma, ho mangiato»

« Non ti credo. Quando torno ti cucino qualcosa. »

Merlin grugnì.

« Hai dato da mangiare ai ragazzi? »

« Ops, dimenticato. Ora lo faccio. »

« Lo spero. Ah, assicurati che Mafalda abbia bevuto. Ieri non ha neanche toccato la vaschetta dell’acqua. Se non ha bevuto, chiama Justin e avvertilo. Digli che poi passo da lui la settimana prossima e lo pago. Il numero di Justin è sul-»

« Will, ho tutto sotto controllo. » 

Un suono scettico dall’altro capo, poi una voce possente sembrò risuonare e la risposta dell’amico gli arrivò ovattata.
Evidentemente aveva coperto il telefono per impedirgli di sentire – e Will non l’aveva mai fatto.
Merlin si impose di non pensarci.

« Piuttosto, tu dove sei? »

« Lavoro. Torno tardi. Ci vediamo dopo. »

« Ah. D’accordo. Will, senti- »

Ma Will aveva già riagganciato.

Per qualche minuto, Merlin si limitò a fissare lo schermo del cellulare – perché era sabato e di sabato il negozio di animali dove Will era stato assunto era chiuso. Ed era chiuso anche la domenica, tranne durante i giorni d’inventario.

Reprimendo la tentazione di ricomporre il numero e chiedere, se lo rimise in tasca e si alzò, decidendo di occuparsi dei ragazzi.

Due anni prima, per il suo compleanno, Will gli aveva regalato un delizioso, morbido coniglietto, grigio, buffo col suo orecchio nero ed intraprendente – Hector.
In seguito, visto che era Will quello che aveva un debole per gli animali, ne vennero adottati altri due – non semplicemente comprati, no, venivano trattati come figli, parte della famiglia. Una femmina a chiazze, Mafalda, ed un grosso batuffolo candido come latte, che divenne Othello.

Economicamente, se ne faceva carico unicamente Will. Merlin aveva provato ad intromettersi, quelle volte in cui avevano bisogno di cure costose, ma l’amico non gliel’aveva mai permesso – faceva parte di quel complesso programma di protezione che Will usava con Merlin.

Per il resto, in teoria si dividevano i compiti; in pratica, Will se ne assumeva la completa responsabilità. Controllava che Merlin, quanto toccava a lui, mettesse la giusta quantità di mangime nelle vaschette, che pulisse bene il fondo della gabbia, che tutto funzionasse alla perfezione.
Erano i suoi pupilli e, nella scala delle priorità di quel folle del suo coinquilino, venivano immediatamente dopo Merlin – che si guadagnava il primo posto.

Vedendolo avvicinarsi col mangime, Hector iniziò a saltellare entusiasta, mentre Othello, alla sua destra, dormiva profondamente. Mafalda – che, fortunatamente, aveva bevuto a sufficienza – lo guardava impassibile.
Aveva quei due occhietti penetranti e spesso Merlin si sentiva a disagio.
Mafalda guardava, Mafalda giudicava.
Sembrava nutrire scarsa fiducia in quel ragazzo mingherlino e si rilassava solo quando il suo padroncino, più in carne e, quindi, accogliente, rincasava e le parlava dolcemente.

A volte, Merlin credeva che lei gli rispondesse.


Finiti i suoi doveri di tutore, tornò alla sua postazione di lavoro – la poltrona.
Dalla lucida copertina rosa, una donna con uno sporgente pancione tondo che sbucava dalla maglietta gli sorrideva felice.

Sbuffò, ignorando il manuale ed estraendo dalla borsa il suo fedele taccuino.

Sfogliando le pagine, lasciava vagare i pensieri.
Rifilò un’occhiata alle ultime parole che aveva scritto in facoltà, la penna che picchiettava ritmicamente contro la guancia.

Merlin era fatto così. Buttava giù sulla carta qualsiasi cosa gli passasse per la mente, in qualsiasi momento ed in qualsiasi situazione – era rinomato per questo, « Merlin? Sarà nel cortile a scrivere ».
Nessuno aveva mai una vaga idea di cosa contenesse quel quadernetto – non faceva leggere niente a nessuno perché era tanto intimo che nemmeno lui decifrava il significato di molti di quegli sfoghi.

C’erano intere pagine riempite da un solo termine, ripetuto più volte, per fissarlo bene nella mente – poteva variare da pollo a circumnavigazione, saltati alla mente durante una lezione. Disegnava occhi sui bordi, scarabocchiava e riempiva i quadratini.

Spesso, confidava all’inchiostro qualche segreto, preoccupazioni.
Spesso erano poesie – solo perché venivano da dentro e non riusciva a fermarle.

Le ultime pagine erano fitte, confuse, immagini tutte diverse e legate da un unico filo conduttore.

Stava rileggendo quello che aveva partorito quel mattino.
Erano frasi stupide, promesse sdolcinate e voglie inespresse.
Le aveva scritte, rilette e cancellate in un momento di rabbia, poi riscritte ed ignorate, concentrandosi sulla creazione di una cornice di cuoricini – anche quella cancellata, ma non ripetuta.
 

Ancora ti incontro,
nudo sul bordo; e canti
pensieri che ti fanno paura.
 

Arricciò il naso, come colpito da un odore da voltastomaco, e si ricordò che non doveva rileggerla. La cancellò con rabbia – la rabbia dell’artista che non ha talento e raccoglie le briciole lungo il sentiero.

Soddisfatto dell’informe macchia nera che restò sul foglio, poi, cercò una nuova pagina.
La osservò per molti secondi, poi minuti. Passò un’ora e la pagina restava intonsa, mentre lui era sovrappensiero.

D’un tratto, la penna si mosse da sola e lui si ritrovò a contemplarne il risultato.

Un unico nome al centro del foglio, in una grafia disordinata e caotica, un nome da solo evocativo e dolce sulla lingua, amaro se letto in fretta, unico sotto l’inchiostro.

 

Arthur
 
 
 
 
 
 
 
 
















Il giorno dopo, Will imprecò contro il coinquilino, svuotando il cesto della biancheria e ritrovandovi le lenzuola che aveva appena cambiato – appiccicaticce ed ancora umide.
 
 
 
 
 
 
 
 











 






**
 
 
 
 
 
















 
 

« Ho saputo che hai fatto conquiste. »

Merlin non ricordava di aver mai visto Lance arrossire, non lo credeva possibile – eppure era lì, in palese disagio e con lo sguardo ridente.

« Non c’è niente da dire. »

« Non ne sarei così sicura, Lancey-boy »

Tracy era sbucata fuori dal nulla, un’espressione maliziosa che stonava con le chiare lentiggini sul naso a punta ed il volto tondo da bambina. Le braccia incrociate sul bancone ed un’aria confidenziale.

« Si è comportato da vero cavaliere, il nostro intrepido amico! Le ha baciato la mano! Cioè, siamo nel ventunesimo secolo e lui le bacia la mano! La faccia che ha fatto lei!Dio, Merlin, ci dovevi essere! »

« È una forma di cortesia e non c’è davvero niente di strano »

Merlin si sporse verso la ragazza, facendole segno di continuare, ignorando il tentativo di autodifesa del collega – che aveva attivato la macchina dell’espresso, quella che doveva funzionare a carbone visto che faceva lo stesso rumore di una locomotiva.

La ragazzina sghignazzò.

« Non è educato, Tracy. Ed è anche di Gwen che state parlando e- »

« E così si chiama Gwen, uh? »

Lance decise di tacere.

Merlin gli mollò una pacca sulla schiena.

« Oh, Lance, sei un tenerone. Questa ragazza è fortunata. »

Il discorso cadde non appena Gaius fece la sua comparsa dietro il bancone, il temuto sopracciglio accusatore, accertandosi che ognuno dei dipendenti facesse il proprio lavoro – non che fosse necessario, in fondo, dato che prima delle cinque raramente ricevevano clienti.

Eppure, la porta si aprì.

E Merlin non fu completamente sorpreso di vedere Arthur Pendragon, in un completo scuro, lindo e senza una grinza, attraversare il locale, scegliere un tavolo isolato e sedersi, appoggiando la ventiquattrore accanto alla sedia.

Non era sorpreso, ma le mani iniziarono a sudargli.
Arthur non l’aveva degnato di uno sguardo, una cartellina aperta davanti a sé ed una penna fra le dita.

Deglutì ripetutamente, muovendosi meccanicamente per preparare il caffè, prendeva una tazzina – la più pulita – e la posizionava sul vassoio.
Con la coda dell’occhio, colse l’espressione divertita di Lance – ed avrebbe indagato in merito, ma non era ancora una priorità.

Camminando verso il tavolo, Arthur che gli dava le spalle, Merlin si concentrò sui propri piedi e sulla coordinazione mente-corpo che gli era tanto estranea, in modo da non ritrovarsi col muso sul pavimento e le gambe attorcigliate – ed un debito con la lavanderia dell’agiato signor Pendragon.

« Ecco il suo caffè. Nero e ristretto, come lo preferisce. »

Con piacere, notò che la propria voce non aveva tradito alcuna emozione – e nemmeno lo fece lo scatto della testa di Arthur, che slittò dal suo volto al vassoio.

« Devo ricredermi sulla professionalità del personale, suppongo. Precedere il cliente col suo ordine… notevole, invero. »

« Fa parte del servizio, signore. »

Gli fece cenno di poggiare la tazza sul tavolo e ridacchiò fra sé, con perplessità del cameriere.

« È perfino caldo, stavolta. »  Poi, sembrò ricordarsi di qualcosa  « Non è zuccherato, no? »

« Perché sei già abbastanza dolce di tuo? »

Seguì un momento carico di imbarazzo.

Il cervello di Merlin inveì contro la lingua che partiva da sola senza pensare e le sopracciglia di Arthur schizzarono verso l’attaccatura dei capelli, sul volto un sincero divertimento.

« Un po’ scontata come battuta, Merlin. »

Quello sollevò il mento, stizzito.

« Tu sai fare di meglio, immagino. »

« Dammi solo una possibilità e ti farò vedere… »

C’era un sottofondo implicito che entrambi parvero cogliere, una promessa dal retrogusto poco pudico – e Merlin dovette distogliere lo sguardo avido dalle sue labbra per concentrarsi sulle figure disegnate sul vassoio.

Cercando un qualunque argomento per infrangere lo scomodo silenzio che si era venuto a creare, si schiarì la gola.

« Beh, come va in ufficio? »

E, ancora una volta, maledisse la propria stupida lingua.
Si morse l’interno della guancia al ricordo di come aveva reagito Arthur quando il discorso era caduto sul tema lavoro.
Lo vide irrigidirsi, le mani strette in pugni nervosi, non incrociava i suoi occhi – e temette di doverlo guardare di nuovo fuggire via.

« Non li segui i telegiornali? »

Ma Arthur non era scappato.
Era ancora lì, sotto lo sguardo preoccupato di Merlin ed aveva scelto come arma difensiva un debole sarcasmo.

« Non molto. »

La bocca di Arthur si allentò in un sorriso flebile, un sussurro che forse rivelò solo a se stesso.

« Allora sei davvero una piccola Alice »

« Io… Eh? »

Il suo tono confuso aprì una breccia nel volto dell’altro.
Questi distolse gli occhi e fece per spiegare, ma il cellulare strillò dalla sua tasca.

Arthur chiuse le palpebre, in un’espressione sofferente. La fronte corrugata, estrasse il telefono e, con un cenno di scuse a Merlin, rispose.

« Percy, dimmi. »

Merlin ebbe la buona grazia di allontanarsi.
Ne approfittò per rimettere il vassoio assieme agli altri, trovando Tracy e Lance impegnati in una fitta conversazione – e non ci voleva molto ad indovinarne i protagonisti. Potevano permetterselo perché l’unico altro cliente era un ragazzino in compagnia di un voluminoso e polveroso libro e una spremuta di arance, nell’angolo più lontano dall’entrata.

Merlin non distolse un attimo l’attenzione da Arthur.
Il gomito sul legno, si reggeva la fronte, l’altra mano che premeva il telefono contro l’orecchio. Parlava a voce bassa, era serio, sgradevolmente professionale.

La telefonata si concluse e Merlin scattò di nuovo verso il tavolo.

Arthur aveva la faccia affondata nei palmi, si nascondeva dal resto del mondo – e nascondeva il resto del mondo alla sua vista.

Deglutì, allungando la mano verso di lui.
Tentennò, incerto, lo stomaco che si contorceva – perché non sapeva come l’altro avrebbe reagito, perché era un nuovo passo e c’era in ballo così tanto che un solo errore avrebbe rovinato tutto.

Gli sfiorò la spalla, gentilmente, ed attese, il viso dell’altro che riemerse di scatto dalla cortina delle sue proprie dita.

Arthur lo guardò, gli occhi sbarrati. Il corpo teso, era paralizzato ed interdetto.

Incrociò lo sguardo fermo di Merlin e si rilassò sotto il suo tocco, la stretta leggera che gli allentò la pressione, il nervosismo si scioglieva lentamente.

Merlin si chinò verso di lui, la presa sulla sua spalla che si faceva più riservata, i loro volti alla stessa altezza.
Un sorriso intimo gli curvò le labbra.

« Raccontami »

Ma Arthur scosse la testa, il cipiglio grave, il tono secco.

« Devo tornare in ufficio. »

Fu Merlin ad irrigidirsi, raddrizzando la schiena ed incrociando le braccia al petto, rendendosi conto di quanta libertà si fosse preso e pensando che forse l’altro non voleva e che era stato uno sciocco e probabilmente doveva ringraziare se quello non gli aveva mollato un pugno e-

« Non riusciremo mai a fare una vera conversazione, di questo passo. »

-e Arthur stava sorridendo. Una punta di ironia gli aveva illuminato gli occhi, prima che il viso si incupisse di nuovo.
Merlin deglutì, profondamente incerto sul da farsi.

« Ehm, già. Vi- vi porto il conto. »

Fece per allontanarsi.

« Ma se volessi? »

Si fermò, Arthur aveva lo sguardo piantato nel suo, fermo e deciso, un poco velato, un angolo lucido.

« Se io lo volessi, se volessi parlarti, se ne sentissi il bisogno- »

« Domani »

Non gli permise di concludere.
Strinse con trasporto la mano attorno al suo braccio, un gesto spontaneo, il viso acceso. Aveva il petto squassato dal batticuore, un sorriso luminoso – solo per Arthur, solo per lui.

« A qualunque ora, sarò qui. Ti aspetto qui. »  
 
 
 













 






 
 
 
 
 




Quella notte, Arthur riaprì il suo cassetto, il secondo cassetto – perché è più intimo. Sorrideva ancora mentre l’inchiostro danzava sulla carta, fluido come mai prima.
Fiduciose, le parole si susseguivano – non più disperate.

Quella notte, la piccola Alice tornò in vita sotto la sua penna, con i capelli neri ed il sole negli occhi. Riprese la lanterna nelle mani paffute e continuò a cercare il tesoro.

Quella notte, Arthur si sentì meno solo.
 
 
 
 
 
 
 







 
 
 
 
 
 
 
 










 
* da Harvest di Neil Young.

 







NdA

Ok, è tardi, lo so. Lo so, è davvero troppo in ritardo. Ma.. no, non ho scuse.
 
Ricordo che, quando l’avevo partorito, questo mi era sembrato un bel capitolo.
Evidentemente, l’effetto su carta è diverso, perché la mia opinione non cambia – lo trovo prolisso e schifoso come il precedente.

Ancora mi sorprende, tuttavia, questo gigantesco successo che ha! Ma, sul serio, è strabiliante! Sono così confusa! *_* Come vi ringrazio tutti quanti?? Vi adoro.

Dunquedunquedunqe, passiamo alle cose serie: il titolo (perché mi piace complicarmi la vita, yay!).
Non ho letto il saggio Il Gallo e l’Arlecchino (appunto, la traduzione) di Cocteau, ma più o meno ricordo di cosa tratta. Ci è stato nominato un numero esagerato di volte a lezione quando si parlava di Nietzsche e del suo maledetto caso Wagner eccetera eccetera e quindi un’idea me la sono fatta. Comunque, l’ho ripreso per evocare il richiamo alla semplicità, il disprezzo per “l’arlecchino” e tutto ciò che è artificioso, elaborato, che si discosta dalla semplicità del quotidiano, come il “gallo” – perché il poeta non è solo chi sceglie come soggetto di un’opera l’astratto presentato in multicolori arabeschi di aulicismi, ma anche e forse soprattutto chi preferisce parlare di una banale e semplice sedia.

Ok, la finisco qui. M’è già venuto mal di testa. Diciamo solo che, nella mia mente bacata, ha un suo senso, probabilmente.

Sappiate che la mia conoscenza del francese è pari a –18,4. L’ultima volta che l’ho “studiato” è stato in seconda media (della serie, me la cavo meglio col tedesco, a questo punto).
Perciò, quando ho letto “coq” a me è venuto in mente “cock” e.. beh, tecnicamente non sta in piedi come scusa, perché pure “cock” significa gallo, ma, suvvia, il “cock” che incontriamo di solito nelle fanficion non è certo quello che fa chicchirichì.
Non è la mia mente perversa. No, no. ù.ù

Btw, spero che il capitolo non sia l’ennesima delusione.

Questo Arthur è un po’ strano, ma purtroppo penso che sia più o meno necessario presentarlo in questo modo.
E avete fatto conoscenza con la piccola Alice! *_*     Poi, abbiamo, naturalmente, Lancelot e Gwen – perché, diamine, loro devono stare insieme, punto e basta.

Comunque, ripeto, spero continui a piacervi, spero di non deludervi mai, spero di non annoiarvi e di non disgustarvi.

Mettetemi alla gogna, se lo desiderate! Uova marce incluse!

Alla prossima! :)
  

   
 
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